La narrazione secondo cui l’intelligenza artificiale e l’automazione stiano inevitabilmente aggravando la disuguaglianza rischia di oscurare una verità più complessa: queste tecnologie, se governate con intelligenza politica e visione strategica, possono diventare strumenti utili per ridurre le disparità esistenti. Ciò è dimostrato da numerose esperienze in corso. È vero che ogni grande trasformazione comporta rischi di esclusione, ma è altrettanto vero che l’IA offre leve per correggere squilibri sociali, ampliare l’accesso a servizi essenziali e creare nuove traiettorie di inclusione economica e sociale. Un esempio concreto di questa possibilità ci viene dal World Resources Institute, che nel suo rapporto del 2025 descrive come l’uso mirato dell’intelligenza artificiale stia migliorando la qualità della vita in comunità svantaggiate. In contesti con risorse limitate, le tecnologie digitali possono potenziare gli interventi sanitari, monitorare l’uso dell’acqua, prevedere catastrofi naturali e pianificare infrastrutture sostenibili. Il punto chiave è che tutto ciò accade solo quando la tecnologia viene progettata con un approccio locale, collaborativo e centrato sui bisogni dell’uomo. In queste condizioni, l’IA smette di essere uno strumento estrattivo e diventa un catalizzatore di sviluppo equo. Anche sul fronte del lavoro, esistono evidenze che smontano la narrazione allarmistica. Uno studio pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale nel 2025, firmato da Ajay Agrawal, mostra come l’adozione dell’IA possa produrre effetti molto diversi a seconda del contesto. In un call center statunitense, ad esempio, l’introduzione di sistemi di supporto conversazionale ha portato a un aumento del 34% della produttività tra i lavoratori meno qualificati. Questi non sono stati sostituiti, ma sono stati addirittura potenziati. La tecnologia, in questo caso, ha colmato un gap di esperienza, riducendo le disparità interne al team. Questo esempio rivela un principio cruciale: l’IA non è né buona né cattiva in sé. È un amplificatore. A seconda di come viene implementata, può rafforzare o mitigare le disuguaglianze. In ambito educativo, la tecnologia sta aprendo nuove vie alla personalizzazione dell’apprendimento, con potenzialità ancora tutte da esplorare. Le piattaforme basate su intelligenza artificiale possono adattarsi al ritmo e allo stile cognitivo di ogni studente, abbattendo le barriere tradizionali legate alla classe sociale o al contesto familiare. Se integrate in politiche pubbliche lungimiranti, queste soluzioni possono ridurre il fallimento scolastico, aumentare la mobilità sociale e contrastare la riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze. Il problema non è l’IA in sé, ma la sua distribuzione e accessibilità. Anche nel mondo dell’impresa esistono casi virtuosi. Aziende come Brembo hanno dimostrato come l’intelligenza artificiale possa essere usata per innovare senza escludere, trasformando il know-how industriale in piattaforme di consulenza che valorizzano l’esperienza accumulata. La creazione di Brembo Solutions ne è un esempio: una divisione che trasferisce conoscenze e strumenti digitali a settori meno digitalizzati come il tessile o l’alimentare. Qui l’IA non cancella posti di lavoro, ma crea ponti tra industria avanzata e settori in trasformazione. Il nodo centrale, dunque, non è l’intelligenza artificiale, ma le politiche pubbliche e le scelte aziendali che ne regolano lo sviluppo. Laddove mancano regolamentazione, investimenti in formazione e infrastrutture, la tecnologia diventa un acceleratore di disuguaglianza. Ma se questi elementi sono presenti, può diventare uno strumento di riequilibrio senza precedenti. Pensare che l’automazione sia intrinsecamente diseguale significa confondere il mezzo con gli scopi. Grazie alla tecnologia oggi possiamo immaginare modelli alternativi di distribuzione della ricchezza e del sapere. Il rischio maggiore non è l’IA, ma la nostra incapacità di governarla in modo equo. L’opportunità che abbiamo davanti è storica: usare l’automazione non per escludere, ma per includere. Non per aumentare i profitti di pochi, ma per migliorare le condizioni di vita di molti. E questa non è una scelta tecnologica, ma politica.
Nina Celli, 10 luglio 2025