Nella diplomazia contemporanea, la parola “giustizia” sembra evocare un’eco morale potente, ma spesso svuotata di applicabilità concreta. Nel caso del conflitto Russia-Ucraina, l’illusione di una pace giusta ha ormai ceduto il passo all’implacabile logica del realismo geopolitico. I negoziati non si fondano su principi assoluti, ma sulla legge del più forte, sull’equilibrio tra concessioni, interessi strategici e costi sostenibili. È questa la conclusione, amara ma inevitabile, che emerge da una crescente convergenza di analisi e testimonianze raccolte nei più recenti vertici internazionali, studi accademici e interviste diplomatiche. Già nel 2022, agli inizi della guerra, l’Occidente aveva fatto proprie le parole d’ordine di una “giusta resistenza”: il ritiro completo delle truppe russe, la restituzione della Crimea e del Donbass, la condanna morale dell’aggressore. Ma a tre anni dall’inizio del conflitto, quel linguaggio appare svuotato. Il terreno, letteralmente e metaforicamente, si è spostato: non si discute più se negoziare, ma come negoziare — e soprattutto quanto cedere. La cosiddetta "giustizia" ha perso presa sul linguaggio operativo della pace. Secondo Federico Rampini (“Corriere della Sera”), la proposta di "Land for Peace" avanzata da Trump dopo il summit di Anchorage è “una cruda ma realistica alternativa alla guerra perpetua”. Le obiezioni morali – per quanto legittime – non reggono di fronte al fatto che Putin non accetterà mai una pace che implichi la propria sconfitta strategica. La sua forza militare resta intatta, il suo controllo su Crimea e Donbass è consolidato e le sanzioni occidentali non sono riuscite a piegarlo. Fingere che si possa ottenere una “pace giusta” è, secondo Rampini, un lusso che l’Europa non può più permettersi. L'ex presidente del Senato Pier Ferdinando Casini, intervistato da “La Stampa”, è altrettanto netto: “Sarà la pace possibile, non quella giusta. Valgono soltanto le regole della forza”. Non è un cinismo sterile, ma un richiamo alla storia: i trattati di pace non sono mai scritti in condizioni di parità morale, ma con l’inchiostro dei rapporti di forza. È così che si costruiscono equilibri duraturi, anche se imperfetti. A conferma di ciò, Francesco Pontelli sul “Nuovo Giornale Nazionale” definisce l’espressione “pace giusta” una “contraddizione intellettuale”: come “acqua bagnata”, è un rafforzativo retorico che maschera l’incapacità di accettare il compromesso. I vertici recenti tra Trump, Zelensky e Putin (documentati da “BBC”, “PBS” e “Sky TG24”) hanno mostrato quanto la diplomazia reale si svolga fuori dai tavoli multilaterali europei e dentro un teatro di potenza bilaterale. L’Europa, troppo vincolata da principi morali e divisioni interne, si è ritagliata il ruolo di spettatore pagante. Il pragmatismo americano — per quanto discusso — ha riaperto il dialogo diretto con Mosca. Il concetto stesso di “giustizia” si è rivelato inefficace: ogni tentativo di fondare la pace su condizioni ideali (restituzione integrale dei territori, processi internazionali, compensazioni) si è scontrato con la totale indisponibilità della Russia a considerare tali scenari. Patrizio Ricci, su “Vietato Parlare News”, evidenzia come la retorica europea della “pace giusta” abbia “prolungato il conflitto più che avvicinato la pace”. Secondo l’analisi, l’insistenza su condizioni irrealistiche (rifiuto di qualsiasi concessione territoriale, ingresso immediato nella NATO o nell’UE) ha bloccato ogni apertura negoziale e costretto l’Ucraina a combattere oltre le sue forze, sostenuta da un Occidente incapace di decidere. La guerra, nel frattempo, ha mietuto oltre 300.000 vittime tra civili e militari, ha distrutto infrastrutture strategiche e prodotto oltre 12 milioni di profughi, secondo dati ONU. Non va ignorato che anche all’interno della stessa Ucraina, il consenso per una pace fondata sul compromesso sta crescendo. Il sondaggio Gallup di agosto 2025 mostra che il 69% degli ucraini è favorevole a una soluzione negoziata, mentre solo il 24% insiste per continuare la guerra fino alla riconquista totale. È un’inversione clamorosa rispetto al 2022. La fiducia nelle potenze occidentali è in calo, mentre cresce la consapevolezza che la “vittoria completa” è una chimera costosa. Alla luce di questi elementi, affermare che “non esiste una pace giusta” in Ucraina significa riconoscere la natura profonda dei conflitti contemporanei: non sono più guerre tra bene e male, ma tra interessi in conflitto e costi inaccettabili. La pace, oggi, è un mestiere sporco che richiede freddezza, compromesso e capacità di guardare oltre la retorica. E se questo significa accettare che la giustizia resti incompiuta, allora forse è un prezzo necessario per evitare nuove generazioni di morti, rifugiati e distruzioni.
Nina Celli, 21 agosto 2025