Nel dibattito contemporaneo sul rapporto tra bioetica e ricerca scientifica, uno degli aspetti più critici riguarda l’attenzione quasi esclusiva delle policy etiche sulla dichiarazione dei conflitti di interesse (disclosure), a scapito di misure più sostanziali e operative. In teoria, la disclosure dovrebbe aumentare la trasparenza, permettendo a revisori, lettori e policy maker di valutare l’influenza di interessi economici o politici sul processo di ricerca. Tuttavia, come mostrano numerosi studi recenti, questo approccio ha spesso un impatto cosmetico più che reale: ritarda le fasi operative, genera un falso senso di sicurezza e non previene né corregge i meccanismi che portano a distorsioni sistemiche nei risultati scientifici. Una delle analisi più complete in merito è contenuta nella revisione sistematica pubblicata su “Research Integrity and Peer Review” (maggio 2025), che ha analizzato 81 studi su politiche e meccanismi di gestione del conflitto di interesse nella ricerca biomedica. Il dato che emerge è impressionante: oltre il 75% della letteratura si concentra su strumenti di disclosure, mentre meno del 10% indaga l’effettiva efficacia delle politiche nel prevenire bias o danni ai pazienti. Gli autori segnalano inoltre che, nella maggior parte dei casi, la presenza di un conflitto viene semplicemente segnalata, ma non sono previsti meccanismi di esclusione, supervisione attiva o revisione indipendente. In altre parole, la disclosure finisce per assolvere più una funzione simbolica che protettiva. Ancora più allarmanti sono i dati sul livello di concordanza tra le dichiarazioni degli autori e i registri pubblici di pagamenti industriali. Secondo lo studio, la media di concordanza si attesta al 37,3% quando si confrontano le dichiarazioni degli autori con banche dati come “Open Payments” negli USA. Ciò significa che in circa due terzi dei casi le relazioni economiche non vengono riportate in modo completo o coerente, lasciando spazio a conflitti potenzialmente gravi che rimangono nascosti. Il problema non si limita alla bioetica come disciplina, ma riguarda anche il modo in cui essa è istituzionalizzata nei comitati etici. Questi ultimi spesso concentrano la loro valutazione sull’adempimento formale delle dichiarazioni, senza strumenti né competenze per indagare la portata reale dei legami economici. In altre parole, il sistema etico si affida alla buona fede dei ricercatori, un presupposto che la storia della scienza—dal caso Wakefield ai trials sponsorizzati sugli antidepressivi—ci invita a considerare con cautela. A conferma di ciò, l’analisi condotta da “The Conversation” mostra come i tagli ai finanziamenti per la supervisione etica federale abbiano avuto un impatto diretto sulla capacità degli enti regolatori di analizzare in profondità le dichiarazioni etiche, costringendo i comitati a un ruolo puramente notarile. Christine Coughlin, bioeticista della Wake Forest University, afferma che “l’etica, se ridotta alla sola disclosure, diventa una formalità priva di impatto reale”, evidenziando come il sistema attuale generi una falsa percezione di controllo. Inoltre, l’adozione della disclosure come strumento primario ha conseguenze controintuitive: in alcuni casi, secondo alcuni studi, i lettori e i peer reviewer tendono a dare maggior credito agli studi in cui il conflitto è esplicitato, quasi come se l’onestà dichiarativa giustificasse o neutralizzasse il bias. Questo fenomeno è noto in letteratura come “backfire effect” della disclosure, e mina la fiducia pubblica nel sistema di sorveglianza etica. Alla luce di questi dati, appare evidente che il modello di etica scientifica centrato sulla disclosure non è solo inefficace, ma può addirittura essere dannoso. Rallenta la ricerca introducendo lunghe fasi documentali senza offrire reali garanzie contro la distorsione dei dati. Per essere efficace, la bioetica deve evolversi verso strumenti proattivi, basati su valutazioni indipendenti, gestione attiva dei conflitti, accesso pubblico ai dati finanziari, e processi di sorveglianza ex post. La prevalenza della disclosure nel sistema etico attuale, quindi, rappresenta un paradosso: rallenta la ricerca senza migliorarne né l’integrità né la credibilità. Serve un cambio di paradigma: dall’etica “declaratoria” all’etica “interventista”.
Nina Celli, 24 maggio 2025