Nell’era della transizione ecologica, l’attenzione si concentra spesso sulla necessità di ridurre — o addirittura eliminare — il consumo di carne rossa, accusata di essere uno dei principali motori del cambiamento climatico. Questa narrativa, supportata da dati scientifici validi, ha portato alla proposta di tassarne il consumo come misura di disincentivazione. Tuttavia, ciò che questo approccio trascura è la crescente evidenza che non tutta la carne è uguale, né lo sono i sistemi di produzione. Esistono pratiche di allevamento sostenibile che, anziché aggravare la crisi climatica, possono diventare parte della soluzione. Tassare la carne in modo indiscriminato rischia di colpire anche questi modelli virtuosi, soffocando l’innovazione e la diversificazione nel settore agricolo. L’allevamento rigenerativo è una forma di produzione che integra pratiche agroecologiche, rotazione delle colture, gestione dei pascoli e biodiversità per ottenere carne in modo responsabile. Questi sistemi, ben implementati, non solo riducono le emissioni nette, ma possono addirittura contribuire al sequestro del carbonio nel suolo, migliorare la qualità dell’acqua e promuovere ecosistemi resilienti. Secondo l’inchiesta pubblicata da “The Guardian” nel maggio 2025, numerosi allevatori nel Regno Unito e negli Stati Uniti stanno adottando queste pratiche con risultati promettenti. Ma lamentano che la narrativa pubblica e le politiche fiscali emergenti tendono a trattare tutta la carne come ugualmente dannosa, creando un pregiudizio normativo che rischia di penalizzare l’eccellenza. In altre parole, la tassazione uniforme ignora la diversità dei metodi produttivi. Una tassa sulla carne prodotta industrialmente, con alta intensità energetica e impatto ambientale, potrebbe avere senso. Ma applicarla anche a piccole aziende familiari che praticano pascolo rotazionale o conservano habitat naturali rappresenta una penalizzazione ingiusta. Anziché promuovere una trasformazione del settore, una tassa piatta potrebbe spingere fuori dal mercato proprio quei produttori che stanno cercando di fare la differenza. Esiste poi un aspetto culturale e territoriale. In molte regioni del mondo — dalle Alpi italiane ai pascoli della Nuova Zelanda — l’allevamento estensivo fa parte dell’equilibrio paesaggistico e socioeconomico. Gli animali contribuiscono alla gestione del territorio, prevengono incendi, mantengono la fertilità dei suoli. Eliminare o scoraggiare queste attività in nome di una tassazione standardizzata significherebbe disgregare economie rurali già fragili, aumentando il rischio di abbandono delle aree interne e perdita di tradizioni locali. Anche dal punto di vista climatico, le valutazioni devono essere più calibrate. Uno studio dell’OECD (2025) ha evidenziato che misure di conservazione degli ecosistemi — incluse alcune forme di pascolo controllato — possono essere efficaci tanto quanto la riduzione delle emissioni dirette, con benefici a lungo termine sulla resilienza ambientale. Penalizzare tali pratiche attraverso una tassazione cieca rischia di vanificare questi vantaggi. Un sistema alimentare veramente sostenibile non si costruisce solo togliendo, ma aggiungendo: premiando l’innovazione, sostenendo le pratiche agricole virtuose, valorizzando la qualità sul prezzo. Invece di una tassa universale sulla carne rossa, sarebbe più utile sviluppare un sistema di etichettatura climatica trasparente, incentivi fiscali per la carne prodotta in modo sostenibile e campagne informative per aiutare i consumatori a distinguere tra filiere industriali e artigianali. Invece, tassare tutta la carne rossa in modo indiscriminato è una scorciatoia pericolosa, che rischia di punire proprio chi sta cercando di fare la cosa giusta. L’allevamento sostenibile è un alleato, non un nemico, nella lotta contro il cambiamento climatico, e come tale, va incentivato, non tassato.
Nina Celli, 20 maggio 2025