Nella stagione politica inaugurata da Giorgia Meloni, la politica estera italiana ha assunto connotati sempre più personalizzati. La figura della premier ha occupato il centro della scena internazionale, non solo come capo del governo ma come simbolo incarnato di una visione politica, di un’identità ideologica e di un certo modo di intendere le relazioni internazionali. In molti casi, questo protagonismo ha portato visibilità e ha accresciuto il profilo dell’Italia nel mondo. Ma come ogni strategia fondata su una forte centralizzazione della leadership, anche questa comporta rischi concreti: il principale è quello di rendere la politica estera vulnerabile alla sorte di una singola figura politica, riducendo la continuità istituzionale, la profondità strategica e la capacità di costruire alleanze durature oltre il ciclo elettorale. Il caso più emblematico è il rapporto tra Meloni e il presidente americano Donald Trump. Sin dai primi mesi del suo mandato, la premier italiana ha coltivato un canale diretto con il tycoon repubblicano, al punto da essere l’unico leader europeo presente alla sua seconda cerimonia di insediamento nel gennaio 2025. Questa vicinanza, costruita su affinità ideologiche e interessi strategici comuni, ha offerto a Roma un accesso privilegiato alla Casa Bianca. Ma ha anche posto l’Italia in una posizione ambigua: legare così strettamente la propria politica estera a un singolo leader americano – peraltro controverso e divisivo – significa accettare il rischio di essere trascinati in una logica di polarizzazione interna alla politica statunitense. In un sistema democratico maturo, la diplomazia dovrebbe mantenere una distanza critica da queste oscillazioni. Il legame personale con Trump non è un’eccezione, ma parte di un modello ricorrente. Anche con altri leader internazionali, da Narendra Modi a Viktor Orbán, Meloni ha impostato relazioni bilaterali basate su canali informali, spesso guidati da una forte sintonia ideologica. Questa dinamica ha prodotto una sorta di “diplomazia per affinità”, efficace sul piano mediatico, ma fragile sul piano istituzionale. In mancanza di un’infrastruttura diplomatica forte, radicata nei ministeri e nelle ambasciate, queste relazioni rischiano di spegnersi non appena cambiano gli equilibri politici nei Paesi partner. Un altro aspetto problematico è il rapporto intermittente con l’Unione Europea. Se da un lato Meloni si è dichiarata “pragmatica” nei confronti di Bruxelles, dall’altro ha spesso evitato di esporsi nei momenti chiave del dibattito europeo. Questo vale in particolare nei dossier più delicati, come la riforma del patto di stabilità o la creazione di una difesa comune europea. Anche in questi casi, l’approccio sembra più orientato alla gestione del consenso interno che alla costruzione di alleanze stabili e strutturate. Il risultato è una percezione crescente, tra molti partner europei, di un’Italia imprevedibile, guidata più dall’orientamento del momento della premier che da una strategia condivisa da tutto il sistema-paese. L’effetto della personalizzazione estrema si avverte anche nella gestione del Piano Mattei per l’Africa. Pur essendo una delle iniziative più ambiziose promosse da un governo italiano negli ultimi decenni, il piano continua a essere comunicato come “la visione della premier”, senza una solida cornice istituzionale che ne garantisca la durata oltre il suo mandato. A differenza di altre politiche strutturali italiane – come quelle europee co-finanziate da Bruxelles – il Piano Mattei non è accompagnato da una governance plurale che coinvolga regioni, imprese, università e corpi intermedi. Così rischia di diventare, più che una strategia di Stato, un progetto personale, destinato a perdere forza con il mutare del ciclo politico. Infine, c’è un rischio reputazionale. Una politica estera che ruota interamente attorno a un solo leader è vulnerabile alle critiche internazionali, alle fluttuazioni del consenso interno e ai cambi di scenario globale. In un contesto così dinamico e incerto, la resilienza si costruisce con istituzioni forti, processi inclusivi e visioni collettive. L’Italia ha bisogno di una diplomazia che sia più grande del suo governo pro tempore, capace di garantire continuità, credibilità e coerenza nel lungo periodo.
Nina Celli, 12 giugno 2025