Il Decreto Sicurezza, approvato dal governo Meloni, non è semplicemente un testo legislativo con finalità di tutela dell’ordine pubblico. Per molti costituzionalisti, giuristi, associazioni e organizzazioni internazionali rappresenta una trasformazione profonda – e preoccupante – della concezione stessa dello Stato di diritto in Italia. Dietro la retorica della sicurezza e del rispetto delle regole si cela infatti una sistematica criminalizzazione del dissenso, con strumenti normativi che colpiscono proteste pacifiche, minoranze vulnerabili e diritti civili fondamentali. Uno degli aspetti più gravi, evidenziati da numerosi osservatori – tra cui Amnesty International, ONU e il Consiglio d’Europa – è l’introduzione di reati costruiti per reprimere forme di espressione non violenta, come la resistenza passiva, l’imbrattamento simbolico di edifici pubblici o il blocco stradale tramite il proprio corpo. Quest’ultimo, fino a oggi considerato una forma di disobbedienza civile e di protesta simbolica, viene ora trattato come un vero e proprio crimine, con pene fino a sei anni di reclusione, se effettuato da più persone. Secondo l’analisi di “Valigia Blu”, il decreto fa proprio il paradigma del “populismo penale”, una logica emergenziale che non cerca di affrontare le cause sociali dei fenomeni contestati, ma si limita a reprimerli con strumenti detentivi. La legge “punisce, non riforma”, scrive Leonardo Bianchi. La stessa associazione Antigone ha definito il decreto “il più pericoloso attacco alla libertà di protesta nella storia repubblicana”. La deriva autoritaria è evidente anche nella modifica della punibilità della resistenza passiva all’interno dei CPR e delle carceri, ora sanzionata con pene pesantissime, fino a 20 anni in caso di rivolta con esiti mortali. Questa misura – criticata anche dalle Nazioni Unite – trasforma azioni simboliche e non violente in reati penali. Cinque relatori speciali dell’ONU hanno denunciato pubblicamente il decreto come “incompatibile con gli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani”. Ulteriore elemento di preoccupazione è l’effetto dissuasivo che il decreto può avere sulla partecipazione civile, studentesca e sindacale. Come documentato da “Fanpage” e “RomaToday”, la risposta alla legge è stata una mobilitazione di massa: decine di migliaia di persone sono scese in piazza a Roma il 31 maggio, denunciando una “svolta ungherese” e promettendo ricorso in tutte le sedi istituzionali. Nelle stesse ore, esponenti del mondo giuridico parlavano apertamente di “disegno autoritario strutturale”. La legge non solo punisce nuovi comportamenti, ma altera la relazione tra Stato e cittadino, riducendo la libertà di critica e svuotando di significato il principio costituzionale della partecipazione. L’approvazione del decreto con voto di fiducia – la 89ª della legislatura – ha poi contribuito ad alimentare l’impressione di un potere che si sottrae al dibattito parlamentare e agisce per decreto, comprimendo spazi democratici. Non sorprende, quindi, che oltre 250 giuristi italiani abbiano sottoscritto un appello per denunciare i “gravissimi profili di incostituzionalità” del decreto. Essi segnalano l’assenza dei requisiti di necessità e urgenza e una torsione securitaria che rischia di diventare permanente. “Governare con la paura, invece che governare la paura”: così sintetizzano il cuore del problema. Nel loro insieme, queste misure costruiscono una nuova architettura normativa: non tanto per difendere i cittadini, quanto per rendere più difficili la contestazione, la mobilitazione, la disobbedienza civile. Per i critici, il Decreto Sicurezza è un segnale inequivocabile di autocrazia strisciante, in cui le libertà fondamentali diventano sospette e il dissenso un crimine da reprimere.
Nina Celli, 4 giugno 2025