Se la rete è oggi lo spazio in cui si costruisce gran parte della socialità umana, è anche il luogo dove si consumano nuove forme di violenza. L’anonimato digitale, sebbene nato come strumento di tutela, può diventare una barriera insormontabile per chi cerca giustizia. È il paradosso moderno: ciò che protegge l’identità, protegge anche l’impunità. A evidenziarlo con chiarezza è il report dell’organizzazione SG Her Empowerment (SHE), pubblicato su “Yahoo News Singapore”. La ricerca, condotta tra donne di età compresa tra i 18 e i 45 anni, ha messo in luce un dato allarmante: solo 1 vittima su 4 ha ottenuto la rimozione dei contenuti lesivi da parte delle piattaforme digitali e appena 1 su 3 ha trovato risposte efficaci da parte del sistema giudiziario. La ragione principale? L’anonimato degli aggressori. Il caso di “Nisha”, citato nel report, è emblematico. Per due anni ha subito persecuzioni digitali da parte di utenti anonimi, che diffondevano foto, audio e messaggi sessualmente espliciti a suo nome. Non potendo identificare gli autori, Nisha ha dovuto farsi carico da sola delle indagini, raccogliendo prove, screenshot, IP e cercando supporto legale. Un’esperienza definita da lei stessa “più traumatica della violenza subita”, per l’impotenza che ha generato. Le piattaforme social, nella maggior parte dei casi, non rendono disponibili i dati identificativi degli utenti se non dietro ordine giudiziario, ma la difficoltà di ottenere tali ordini e la lentezza del processo fa sì che gli aggressori agiscano indisturbati. Inoltre, la possibilità di creare profili multipli, spesso senza verifica, permette loro di “rinascere” digitalmente ogni volta, rendendo vana qualsiasi forma di blocco. La PrivacyGuides Community ha denunciato un caso simile in Svizzera, dove la società Infomaniak ha chiesto una modifica di legge che obblighi tutti i provider a conservare i metadati degli utenti. La proposta, sebbene criticata da molti per i rischi alla privacy, nasce da un’esigenza concreta: senza dati minimi identificativi, nessun crimine può essere perseguito. Come ha dichiarato il portavoce dell’azienda: “Oggi internet consente di operare completamente nell’ombra, anche per chi compie reati. È come avere una città senza nomi, né telecamere.” Anche il progetto Cyberpsychology – Behavior and Social Networking conferma che la difficoltà a identificare gli utenti anonimi ostacola le indagini e l’applicazione della giustizia nei casi di cyberaggressione. I ricercatori parlano di “neutralizzazione sociale”: un processo per cui l’assenza di identità impedisce la costruzione di una narrativa pubblica contro il colpevole, e dunque priva la vittima di riconoscimento e riparazione. Il danno è duplice: emotivo e legale. Le vittime si sentono invisibili, impotenti, scoraggiate a denunciare. L’aggressore, al contrario, acquisisce potere. Questo squilibrio genera una forma di “sopravvivenza tossica” in rete, dove la regola implicita è che chi agisce per primo – anche in forma anonima – ha sempre un vantaggio strategico. Non si tratta di invocare un’identità digitale assoluta o un’internet senza maschere. Ma esistono modelli intermedi – come la pseudonimia verificata, l’uso di “chiavi di fiducia” crittografiche, la tracciabilità a due livelli – che potrebbero garantire libertà espressiva senza sottrarre ogni possibilità di tutela alle vittime.
Nina Celli, 10 giugno 2025