Nel dibattito sull’intelligenza artificiale ci si focalizza spesso sull’efficienza, sulla produttività, sui vantaggi economici per le imprese e i consumatori. Ma c’è un’altra dimensione, meno trattata ma altrettanto cruciale: l’effetto trasformativo che l’adozione massiva dell’IA sta avendo sul significato stesso del lavoro e sul modo in cui le persone si relazionano con il proprio ruolo sociale. L’accelerazione tecnologica non sta solo spostando le competenze richieste o cancellando professioni obsolete: sta modificando il modo in cui la società misura il valore delle persone, rendendolo sempre più dipendente dalla loro “sostituibilità algoritmica”. In altre parole, stiamo entrando in una fase in cui chi non può dimostrare di essere superiore – o almeno complementare – a un sistema automatizzato, rischia di perdere non solo il lavoro, ma anche lo status sociale che quel lavoro comportava. Questo processo è già in atto e si sta manifestando in forme diverse. Come ha osservato il giornalista Paolo Manfredi in un articolo sul “Sole 24 Ore”, ciò che l’intelligenza artificiale rivela oggi sul nostro lavoro è più inquietante di quanto sembri: “non è tanto la macchina che diventa come l’uomo, è l’uomo che finisce per diventare come la macchina”. L’autore parla di un progressivo adattamento del lavoro umano alle logiche dell’efficienza, della standardizzazione, della prevedibilità. L’ambiguità, l’errore, la lentezza – elementi costitutivi dell’esperienza umana – diventano problemi da eliminare. Ma così facendo, ciò che viene marginalizzato non è solo una fascia di lavoratori, bensì tutto ciò che rende umano il lavoro: l’improvvisazione, il senso, la relazione. La crescente dipendenza dalle AI nei processi decisionali sta anche generando una nuova forma di potere asimmetrico. I sistemi di intelligenza artificiale vengono addestrati su dataset selezionati, gestiti e controllati da pochissime aziende globali, creando un’architettura computazionale opaca e centralizzata. L’analista Michele Kettmaier ha parlato di una “tecnologia che si fa soggetto”, ribaltando il rapporto tra esseri umani e strumenti: “il problema non è se l’IA diventerà cosciente, ma chi decide cosa è etico e con quali poteri”. In questo contesto, i lavoratori si trovano schiacciati tra due forme di pressione: l’automazione delle funzioni operative e la tecnocratizzazione delle funzioni strategiche. Si perde così la possibilità di mediazione, di interpretazione, di critica. Le disuguaglianze che ne derivano non sono più solo economiche o geografiche, ma esistenziali. I lavori ripetitivi vengono automatizzati, quelli cognitivi intermedi vengono “gommapiumizzati”, come li definisce Manfredi, ovvero resi standard e impersonali fino al punto da poter essere tranquillamente svolti da un’AI. Restano solo due estremi: da un lato, una minoranza di ruoli iper-specializzati o creativi ad alto valore aggiunto, spesso inaccessibili; dall’altro, una moltitudine di micro-mansioni, precarizzate e frammentate, esposte alla sostituibilità continua. La classe media professionale, che ha storicamente garantito coesione sociale, rischia di estinguersi, portando con sé il concetto stesso di progresso condiviso. Ciò che aggrava ulteriormente questa dinamica è l’illusione che basti “riqualificarsi” per salvarsi. Studi come quello pubblicato su “ScienceDirect” nel 2025 dimostrano che anche in scenari simulati, dove l’automazione era esplicitamente identificata come causa della disuguaglianza, le persone mostrano solo una moderata propensione a sostenere politiche redistributive. Questo suggerisce che la retorica dell’adattamento individuale – “imparare a programmare”, “sviluppare soft skills”, “essere flessibili” – non è sufficiente. Serve una visione politica ampia che consideri l’impatto strutturale dell’IA sul mercato del lavoro e sulla dignità delle persone. L’accelerazione tecnologica non sta solo creando nuove disuguaglianze economiche, quindi, ma sta ridefinendo i parametri stessi della disuguaglianza. La capacità di essere considerati “utili” in un mondo governato da logiche algoritmiche diventa la nuova linea di demarcazione. Non si tratta più di redistribuire reddito, ma di decidere chi ha diritto a partecipare alla società digitale e chi no. In questa lettura, la tecnologia non è neutra, è un moltiplicatore silenzioso di potere.
Nina Celli, 10 luglio 2025