Nel mondo della crisi climatica, ogni grado conta, ogni tonnellata di CO₂ risparmiata rappresenta un passo in avanti nella corsa contro il tempo. Eppure, vi è un settore che troppo spesso rimane ai margini del dibattito pubblico e delle azioni politiche: quello zootecnico, in particolare legato alla produzione di carne rossa. L’impatto climatico della carne bovina, infatti, è tanto elevato quanto sottovalutato. Ed è proprio da qui che nasce l’idea — supportata da numerosi studiosi ed enti internazionali — di introdurre una tassa specifica sulla carne rossa, allo scopo di ridurne il consumo e orientare il mercato verso alternative più sostenibili. La carne rossa, secondo la FAO, è responsabile del 14,5% delle emissioni globali di gas serra, un dato che supera quello dell’intero settore dei trasporti. Questo accade perché gli allevamenti bovini emettono enormi quantità di metano, un gas serra 84 volte più potente della CO₂ nel breve periodo. A ciò si aggiunge l’enorme uso di risorse naturali: ogni chilo di manzo prodotto richiede circa 15.000 litri d’acqua e un consumo di suolo che contribuisce pesantemente alla deforestazione, soprattutto in aree vulnerabili come l’Amazzonia. La dimensione del problema è confermata anche da uno studio recente pubblicato su “Nature Communications” (Bilotto et al., 2025), che analizza le possibilità di riduzione delle emissioni attraverso pratiche agronomiche. Il pacchetto di tecnologie analizzato ha permesso una riduzione del 37–69% delle emissioni nette in un'azienda zootecnica specializzata in carne bovina. Tuttavia, gli stessi autori sottolineano che l’effetto è limitato se non si interviene anche sulla domanda: senza una riduzione del consumo, le migliorie tecniche rischiano di essere un palliativo. La tassazione ambientale è uno strumento per internalizzare nel prezzo i costi ambientali oggi esternalizzati. Un’analisi dell’OECD del 2025 conferma che una carbon tax applicata al settore agricolo e forestale (AFOLU) è in media due volte più efficace dei sussidi nel ridurre le emissioni pro capite. Secondo lo studio, un incremento di 10 dollari per tonnellata di CO₂ può ridurre le emissioni del 4,6% nel lungo periodo. Applicando tale principio alla carne rossa, la tassa fungerebbe da stimolo economico per modificare le abitudini alimentari e indirizzare le risorse verso produzioni meno impattanti. Iniziano a emergere esempi concreti. La Danimarca ha annunciato l’introduzione, dal 2030, di una tassa sulle emissioni del settore zootecnico: ogni tonnellata di gas serra sarà tassata inizialmente a 120 corone danesi (circa 16 euro), con un aumento previsto fino a 300 corone entro il 2035. Il gettito sarà reinvestito per finanziare la transizione verde degli agricoltori e sviluppare alternative alimentari sostenibili. Si tratta del primo tentativo strutturato di applicare il principio "chi inquina paga" al settore agricolo in modo esplicito, come riportato da “The Guardian” nel giugno 2024. Questi segnali vanno letti in un quadro più ampio. Il rapporto IPCC del 2023 ha ribadito con forza che, senza una trasformazione profonda del sistema alimentare globale, sarà impossibile mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Cambiare dieta è uno degli interventi individuali più potenti, ma necessita di essere accompagnato da politiche pubbliche che facilitino e guidino questa trasformazione. La tassa sulla carne è uno di questi strumenti, forse il più efficace perché incide direttamente sul comportamento dei consumatori. Naturalmente, una tale misura deve essere progettata con attenzione per evitare effetti indesiderati, ma ciò non può diventare un alibi per l’inazione. La crisi climatica impone scelte coraggiose e tempestive. E tra queste, la tassazione della carne rossa emerge non solo come un’opzione possibile, ma come una necessità urgente per salvare il clima e dare un segnale forte: i costi ambientali devono rientrare nel prezzo reale delle nostre abitudini alimentari.
Nina Celli, 20 maggio 2025