L’adozione di un reato autonomo di femminicidio viene ampiamente contestata, non solo sul piano simbolico, ma anche per l’inefficacia giuridica e la discutibile funzione deterrente. Secondo numerosi giuristi, sociologhe e penaliste – tra cui le firme di “Il Dubbio”, “Volere la Luna”, “Famiglia Cristiana”, “Il Post” e “Noi Nazione” – la legge non solo non aggiunge strumenti utili all’ordinamento, ma rischia di creare incoerenze e contraddizioni costituzionali. Sul piano strettamente giuridico, la nuova norma è considerata ridondante. Come chiariscono “Il Post” e “Il Dubbio”, l’omicidio volontario è già punibile con l’ergastolo quando aggravato da motivi abietti, crudeltà o legami familiari. La nuova formulazione non innova la sanzione, ma la duplica, introducendo un reato “fotocopia” che si sovrappone all’articolo 575. Non solo: il nuovo 577-bis rischia di generare confusione interpretativa, come lamentano le 80 penaliste firmatarie di un appello pubblicato su “Studi sulla Questione Criminale”, poiché definisce il movente in termini vaghi e soggettivi (“controllo”, “dominio”, “prevaricazione”). Anche la deterrenza penale è messa radicalmente in discussione. Come scrive Aurora Matteucci su “Il Dubbio”, nessuno studio serio dimostra che l’aumento delle pene riduca la frequenza dei reati, soprattutto nei casi di omicidio connessi a dinamiche di gelosia, crisi psichiche o intenzioni suicidarie. Molti femminicidi si concludono infatti con il suicidio dell’autore, rendendo ininfluente qualsiasi minaccia punitiva. È per questo che gli oppositori parlano di “illogicità preventiva”: una legge che agisce post mortem non può prevenire ciò che è già accaduto. Un altro punto critico riguarda la gestione processuale e le garanzie costituzionali. L’articolo analizzato su “Noi Nazione” evidenzia come il nuovo reato introduca un trattamento penalmente differenziato in base al genere della vittima, contravvenendo al principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Il rischio è quello di aprire un precedente per cui lo Stato valorizza la vita in base all’identità sessuale, anziché adottare un criterio universale e inclusivo. La deterrenza, inoltre, è compromessa da un modello repressivo che si fonda su logiche emergenziali, senza accompagnamento strutturale. Come ricordano “Volere la Luna” e “Il Dubbio”, l’assenza di fondi per prevenzione, educazione e reinserimento svuota la norma di ogni efficacia reale. È un reato “a costo zero”, utile per la propaganda ma privo di strumenti per cambiare i contesti sociali in cui la violenza nasce. La legge rischia di soppiantare, anziché rafforzare, le politiche integrate di contrasto. Le critiche si allargano alla strumentalizzazione politica. Come osservano “Me-Ti” e “Il Dubbio”, l’unanimità parlamentare non è segno di forza, ma di conformismo securitario, che attraversa destra e sinistra in nome di un populismo penale sempre più diffuso. Questa bulimia legislativa – oltre 50 reati nuovi nella legislatura in corso – produce norme iper-repressive, spesso inapplicabili o inutili, che saturano il codice penale senza modificare la realtà. Per molti studiosi il reato di femminicidio è giuridicamente ridondante, culturalmente inefficace e pericoloso sul piano sistemico. Un gesto politico più che una riforma organica, destinato a creare illusioni normative piuttosto che reali strumenti di giustizia.
Nina Celli, 1° agosto 2025