L’Unione Europea non è solo spettatrice del conflitto a Gaza: è una fonte strutturale di armamenti, tecnologie e componenti che alimentano direttamente o indirettamente l’apparato militare israeliano. Mentre il linguaggio ufficiale europeo parla di “moderazione” e “cessate il fuoco”, l’industria bellica comunitaria ha registrato record storici di crescita e profitti, in piena escalation del conflitto. Il caso più emblematico è quello di Rheinmetall, gigante tedesco della difesa, che nel primo trimestre del 2025 ha riportato un incremento del 73% nel comparto armi e munizioni, con ricavi per 599 milioni di euro. La crescita è stata attribuita, esplicitamente, all’“escalation dei conflitti in Medio Oriente e alla necessità di ricostituire arsenali”. Le forniture includono componenti per blindati, sistemi di targeting e munizioni, parte delle quali destinate — direttamente o attraverso triangolazioni — a Israele. Non si tratta di un caso isolato. Secondo quanto riportato dall’European Palestinian Council, almeno otto Stati membri UE hanno mantenuto attive le esportazioni militari verso Israele anche dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza. Germania, Italia, Bulgaria, Francia e Paesi Bassi sono tra i principali fornitori. Nonostante i ripetuti appelli della società civile e le richieste formali di oltre 100 eurodeputati per un embargo, nessun Paese UE ha adottato un blocco unilaterale delle forniture. Il paradosso è evidente: l’UE, da un lato finanzia convogli umanitari, ospedali da campo, programmi di emergenza per l’infanzia. Dall’altro, continua a fornire le stesse armi che devastano quegli ospedali e uccidono quei bambini. Il risultato è una doppia responsabilità: etica e operativa. La complicità materiale è aggravata dall’assenza di controlli efficaci. Mentre la normativa europea vieta l’export verso Paesi che violano sistematicamente i diritti umani, i criteri vengono interpretati con estrema elasticità e le autorizzazioni sono lasciate ai singoli Stati membri. Questo ha permesso, ad esempio, al Regno Unito — non più parte dell’UE, ma strettamente legato alle sue filiere — di continuare a inviare munizioni a Israele anche dopo la sospensione ufficiale delle licenze, per un totale di oltre 8.600 proiettili solo tra dicembre e marzo. Le richieste di embargo si sono moltiplicate. ONG, parlamentari, sindacati e perfino alcuni governi nazionali, come Irlanda e Spagna, hanno chiesto una moratoria immediata sulle esportazioni militari verso Israele. Ma queste proposte sono rimaste lettera morta, bloccate da veti incrociati e dalla riluttanza della Commissione a intervenire su una materia ritenuta “di competenza nazionale”. Così, mentre l’UE si racconta come portatrice di valori e diritti, le sue industrie continuano a fatturare sulle macerie di Gaza. La retorica umanitaria convive con i profitti del complesso militare-industriale, in una dicotomia che mina alla radice la credibilità dell’azione esterna europea.
Nina Celli, 14 maggio 2025