L’Unione Europea non è uno Stato federale, né un governo centralizzato. È una comunità politica formata da 27 Stati sovrani, ciascuno con la propria storia, cultura diplomatica, interessi strategici e sensibilità geopolitica. In politica estera, ogni decisione significativa — dalle sanzioni all’embargo, fino alla sospensione di accordi — richiede l’unanimità. Questo meccanismo, pensato per tutelare l’equilibrio interno, è anche il principale freno a qualunque reazione forte e unitaria nei confronti di crisi internazionali. Ed è il cuore della questione nel dibattito sulla risposta dell’UE al conflitto a Gaza. Fin dall’inizio dell’offensiva israeliana, gli Stati membri hanno manifestato posizioni profondamente divergenti. Da una parte Paesi come Irlanda, Spagna, Belgio e Lussemburgo, che hanno chiesto a gran voce un embargo sulle armi e la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele. Dall’altra, Stati come Germania, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria e Paesi Bassi, che hanno difeso il diritto di Israele alla sicurezza e si sono opposti a qualsiasi misura punitiva. Queste divisioni non sono solo politiche, ma anche storiche e culturali. La Germania, ad esempio, ha un legame profondo e irrinunciabile con Israele, derivante dalla memoria dell’Olocausto. Questo condiziona profondamente la sua politica estera, rendendo difficile ogni iniziativa che possa essere percepita come ostile allo Stato ebraico, anche quando motivata da preoccupazioni umanitarie. Inoltre, gli interessi economici e militari sono fortemente intrecciati: la Germania e l’Italia sono tra i principali esportatori di tecnologie militari in Israele; la Francia mantiene cooperazioni strategiche in campo aerospaziale; i Paesi dell’est, come la Polonia e l’Ungheria, vedono in Israele un alleato nella lotta all’immigrazione e al terrorismo. Questa rete di rapporti bilaterali ostacola qualunque azione collettiva. Il risultato è una paralisi strutturale. La Commissione Europea non ha il potere di imporre sanzioni autonomamente. Il Parlamento Europeo può esprimere pareri politici, ma non può decidere la politica estera dell’Unione. Solo il Consiglio, con l’unanimità degli Stati membri, può approvare misure vincolanti. E questa unanimità, su Israele, non c’è. Né sembra realizzabile nel breve periodo. Alcuni critici accusano l’UE di nascondersi dietro i veti. Ma la verità è che questa è la struttura sulla quale l’Unione si basa. Essa è nata per costruire consenso, non per imporre diktat. E finché i trattati resteranno gli attuali, l’azione esterna dell’UE continuerà a riflettere le sue divisioni interne. Questo non significa che non si possa fare nulla. Gli Stati membri possono agire in autonomia: Irlanda e Spagna, ad esempio, hanno interrotto cooperazioni bilaterali con Israele. Ma trasformare queste iniziative in una politica comune è, allo stato attuale, istituzionalmente irrealistico. Accusare l’UE di “non agire” equivale, quindi, a ignorare la natura del suo funzionamento interno. Il vero problema non è la volontà politica dell’Europa come entità astratta, ma la divergenza irreversibile tra le sue componenti.
Nina Celli, 14 maggio 2025