L’effetto della politica trumpiana su Israele non si è limitato alle dinamiche geopolitiche o diplomatiche: ha avuto un impatto profondo, e in larga parte destabilizzante, sul tessuto politico e sociale interno del paese. Il sostegno incondizionato offerto da Donald Trump ai governi israeliani di destra e ultradestra ha rafforzato le fazioni più radicali, indebolito il fronte moderato e intensificato una polarizzazione che minaccia la stabilità stessa della democrazia israeliana. La figura di Netanyahu – alleato personale e politico di Trump – è al centro di questa dinamica. Durante questo secondo mandato trumpiano, il premier israeliano si trova a gestire una coalizione sempre più dipendente da partiti estremisti, come quello di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, che promuovono apertamente l’annessione totale della Cisgiordania e l’espulsione dei palestinesi da Gaza. Secondo quanto riportato da “Al Jazeera” e “Axios”, il sostegno implicito e talvolta esplicito di Trump a queste forze ha legittimato un’agenda che molti osservatori definiscono etno-nazionalista. La proposta di Trump di trasformare Gaza in una “freedom zone”, sostenuta da parte del governo israeliano come condizione per la fine del conflitto, ha avuto l’effetto di radicalizzare ulteriormente il dibattito pubblico. Se da un lato ha rafforzato l’asse con la destra religiosa e gli elettori più conservatori, dall’altro ha generato un’escalation di tensioni civili, proteste e scontri istituzionali senza precedenti. Le famiglie degli ostaggi israeliani hanno accusato pubblicamente Netanyahu di strumentalizzare il conflitto per fini personali e di rifiutare ogni ipotesi di tregua pur di mantenere il potere. In questo clima, l’azione unilaterale di Trump per ottenere la liberazione di Edan Alexander ha umiliato il governo, esponendolo a critiche interne ancora più aspre e rafforzando la percezione di un esecutivo debole e disconnesso dalla volontà popolare. Secondo “The Atlantic” e “Haaretz”, la polarizzazione sociale ha raggiunto livelli preoccupanti. Da una parte, i sostenitori di Netanyahu e della linea dura vedono in Trump un garante della sopravvivenza nazionale. Dall’altra, centinaia di migliaia di israeliani manifestano ogni settimana contro il governo, accusandolo di usare il sostegno americano come scudo per portare avanti una politica distruttiva e autoritaria. Le tensioni hanno coinvolto anche l’esercito e i servizi segreti, con ufficiali e veterani che si oppongono pubblicamente alla linea governativa. L’assenza di pressioni pubbliche da parte dell’amministrazione Trump ha inoltre rimosso ogni incentivo alla moderazione. Contrariamente ad altri presidenti USA che condizionavano l’aiuto militare al rispetto dei diritti umani o al dialogo con i palestinesi, Trump ha dato “carta bianca” a Netanyahu, rafforzando la posizione delle fazioni più estremiste e marginalizzando i partiti centristi e progressisti. Questo contesto ha generato anche tensioni latenti all’interno della comunità ebraica globale. In particolare, negli Stati Uniti, molti esponenti dell’ebraismo riformato e conservatore hanno criticato l’identificazione totale di Israele con le politiche trumpiane, segnalando un allontanamento preoccupante tra lo Stato d’Israele e la diaspora ebraica progressista. L’impronta di Trump sulla politica interna israeliana è stata dunque divisiva e corrosiva. L’alleanza con l’estrema destra, la legittimazione delle politiche più oltranziste e l’assenza di freni diplomatici hanno amplificato le fratture sociali, indebolito le istituzioni e radicalizzato il dibattito politico. Più che rafforzare Israele, Trump ne ha esacerbato le contraddizioni interne.
Nina Celli, 28 maggio 2025