L’idea che ogni avanzamento tecnologico generi inevitabilmente la “distruzione” di qualcosa, in cui i deboli soccombono e solo i più forti si adattano è fondata su un pregiudizio. Questa visione trascura un elemento fondamentale: la capacità degli esseri umani, delle istituzioni e delle comunità di anticipare, progettare e adattare il cambiamento tecnologico. L’automazione, di per sé, non è una condanna per i lavoratori. È un processo che, se accompagnato da politiche attive del lavoro, può diventare uno strumento di transizione equa, capace di redistribuire competenze e opportunità, non solo rischi. A conferma di questa prospettiva, l’OECD, nel suo rapporto 2025, ha evidenziato il ruolo cruciale delle politiche attive del lavoro (ALMP) e dei servizi pubblici per l’impiego (PES) nella gestione dell’impatto dell’innovazione tecnologica. In oltre la metà dei Paesi OCSE, sono già attivi programmi specifici che mirano a riqualificare i lavoratori colpiti dall’automazione, indirizzandoli verso settori emergenti, in particolare legati alla transizione verde e digitale. Non si tratta di iniziative isolate, ma di un cambio di paradigma in atto: dalla logica della protezione passiva del reddito alla promozione attiva dell’occupabilità. Corsi mirati, supporto alla mobilità geografica, incentivi per le imprese che assumono profili in riconversione: sono strumenti già sperimentati, in grado di mitigare gli effetti più duri della dislocazione tecnologica. La Svezia, ad esempio, ha introdotto programmi di transizione che accompagnano i lavoratori nella fase di uscita e reingresso nel mercato, con risultati superiori alla media europea. In Grecia, i PES hanno integrato nuove piattaforme digitali per mappare in tempo reale domanda e offerta di competenze. In Irlanda, le politiche verdi e digitali sono state unificate in un unico schema nazionale di aggiornamento professionale. Questi casi mostrano che non è l’automazione in sé a generare disuguaglianza, ma l’assenza di un disegno pubblico forte e reattivo. Un altro aspetto centrale riguarda la distribuzione geografica dell’impatto. La narrativa dominante tende a rappresentare il fenomeno come una marea uniforme che sommerge intere categorie. Ma i dati mostrano una realtà più articolata: l’esposizione alla tecnologia varia enormemente tra regioni, industrie e profili professionali. Il rapporto OCSE segnala che i lavoratori più a rischio non sono solo quelli meno qualificati, ma quelli le cui mansioni non evolvono da anni, in contesti produttivi statici. Laddove esiste innovazione organizzativa, aggiornamento continuo e cooperazione sindacale, la tecnologia tende a integrare, non a sostituire. C’è poi un elemento spesso trascurato: l’IA non è solo un fattore che “sottrae” lavoro, ma può anche “umanizzare” il lavoro, rendendolo più ricco e significativo. Liberando le persone da compiti ripetitivi, può lasciare spazio a funzioni relazionali, creative, strategiche. Il problema non è la tecnologia, ma la scarsità di immaginazione sociale con cui la affrontiamo. Se concepiamo il lavoro solo come esecuzione, allora l’IA è una rivale. Ma se lo vediamo come espressione di valore umano, l’IA può diventarne un alleato. Occorre riconoscere che la transizione tecnologica, per quanto rapida, non è mai istantanea. I processi di sostituzione si sviluppano nell’arco di anni. Questo tempo può essere usato per preparare le persone. Affermare che l’innovazione aggraverà necessariamente la disuguaglianza è una profezia che si autoavvera: deresponsabilizza, paralizza l’azione, alimenta il fatalismo. Invece, riconoscere la controllabilità politica del cambiamento è il primo passo per affrontarlo con coraggio. L’accelerazione tecnologica non è una valanga da subire, ma un terreno da modellare. L’idea che essa generi automaticamente disuguaglianza è superficiale. Con gli strumenti giusti – politiche attive, governance partecipativa, formazione continua – possiamo trasformarla in un’occasione per costruire un mercato del lavoro più giusto, dinamico e resiliente. La storia dell’automazione non è ancora scritta, potrebbe essere anche una storia di inclusione.
Nina Celli, 10 luglio 2025