Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha intrapreso un percorso di rafforzamento strategico. Le sfide globali – guerra in Ucraina, competizione tecnologica, instabilità nel Mediterraneo e nella regione indo-pacifica – hanno imposto ai Paesi membri di accelerare verso forme più integrate di difesa, politica industriale e autonomia strategica. In questo processo, molti osservatori si sarebbero aspettati un ruolo centrale da parte dell’Italia. Eppure, proprio mentre l’Europa cercava maggiore coesione, la politica estera italiana guidata da Giorgia Meloni si è mossa su un binario parallelo, spesso incerto, a volte disallineato. Il risultato è un’Italia presente, ma non protagonista. Un Paese che partecipa, ma che raramente guida. Le occasioni mancate sono molte, a partire dalla Conferenza sulla Difesa Europea del marzo 2025, dove le proposte franco-tedesche per una difesa comune sono state accolte con freddezza da Roma. Mentre Francia, Germania e persino la Spagna spingevano per accelerare sulla creazione di strumenti condivisi – dalla mutualizzazione delle spese militari alla creazione di un fondo europeo per l’industria bellica – l’Italia ha mantenuto una posizione defilata, evitando impegni precisi. Non è stata un’assenza formale, ma politica: nel momento in cui si definiva l’architettura della sicurezza europea post-NATO-centrica, Roma è sembrata più interessata a preservare i legami con Washington che a contribuire a un disegno autonomo europeo. Anche sul piano economico, la voce dell’Italia si è fatta più flebile. Nella trattativa sulla riforma del Patto di Stabilità, Meloni ha scelto una linea ambigua: da un lato ha promesso rigore, dall’altro ha chiesto flessibilità; ha invocato una “governance europea più equa”, ma senza proporre alternative strutturate. Alla fine, le decisioni sono state prese altrove, tra Berlino e Bruxelles, con Parigi come partner privilegiato. L’Italia, pur avendo il secondo debito pubblico d’Europa, non è riuscita a imporsi come leader di un fronte mediterraneo, né come mediatore tra Nord e Sud economico. Il problema è che questa marginalizzazione non nasce da un complotto europeo, ma da una scelta di postura. La politica estera di Meloni ha privilegiato la visibilità globale – con viaggi in Asia, vertici bilaterali con Trump, interviste a testate americane – a discapito dell’investimento nei meccanismi lenti ma fondamentali dell’integrazione europea. I consigli sulla competitività, le riunioni ECOFIN, i tavoli energia e industria, sono stati trattati come dossier tecnici, raramente presidiati dal vertice politico. Il risultato è che l’Italia non siede più in modo stabile nei cosiddetti “gruppi guida” dell’UE: non fa parte del Weimar Triangle, non è interlocutore primario né di Macron né di Scholz, e nemmeno della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Questa marginalità ha conseguenze molto concrete. Sul fronte della difesa, ad esempio, l’Italia rischia di restare esclusa dai nuovi strumenti europei di procurement militare. Sul piano industriale, ha faticato a ottenere risorse dal nuovo fondo sovrano europeo per le tecnologie verdi. Sui temi migratori, ha subito piuttosto che definito le nuove linee di regolazione. In sintesi: un Paese da cui ci si attenderebbe guida e invece si limita a reagire. Il paradosso è che tutto ciò avviene mentre Meloni gode di un consenso personale molto alto in patria e viene percepita come una figura forte all’estero. Ma proprio questo rende il contrasto ancora più stridente: una leadership forte che, invece di tradursi in influenza sistemica, si rifugia nella gestione dell’immagine. E l’Europa, nel frattempo, va avanti senza l’Italia. L’ultimo segnale è arrivato nel maggio 2025, quando il presidente del Consiglio Europeo, António Costa, ha convocato una riunione informale tra “gli Stati guida della nuova sovranità europea”: Germania, Francia, Spagna, Paesi Bassi, e – per la prima volta – Polonia. L’Italia non era tra gli invitati principali. Non per dimenticanza, ma perché non più percepita come attore centrale.
Nina Celli, 12 giugno 2025