Chi sostiene che l’empatia sia una debolezza della civiltà occidentale dimostra di fraintendere non solo la natura di questo sentimento, ma anche il nucleo stesso dell’identità culturale e storica dell’Occidente. L’empatia non è una moda recente, né un prodotto del pensiero progressista moderno, bensì una componente strutturale della visione antropologica che l’Occidente ha costruito a partire dall’età classica e che ha maturato lungo il percorso del cristianesimo, dell’umanesimo e dell’Illuminismo. Adam Smith, uno dei padri fondatori del liberalismo, parlava già nel XVIII secolo della “sympathy” come fondamento dell’etica e del commercio tra individui liberi. Non si tratta dunque di una debolezza, ma di una forza sociale capace di equilibrare l’interesse personale con la coesione collettiva. Lo ha dimostrato l’analisi neuroscientifica riportata da Michael Cameron su “The Conversation”, in cui si riconosce l’empatia come una funzione biologicamente radicata e necessaria per la convivenza. I neuroni specchio, attivati nel nostro cervello quando osserviamo emozioni altrui, non sono un difetto evolutivo ma una risorsa selezionata per la sopravvivenza e la cooperazione. Sostenere che l’empatia indebolisca l’Occidente è come dire che il linguaggio indebolisce la logica: si confonde l’uso distorto di uno strumento con la sua essenza. Lo conferma anche l’Ocse, che nel suo Survey on Social and Emotional Skills 2023 ha rilevato come l’empatia sia una delle competenze fondamentali per il successo scolastico, il benessere e la stabilità sociale. Lungi dal minare le basi della civiltà, essa le rafforza. I dati mostrano che studenti empatici tendono a creare ambienti meno conflittuali, più cooperativi e più resilienti, elementi indispensabili per una società democratica. Anche Vivian Gornick, su “Boston Review”, ha difeso l’empatia come reazione alla solitudine culturale e al nichilismo che hanno caratterizzato l’Occidente nei decenni della Guerra Fredda. Criticare l’empatia perché manipolabile è come rifiutare la giustizia perché può essere strumentalizzata: il problema non è il valore in sé, ma l’uso ideologico che se ne fa. Infine, Spitzer, pur denunciando gli effetti negativi dei social sulla qualità dei legami umani, riconosce che l’empatia è la “vera ricetta per la felicità”, essendo legata biologicamente alla nostra capacità di connessione. Quando le civiltà crollano, non è per eccesso di compassione, ma per la perdita di significato, per l’isolamento, per la rinuncia all’ascolto. Una società senza empatia non è una società più forte, ma una società più fragile, più sola, più predisposta alla disgregazione. Difendere l’empatia non significa promuovere il sentimentalismo, ma riconoscere che l’intelligenza emotiva è parte integrante di ogni progetto razionale e politico che abbia a cuore la libertà, la giustizia e la dignità dell’essere umano.
Nina Celli, 22 maggio 2025