Se da un lato l’anonimato digitale può proteggere le identità vulnerabili, dall’altro lato rappresenta un potente catalizzatore per l’aggressività online. Quando non accompagnato da responsabilità e moderazione, l’anonimato si trasforma in un’arma che incoraggia comportamenti violenti, disinibiti, spesso crudeli. Lontano dallo sguardo diretto dell’altro, protetto da profili senza volto, l’individuo si libera di ogni filtro etico. È il volto oscuro del “nessuno mi vede, quindi posso tutto”. Uno degli ambiti dove questo effetto è più devastante è il cyberbullismo, fenomeno dilagante tra i giovani e sempre più connesso all’anonimato. Lo evidenzia uno studio della Society for the Advancement of Psychotherapy, secondo cui "è facile nascondersi dietro l’anonimato di internet per insultare e minacciare, senza mai dover parlare direttamente alla vittima". Questo tipo di comunicazione invisibile moltiplica l’intensità dell’offesa: non solo perché il persecutore si sente immune da conseguenze, ma anche perché la vittima percepisce un attacco disumanizzato, impersonale, quindi ancora più difficile da processare. Il legame tra anonimato e aggressività è stato dimostrato anche sperimentalmente. Nello studio pubblicato su PubMed, i ricercatori hanno osservato il comportamento di utenti con tratti di personalità antisociali (“Dark Triad”) in condizioni di anonimato vs non-anonimato. Sorprendentemente, l’aggressività risultava più alta quando l’identità era visibile, ma solo tra soggetti con tratti antisociali: ciò indica che, per la maggior parte degli utenti, l’anonimato non frena, ma amplifica i comportamenti aggressivi quando la responsabilità percepita è nulla. Le cronache quotidiane sono piene di esempi. Il caso raccontato nel portale “TransVitae” è particolarmente emblematico: una giovane ragazza transgender, suicidatasi dopo episodi di bullismo, è stata oggetto di scherno su Twitter da parte di account anonimi. L’autrice dell’articolo scrive: “Le persone hanno fatto meme sulla sua morte. Ridevano, protetti da profili creati da meno di 30 giorni”. In queste situazioni, l’anonimato non protegge i vulnerabili, ma i loro carnefici. Anche le piattaforme social ammettono la connessione tra anonimato e contenuti tossici. Secondo un report citato dalla Child Care Resource Center, "l’anonimato su internet permette di colpire con messaggi dannosi, mentre la natura pubblica dei social ne amplifica l’effetto". È l’unione tra invisibilità e visibilità a generare una miscela esplosiva: chi attacca resta nascosto, chi subisce è esposto. L’effetto psicologico sulle vittime è devastante. Secondo la “Times of India”, il cyberbullismo anonimo può causare depressione grave, isolamento sociale e disturbi alimentari. Un caso riportato è quello di un ragazzo di 16 anni che ha perso oltre 20 kg in poche settimane a causa delle prese in giro subite da utenti anonimi riguardo al suo aspetto fisico. L’assenza di identità rende anche più difficile il lavoro degli educatori, dei genitori e dei terapeuti. Quando non si sa chi è il persecutore, si crea un clima di diffidenza, paura generalizzata, impossibilità di costruire un contesto di fiducia. Il punto non è abolire l’anonimato in assoluto, ma riconoscere il suo potenziale distruttivo se lasciato senza regole. La libertà di parola non può diventare libertà di violenza. Ogni spazio digitale che permette interazioni anonime dovrebbe essere dotato di strumenti avanzati di moderazione, penalizzazioni rapide per l’abuso, tracciabilità tecnica (anche cifrata) che consenta, in casi estremi, di risalire agli autori. Perché se l’anonimato protegge chi subisce, non può allo stesso tempo proteggere chi colpisce.
Nina Celli, 10 giugno 2025