Nel dibattito sulle politiche ambientali, l’equità sociale è spesso la variabile più delicata. Ogni misura fiscale che incide sui beni di consumo essenziali — come il cibo — rischia di scontrarsi con una dura realtà: le famiglie a basso reddito destinano una quota maggiore del proprio bilancio all’alimentazione, e ogni aumento dei prezzi può trasformarsi in un ostacolo quotidiano. È per questo che l’idea di tassare la carne rossa genera reazioni contrastanti. Ma ciò che spesso si trascura è che, se ben disegnata, una tassa sulla carne può non solo evitare effetti regressivi, ma addirittura diventare uno strumento di giustizia redistributiva. Uno studio pubblicato su “Nature Food” nel 2023 ha analizzato gli effetti distributivi di diverse strutture di meat tax nei paesi europei. I risultati iniziali mostrano che, senza correttivi, la tassa ha un effetto leggermente regressivo: le famiglie a basso reddito ne sopportano il peso in proporzione maggiore. Tuttavia, lo studio sottolinea anche che, se i proventi fiscali vengono redistribuiti tramite sussidi alimentari o riduzioni su altri beni essenziali, l’effetto si azzera o addirittura si inverte, diventando progressivo. Non è la tassa in sé a essere iniqua, ma il modo in cui i suoi ricavi vengono impiegati. Questo approccio è già stato sperimentato in alcuni paesi. La Danimarca, ad esempio, sta applicando una strategia integrata: alla tassa sul carbonio per le emissioni agricole affianca investimenti massicci in educazione alimentare, innovazione vegetale e sostegno alle famiglie. Il piano d’azione per promuovere alimenti plant-based ha ricevuto 170 milioni di euro in finanziamenti pubblici, destinati a trasformare il sistema agroalimentare in modo inclusivo. Come racconta “The Guardian”, il paese ha persino istituito il primo corso universitario per chef vegani, segno che il cambiamento non è solo economico, ma anche culturale. Un altro aspetto cruciale è il consenso sociale. Secondo uno studio condotto da Erhard, Banerjee e Morren (Università di Göttingen, 2024), l’accettazione pubblica di una tassa sulla carne aumenta significativamente se la misura è accompagnata da interventi comportamentali e fiscali ben comunicati. Le campagne di informazione, l’etichettatura ambientale e l’utilizzo dei proventi per migliorare il sistema sanitario o l’educazione alimentare sono tutti fattori che aumentano il sostegno popolare alla tassazione. L’opinione pubblica, infatti, è più favorevole a una tassa percepita come strumento di miglioramento collettivo, piuttosto che come imposizione punitiva. Non meno importante è il ruolo dell’innovazione e dell’accessibilità. Una tassa sulla carne ha senso solo se affiancata da politiche che rendano disponibili alternative valide: proteine vegetali, alimenti locali sostenibili, mense pubbliche bilanciate. In questo modo, la scelta di ridurre il consumo di carne non sarà imposta, ma favorita da un contesto economico e sociale che ne riconosce il valore. La giustizia ambientale non può prescindere dalla giustizia sociale. Consideriamo inoltre l’impatto culturale. L’idea che una tassa possa educare i consumatori potrebbe sembrare paternalistica, ma è in linea con molte politiche pubbliche che abbiamo ormai accettato: le cinture di sicurezza obbligatorie, le accise sul tabacco, le restrizioni sulle bevande zuccherate. Se accettiamo l’idea che lo Stato debba proteggere la salute collettiva e l’ambiente, allora dobbiamo riconoscere che anche una tassa sulla carne — se progettata con attenzione e partecipazione — rientra legittimamente in questo orizzonte di responsabilità. Una tassa sulla carne rossa, quindi, non è per forza iniqua. Può, al contrario, diventare un’opportunità per redistribuire risorse, educare i consumatori, incentivare la produzione sostenibile e costruire un patto sociale nuovo tra cittadini, istituzioni e ambiente.
Nina Celli, 20 maggio 2025