Mentre la retorica ufficiale dell’amministrazione Trump ha spesso celebrato un legame “indissolubile” con Israele, le scelte strategiche adottate tra il 2017 e il 2025 hanno in realtà contribuito a esporre Tel Aviv a un crescente isolamento sulla scena globale. L’identificazione totale di Trump con il governo israeliano – e, in particolare, con le sue componenti più oltranziste – ha generato un effetto boomerang che ha minato l’immagine, le alleanze e la capacità di Israele di influenzare l’arena multilaterale. L’episodio più emblematico è avvenuto nel 2025, durante il secondo mandato di Trump, quando la Casa Bianca ha avviato trattative dirette con l’Iran e con i ribelli Houthi dello Yemen, escludendo Israele da ogni tavolo negoziale. Come riportato dalla “CNN” e dal “The Guardian”, l’annuncio del cessate il fuoco tra Stati Uniti e Houthi è stato fatto senza preavviso a Netanyahu, nonostante questi consideri i ribelli come una minaccia diretta. Questa esclusione ha umiliato Israele, sottolineandone la marginalizzazione anche rispetto al suo principale alleato strategico. In parallelo, Trump ha rilanciato colloqui sul nucleare con Teheran e ha rimosso la condizione – imposta durante l’era Biden – che legava il programma nucleare civile saudita alla normalizzazione con Israele. Questa mossa ha indebolito la leva diplomatica israeliana, rivelando che le priorità strategiche americane avevano iniziato a prescindere dagli interessi di Tel Aviv. L’allontanamento dagli organismi internazionali, deciso da Trump in nome dell’unilateralismo, ha avuto conseguenze per Israele. Il ritiro dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU e il disconoscimento della Corte Penale Internazionale hanno privato Israele di interlocutori che, pur critici, potevano essere influenzati o neutralizzati tramite la diplomazia USA. Senza questo “ombrello”, Israele si è trovato esposto a mozioni, inchieste e accuse di crimini di guerra da parte di una comunità internazionale sempre più indignata dalle operazioni a Gaza. Sul piano bilaterale, anche gli alleati storici europei si sono raffreddati. Francia, Germania, Regno Unito e Canada hanno criticato pubblicamente Israele per l’escalation a Gaza e, come rivelato da “Axios”, hanno minacciato sanzioni qualora non venisse rispettata una tregua umanitaria. In questo contesto, Trump si è mostrato incapace o disinteressato ad agire come mediatore, lasciando Netanyahu isolato in una tempesta diplomatica crescente. Persino la diplomazia regionale, sulla quale Trump aveva costruito il suo prestigio con gli Accordi di Abramo, ha mostrato crepe. L’Arabia Saudita, il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti hanno accolto Trump nei loro palazzi, ma hanno espresso con chiarezza la loro opposizione al piano statunitense-israeliano di trasformare Gaza in una “zona libera” – eufemismo per uno sfollamento di massa dei palestinesi. L’assenza di Israele dal vertice di Doha, dove Trump ha negoziato con Hamas la liberazione dell’ostaggio Edan Alexander, è stata interpretata come il sintomo definitivo della sua esclusione dai circuiti diplomatici che contano. Il quadro complessivo che emerge è quello di un paese sempre più isolato, nonostante la retorica dell’amicizia incondizionata. Israele ha perso terreno nei rapporti multilaterali, si è trovato marginalizzato nei negoziati regionali e ha visto scemare il sostegno di parte dell’opinione pubblica occidentale. Il tutto sotto lo sguardo – e in parte per effetto – dell’amministrazione Trump, che ha privilegiato risultati immediati e alleanze transazionali rispetto a un sostegno strutturale e sostenibile. L’approccio trumpiano, basato su favori bilaterali e rottura con le istituzioni internazionali, quindi, ha reso Israele più vulnerabile nel lungo periodo. L’alleato americano si è trasformato in un partner volubile e l’isolamento crescente rischia di compromettere non solo la reputazione del paese, ma anche la sua capacità di difendere efficacemente i propri interessi nel consesso delle nazioni.
Nina Celli, 28 maggio 2025