Nel vasto panorama delle interazioni digitali, l’anonimato non è solo una condizione tecnica: è, per molti, un potente veicolo di autodeterminazione. In un mondo dove l'identità è spesso una prigione sociale, legata a codici culturali, aspettative di genere e ruoli predeterminati, la possibilità di scegliere chi essere – anche solo online – rappresenta un atto di liberazione. L’anonimato, in questo senso, non è assenza di identità, ma la sua reinvenzione. Lo evidenzia chiaramente lo studio condotto da Emily van der Nagel e Jordan Frith per la University of North Texas, che analizza il comportamento degli utenti nel subreddit r/Gonewild. Gli autori parlano di “agency identitaria” legata alla pseudonimia, ossia all’uso ricorrente di uno stesso alias online: una modalità che consente agli individui di costruire reputazione, relazioni e narrazioni di sé pur restando anonimi. “La pseudonimia non annulla la responsabilità”, scrivono, “ma la trasferisce su un piano alternativo, dove il soggetto è responsabile verso la propria comunità anonima”. La distinzione tra anonimato e pseudonimia è infatti fondamentale. Come spiega il Tor Project nella sua storia istituzionale, l’anonimato digitale è spesso uno spazio in cui persone con background diversi – minoranze etniche, sessuali, ideologiche – possono esistere senza essere costrette a difendersi. Durante la Primavera Araba, il browser Tor ha permesso a migliaia di cittadini nei paesi nordafricani di aggirare la censura e accedere a strumenti di espressione politica. L’anonimato, in quel contesto, era sinonimo di sopravvivenza. Ma anche nei contesti non bellici, l’anonimato svolge una funzione sociale. Secondo lo studio pubblicato su “PubMed”, le dinamiche aggressive nei social network non aumentano in presenza di anonimato puro, anzi: gli utenti con tratti antisociali (“Dark Triad”) risultano meno aggressivi quando privati della possibilità di ottenere riconoscimento pubblico. “La mancanza di visibilità sociale – affermano i ricercatori – frena i comportamenti premiati dalla spettacolarizzazione”. Il contributo più importante dell’anonimato, però, è forse sul piano della psicologia dello sviluppo. Nella ricostruzione proposta dalla Society for the Advancement of Psychotherapy, l’adolescenza è una fase in cui l’identità è ancora in formazione. Esporsi sotto il proprio vero nome, specialmente in ambienti ostili, può generare traumi, isolamento o regressione. In questo senso, i profili anonimi diventano uno spazio “protetto” in cui sperimentare se stessi, esplorare affinità, ricevere feedback su aspetti intimi senza il rischio di stigmatizzazione. Anche per le persone transgender, l’anonimato è una risorsa vitale. L’articolo pubblicato da “TransVitae” raccoglie testimonianze di utenti che dichiarano: “Alcuni di noi sono vivi solo grazie all’anonimato”. Per chi non può ancora fare coming out o vive in ambienti ostili, la possibilità di accedere a forum, chat e comunità in forma anonima rappresenta un canale essenziale per costruire autostima, resilienza e senso di appartenenza. Questi dati e testimonianze ci spingono a considerare l’anonimato non solo come un diritto tecnico, ma come diritto sociale e psicologico. In un’epoca in cui i big data e la sorveglianza digitale minano ogni residuo di privacy, la possibilità di non essere identificabili si trasforma in un baluardo di libertà. Un rifugio, sì, ma anche un laboratorio di identità.
Nina Celli, 10 giugno 2025