Nel campo delle politiche pubbliche, le cosiddette "sin taxes" — tasse su comportamenti ritenuti dannosi come fumo, alcol, bevande zuccherate — hanno una lunga storia. Sono spesso utilizzate per scoraggiare abitudini poco salutari o insostenibili, agendo attraverso un meccanismo semplice: aumentare il prezzo per ridurne il consumo. L’idea di estendere questo approccio alla carne rossa si inserisce in questa tradizione, ma presenta peculiarità che la rendono molto più problematica, tanto da far sorgere dubbi sulla sua efficacia e sui suoi effetti collaterali. Un esempio emblematico viene dalla Danimarca. Nel 2011, il paese scandinavo introdusse la cosiddetta “fat tax”, una tassa sui prodotti ad alto contenuto di grassi saturi. L’intento era di migliorare la salute pubblica attraverso un disincentivo economico. Ma l’esperimento si concluse appena 15 mesi dopo, con la revoca della misura. I motivi erano gli effetti collaterali inaspettati: i consumatori cominciarono a fare acquisti oltre confine per eludere la tassa, le piccole imprese alimentari subirono cali di vendite e l’opinione pubblica si rivolse contro la misura, percependola come punitiva e inefficace. Uno studio del 2023 pubblicato su “arXiv” ha analizzato gli effetti reali della fat tax danese. I dati rivelano che, sì, ci fu una diminuzione del consumo di alcuni alimenti grassi — come pancetta e formaggi — ma anche un aumento delle spese su altri beni e un cambiamento nei comportamenti di acquisto che ha ridotto l’efficacia sanitaria della tassa. In altre parole, le persone non smettono di mangiare male solo perché qualcosa costa di più: spesso riorientano i propri consumi su beni ugualmente poco salutari, ma non tassati. Traslando questa esperienza sul dibattito della meat tax, emergono preoccupazioni simili. Tassare un alimento come la carne, che ha un forte valore culturale, identitario e nutrizionale, rischia di generare resistenze, elusioni e comportamenti compensatori. Le persone potrebbero rivolgersi a carni meno costose ma più lavorate, a prodotti ultra-processati o a fonti proteiche meno equilibrate. Inoltre, vi è il rischio che le abitudini non cambino affatto nelle fasce più abbienti, mentre quelle più povere si trovino costrette a rinunciare senza alternative valide, aggravando le disuguaglianze già esistenti. Le tasse comportamentali hanno poi una caratteristica ambigua: per essere davvero efficaci nel cambiare comportamenti, devono essere alte. Ma tasse alte sono impopolari, rischiano di generare malcontento e possono essere facilmente strumentalizzate politicamente. Al contrario, tasse troppo basse finiscono per essere poco più di un simbolo, incapaci di modificare davvero le scelte dei consumatori. C’è poi il tema dell’effetto “rebound”: il denaro che i consumatori “risparmiano” smettendo di acquistare carne può essere speso in altri beni ad alto impatto ambientale, come prodotti importati, snack confezionati o beni di consumo a ciclo breve. Senza una strategia integrata che accompagni la tassazione con educazione, accesso a cibi alternativi e trasformazione della filiera produttiva, la tassa sulla carne rischia di agire su un solo tassello del sistema, ignorando la complessità delle interazioni tra economia, cultura e ambiente. L’esperienza delle tasse comportamentali dimostra che l’introduzione di una meat tax richiede più di una semplice alzata del prezzo. Richiede una profonda analisi degli effetti collaterali, dei cambiamenti nei comportamenti di consumo e delle reazioni politiche e culturali. Altrimenti, il rischio concreto è che una misura nata per aiutare il pianeta si trasformi in uno strumento inefficace, divisivo e, nel peggiore dei casi, controproducente.
Nina Celli, 20 maggio 2025