L’attivismo internazionale mostrato da Giorgia Meloni in questi anni ha senz’altro restituito visibilità all’Italia nel contesto globale. Ma al di là della scena, dietro le foto con i leader mondiali, le strette di mano al G7, le dichiarazioni altisonanti sull’unità dell’Occidente o sull’equilibrio transatlantico, si nasconde una realtà ben più fragile: nonostante i proclami, l’Italia fatica a sostenere nel lungo periodo una politica estera coerente, strategicamente efficace e influente. Questa difficoltà non è frutto di scelte ideologiche, ma di limiti strutturali che la narrazione mediatica non può eludere: risorse economiche limitate, apparati diplomatici sottodimensionati e un impianto istituzionale spesso più concentrato sul consenso interno che sulla coerenza geopolitica. Il nodo più visibile è quello economico. L’Italia, come confermato da Eurostat, mantiene il secondo debito pubblico più alto dell’Unione Europea, con una percentuale che ha raggiunto il 136% del PIL nel 2024. Il deficit strutturale si accompagna a una crescita stagnante (stimata allo 0,7%), sostenuta quasi esclusivamente dai fondi europei del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che però scadranno nel 2026. La mancanza di una base economica autonoma e solida rende difficile sostenere una politica estera ambiziosa: ogni missione, ogni progetto, ogni cooperazione multilaterale diventa oggetto di difficile copertura finanziaria, con il rischio di restare una bella intenzione non seguita da azioni concrete. A questo si aggiunge un problema più silenzioso ma altrettanto incisivo: la fragilità della diplomazia italiana. Secondo i dati del Ministero degli Esteri, l’Italia dispone di una rete diplomatica inferiore in dimensioni e mezzi rispetto a paesi come Germania, Francia o Regno Unito. Il personale è scarso, le sedi all’estero faticano a gestire le attività operative e spesso i dossier di politica estera vengono accentrati a Palazzo Chigi, rischiando la duplicazione di ruoli. Questa carenza incide direttamente sulla capacità dell’Italila di trasformare le dichiarazioni in linee d’azione durature. Nel settore della difesa, la situazione non migliora. I dati della NATO parlano chiaro: l’Italia ha destinato nel 2024 solo l’1,49% del PIL alla spesa militare, ben al di sotto del 2% richiesto dagli standard dell’Alleanza Atlantica e distante dai numeri di Francia (2,06%), Germania (2,12%) e Regno Unito (2,33%). In un momento in cui gli Stati Uniti – soprattutto sotto una possibile seconda presidenza Trump – chiedono maggiori oneri agli alleati, questa debolezza strutturale rischia di rendere l’Italia meno ascoltata nei tavoli dove conta esserci davvero. Non sorprende, dunque, che l’Italia – pur più presente sulla scena internazionale – fatichi a imporsi come punto di riferimento nei processi decisionali dell’UE e della NATO. Giorgia Meloni, pur con la forza comunicativa che l’ha resa riconoscibile, si è spesso trovata a rincorrere piuttosto che a guidare. Lo si è visto nel vertice di Londra sull’Ucraina, dove la sua reticenza nel condannare apertamente le ambiguità di Trump l’ha isolata dal fronte franco-britannico. Lo si è visto anche nella gestione del Piano Mattei, lodato per la sua visione ma ancora in fase embrionale dal punto di vista operativo, con fondi annunciati ma in gran parte ancora non erogati. Vi è inoltre un tema che va oltre l’economia e le strutture: quello della coerenza. La politica estera richiede una narrazione univoca, che sappia tenere insieme parole e azioni, interessi e alleanze. Meloni, al contrario, oscilla tra la retorica della sovranità e la necessità di aderire ai vincoli europei; tra l’adesione atlantista e la fascinazione per il mondo trumpiano; tra l’ambizione globale e le fragilità locali. Questa oscillazione genera confusione. La proiezione internazionale dell’Italia sotto Meloni, dunque, somiglia più a una corsa a ostacoli che a una marcia strategica. Senza un rafforzamento strutturale della macchina diplomatica, senza un impegno economico stabile e senza una visione unitaria condivisa anche dalle istituzioni, il rischio è che il protagonismo italiano resti confinato alla superficie mediatica. E che, nel lungo periodo, l’Italia finisca per essere vista non come un partner autorevole e stabile, ma come una voce discontinua nel concerto complesso della diplomazia globale.
Nina Celli, 12 giugno 2025