La presidenza di Donald Trump ha segnato uno dei più significativi riallineamenti strategici a favore di Israele nella storia delle relazioni tra Stati Uniti e Medio Oriente. In un contesto segnato da instabilità cronica, l’amministrazione Trump ha operato una serie di scelte politiche e diplomatiche che hanno rafforzato in modo sostanziale la posizione di Israele sia sul piano militare che su quello della legittimità internazionale. Uno degli atti più simbolici – ma anche politicamente densi – è stato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, annunciato da Trump nel dicembre 2017, seguito dal trasferimento dell’ambasciata americana nella città. Questa mossa, pur criticata dalla comunità internazionale, ha rappresentato per Israele una legittimazione di lungo corso della propria sovranità sulla città e ha dato un forte segnale di supporto incondizionato da parte del principale alleato internazionale. A questo si è aggiunto il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, strappate alla Siria nel 1967 e mai riconosciute come parte integrante di Israele dalle Nazioni Unite. La scelta dell’amministrazione Trump ha avuto implicazioni strategiche: ha rafforzato la posizione israeliana in un’area di confine sensibile, dove la presenza di milizie legate all’Iran e ad Hezbollah rappresenta una minaccia costante. La politica trumpiana non si è limitata agli atti simbolici. Sul piano operativo, Israele ha beneficiato di un rafforzamento della cooperazione militare: sono stati confermati e ampliati gli aiuti alla difesa, in particolare sul sistema antimissilistico Iron Dome, e sono stati intensificati gli scambi di intelligence. In più, durante il suo secondo mandato, Trump sta mantenendo una posizione favorevole alla libertà d’azione delle IDF, evitando interferenze anche durante le operazioni più controverse a Gaza. Un altro capitolo centrale della strategia trumpiana è rappresentato dagli Accordi di Abramo. Mediati dalla Casa Bianca, questi trattati hanno normalizzato le relazioni tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco. Per la prima volta, paesi arabi hanno riconosciuto formalmente Israele senza una soluzione alla questione palestinese. Questo ha rappresentato una frattura storica nella posizione pan-araba e ha permesso a Israele di rafforzare la propria legittimità diplomatica e il proprio raggio d’azione economico e militare nella regione. Inoltre, l’approccio di Trump verso gli organismi multilaterali ha favorito Israele: ha ritirato gli USA dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU (accusato di “pregiudizio cronico contro Israele”) e ha tagliato i fondi all’UNRWA, considerata da Tel Aviv come un’istituzione politicizzata. Ha inoltre bloccato ogni tentativo di risoluzione sanzionatoria contro Israele al Consiglio di Sicurezza, esercitando sistematicamente il diritto di veto. Questi elementi, considerati nel loro insieme, delineano una politica coerente: Trump ha collocato Israele al centro del suo disegno strategico per il Medio Oriente, come baluardo contro l’espansionismo iraniano, nodo delle relazioni arabo-occidentali e alleato affidabile nella guerra al terrorismo. In questo quadro, l’amministrazione americana ha fornito a Israele ciò che nessun altro presidente aveva mai garantito con tale chiarezza: sicurezza militare, legittimazione diplomatica e libertà di manovra politica senza condizioni. Trump ha quindi trasformato la relazione USA-Israele in un asse strategico profondo, che ha permesso a Tel Aviv di consolidare la propria posizione regionale e di ridefinire il proprio status internazionale. Per una nazione abituata a vivere sotto minaccia, questo rappresenta un capitale geopolitico inestimabile.
Nina Celli, 28 maggio 2025