Nel clima polarizzato della politica italiana, il Decreto Sicurezza, approvato alla Camera nel maggio 2025, ha assunto un significato che va oltre il piano penale. Per il governo guidato da Giorgia Meloni, questo provvedimento non è solo un insieme di sanzioni più severe, ma rappresenta una riformulazione della capacità statale di difendersi da quello che viene percepito come un disordine sociale crescente e una delegittimazione diffusa delle istituzioni pubbliche. L’impianto del decreto mira a ripristinare l’autorevolezza dello Stato nel contesto di proteste ambientali, insurrezioni carcerarie, sabotaggi infrastrutturali e campagne mediatiche aggressive contro le forze dell’ordine. Uno dei punti cardine del testo è la criminalizzazione del blocco stradale mediante il proprio corpo, che ora viene punito con pene detentive che possono arrivare a sei anni se il fatto è commesso da più persone. Secondo il governo, si tratta di una misura necessaria per contenere forme di protesta che paralizzano città e servizi essenziali. La norma è stata contestata come “anti-Gandhi” dalle opposizioni, ma difesa dal ministro Piantedosi come garanzia del principio di coabitazione civile: “Manifestare sì, bloccare tutto no”. Altre misure chiave sono il nuovo reato di rivolta carceraria, che include anche la resistenza passiva all’interno di carceri e CPR, e la possibilità di sanzionare imbrattamenti simbolici di sedi istituzionali con reclusione fino a 18 mesi. Per il governo, questi strumenti sono necessari a contrastare strategie di protesta organizzate, come quelle di Ultima Generazione o dei movimenti anti-TAV e No Ponte, che fanno leva su azioni dimostrative ad alto impatto sociale e mediatico. Un altro pilastro del decreto è il rafforzamento dell’apparato di sicurezza, che si traduce in più tutele economiche per gli agenti indagati (fino a 10.000 euro per spese legali), autorizzazione al porto d’armi fuori servizio e utilizzo sistematico delle bodycam, soprattutto in contesti di ordine pubblico. Il decreto risponde così a una preoccupazione latente nel personale di polizia: quella di essere esposto a strumentalizzazioni giudiziarie e mediatiche senza adeguata tutela dello Stato. Dal punto di vista della difesa interna, il decreto amplia anche le prerogative dei servizi segreti, autorizzandoli a infiltrare e persino dirigere associazioni eversive, con esenzione da responsabilità penale, se operano sotto copertura e con autorizzazione dell’esecutivo. Una norma che, per i critici, rappresenta una “licenza criminale”, ma che per il governo è una garanzia di efficacia operativa in scenari di alta pericolosità. Il decreto ha ottenuto l’approvazione di molte sigle sindacali di polizia, che lo vedono come un passo verso il riconoscimento concreto dei rischi affrontati quotidianamente dagli agenti. In parallelo, esponenti del governo hanno sottolineato che “nessuna libertà è effettiva se non è garantita dalla sicurezza” – un concetto che mira a riequilibrare la tensione fra diritti civili e ordine pubblico. Il Decreto Sicurezza si pone, secondo i suoi sostenitori, come baluardo istituzionale contro la disgregazione dell’autorità pubblica. Non un’imposizione autoritaria, ma una difesa strutturale della democrazia rappresentativa, minacciata – secondo questa lettura – più dall’indebolimento dello Stato che dal suo rafforzamento.
Nina Celli, 4 giugno 2025