La salute pubblica è diventata uno degli snodi più critici per il futuro delle società moderne. Malattie croniche come diabete, patologie cardiovascolari e alcune forme di tumore sono in costante aumento, aggravando i bilanci sanitari nazionali e riducendo la qualità della vita di milioni di persone. Una parte significativa di queste malattie è legata a fattori dietetici, tra cui l’eccessivo consumo di carne rossa, in particolare quella lavorata. Ed è proprio in questo contesto che l’introduzione di una tassa sulla carne rossa trova una potente giustificazione sanitaria, oltre che ambientale. Secondo uno studio condotto dall’Università di Oxford e pubblicato nel 2018, se i prezzi della carne rossa riflettessero i costi sociali legati alle malattie che essa contribuisce a causare, il consumo diminuirebbe del 16% a livello globale. Gli autori stimano che una tassa del 20% sulla carne non lavorata e del 110% su quella trasformata potrebbe evitare 220.000 decessi ogni anno, con un risparmio di oltre 41 miliardi di dollari in costi sanitari legati a cure e trattamenti medici. Ma tassare la carne rossa ha un valore anche simbolico: rappresenta un messaggio chiaro da parte delle istituzioni verso una nuova responsabilità collettiva. Quando uno Stato decide di tassare un bene, lo fa perché quel bene genera danni collettivi. È già successo con il tabacco, con l’alcol, e persino con le bevande zuccherate in alcune nazioni. Perché allora non applicare lo stesso principio alla carne rossa, che è associata a un rischio aumentato del 18% per malattie cardiovascolari e del 17% per alcuni tumori, come affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità? Un’altra considerazione importante riguarda l’effetto di una tassa sulla carne in termini di prevenzione. Le politiche sanitarie preventive sono, nel lungo periodo, molto più efficaci ed economiche rispetto alle strategie curative. Ridurre il consumo di carne rossa significa non solo diminuire l’incidenza di malattie croniche, ma anche alleggerire i sistemi sanitari, liberarli da una parte della pressione crescente legata all’invecchiamento della popolazione e ai costi crescenti dei farmaci. I dati a supporto non mancano. Uno studio pubblicato su “Nature Food” nel 2023 ha confermato che una meat tax ben disegnata non solo ridurrebbe il consumo, ma avrebbe anche effetti positivi sulla dieta media della popolazione. Se accompagnata da misure di redistribuzione (es. incentivi per alimenti vegetali o sconti su frutta e verdura), la tassa sulla carne può spingere i consumatori verso scelte più salutari, democratizzando l’accesso a diete equilibrate e nutrienti. In Danimarca, l’esempio è concreto. Il governo ha deciso non solo di tassare le emissioni del settore agricolo, ma anche di finanziare programmi di educazione alimentare, innovazione nelle alternative vegetali e formazione professionale per i cuochi del futuro. Il primo corso universitario per chef vegani, istituito a Copenaghen, è solo una delle tante misure simboliche ma efficaci adottate per promuovere un cambio culturale, oltre che dietetico. È fondamentale notare che la tassa sulla carne non agisce in isolamento. Essa deve far parte di una strategia più ampia, integrata e progressiva di salute pubblica, che coinvolge scuola, informazione, commercio e ricerca. La trasformazione del sistema alimentare, così come quella energetica, richiede tempo e strumenti differenziati. Ma iniziare a disincentivare ciò che nuoce alla salute è un primo passo logico, equo e potenzialmente rivoluzionario. Una tassa sulla carne rossa, quindi, non è solo una misura ambientale. È una scelta sanitaria, culturale e preventiva.
Nina Celli, 20 maggio 2025