C’è un filo sottile ma persistente che lega la crisi di fiducia nelle democrazie occidentali, l’erosione dei valori liberali e il culto contemporaneo dell’empatia. Quando quest’ultima smette di essere una disposizione interiore e diventa la regola aurea di comportamento pubblico, essa non rafforza la società, ma la disarma. Kenneth Roth, su “Foreign Policy”, ha denunciato come l’enfasi sull’emozione e sulla compassione selettiva promossa da certi ambienti progressisti abbia indebolito la capacità dell’Occidente di opporsi a derive autoritarie. In una cultura che sacralizza la percezione soggettiva del dolore, l’intera architettura del pensiero critico e del dissenso rischia di crollare sotto il peso dell’emotività. Le istituzioni accademiche e mediatiche, per prime, hanno adottato una logica di prevenzione del conflitto più che di elaborazione dialettica, favorendo l’autocensura e il conformismo morale in nome dell’inclusione. Lo ha dimostrato con lucidità l’analisi condotta da Vivian Gornick su “Boston Review”, in cui si mostra come la distorsione del concetto di narcisismo abbia generato una cultura dell’empatia forzata che, lungi dal liberare gli individui, li incatena in una rappresentazione sociale stereotipata. Questo processo ha prodotto una civiltà che teme il giudizio, che rifugge la responsabilità individuale e che confonde la fragilità emotiva con il fondamento della giustizia. Nell’intervista rilasciata da Marina Berlusconi e commentata su “Il Foglio”, si ribadisce la necessità di un centrodestra che sappia emanciparsi dal sentimentalismo politico e recuperare la centralità della responsabilità, dell’ordine e del merito: un richiamo implicito ma netto alla necessità di contenere l’espansione del principio empatico nel perimetro della razionalità. Perché è proprio in nome dell’empatia che spesso si giustifica la debolezza decisionale, la paralisi normativa, la rinuncia al confronto duro ma necessario con la realtà. L’empatia assolutizzata impone una sospensione etica in cui non si giudica più, si comprende e basta, e in questo modo si legittima qualsiasi rivendicazione purché venga espressa con il tono giusto, con la ferita giusta, con l’identità giusta. José Maria Yulo, su “The Imaginative Conservative”, ha evidenziato come questa dinamica abbia trasformato le università in spazi terapeutici piuttosto che in arene critiche, e che questo modello si sta estendendo a tutti i livelli della sfera pubblica. Una civiltà che fa dell’empatia il suo valore supremo è destinata a proteggere le emozioni a discapito della verità, a rinunciare al merito per proteggere la vulnerabilità, a scegliere il sollievo immediato del consenso invece della lungimiranza del conflitto. In questa prospettiva, l’Occidente empatico non è più il baluardo della ragione e della libertà, ma una civiltà post-politica che ha rinunciato alla propria funzione storica di guida e innovazione per rifugiarsi nell’abbraccio soffocante del sentimento.
Nina Celli, 22 maggio 2025