Ogni conflitto armato si gioca su due fronti: quello delle armi e quello della legittimità. È su questo secondo campo, meno visibile ma altrettanto decisivo, che l’Unione Europea ha contribuito — seppure indirettamente — a rafforzare l’impunità diplomatica di Israele. Non solo con la sua inazione politica, ma soprattutto attraverso la scelta deliberata di non delegittimare pubblicamente le operazioni israeliane, evitando ogni riferimento formale al diritto penale internazionale. Questa omissione ha avuto l’effetto di confermare, normalizzare e giustificare il comportamento dello Stato israeliano agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Nella narrazione diplomatica europea, le azioni israeliane a Gaza vengono quasi sempre accompagnate da formule caute: “diritto alla difesa”, “preoccupazione umanitaria”, “necessità di moderazione”. In nessun documento ufficiale dell’UE è stata utilizzata, fino a oggi, l’espressione “crimine di guerra”, e tantomeno “genocidio”. Eppure, numerose fonti autorevoli — dal rapporto della relatrice ONU Francesca Albanese fino a dichiarazioni congiunte di ONG internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International — descrivono le operazioni militari israeliane come sistematicamente criminali, fondate su atti di punizione collettiva, uso della fame come arma, targeting deliberato di infrastrutture civili. L’assenza di una condanna formale da parte dell’UE non è irrilevante. L’Unione Europea è considerata una potenza normativa globale, e le sue dichiarazioni hanno un impatto significativo sulla costruzione della narrativa internazionale. Quando l’UE non qualifica giuridicamente gli eventi, contribuisce — direttamente o indirettamente — a rendere possibile la prosecuzione delle violazioni, creando un contesto diplomatico in cui Israele può continuare a operare senza temere sanzioni morali. L’effetto è amplificato dal fatto che Israele utilizza la posizione europea come scudo legittimante. In dichiarazioni pubbliche, esponenti del governo israeliano hanno più volte citato l’assenza di condanne formali europee come prova della legittimità delle proprie azioni. E nel frattempo, la diplomazia israeliana rafforza le sue relazioni bilaterali con singoli Stati membri — come Germania, Repubblica Ceca, Austria — sfruttando le divisioni interne all’UE per impedire una posizione comune. A questo si aggiunge l’aspetto processuale: la Corte Penale Internazionale sta valutando l’apertura di procedimenti contro esponenti israeliani per crimini di guerra, ma il sostegno europeo a questa iniziativa è stato tiepido e frammentario. Nessuno dei leader comunitari ha espresso pubblicamente l’intenzione di cooperare attivamente con la Corte, né è stata prevista alcuna forma di pressione diplomatica per garantire l’adesione di Israele allo Statuto di Roma. La retorica dei diritti umani, pilastro della politica estera europea, appare quindi svuotata di efficacia. Non basta finanziare l’UNRWA o inviare convogli umanitari: se non si agisce anche sul piano della narrazione giuridica e diplomatica, si lascia che il Diritto internazionale venga eroso ogni giorno, parola dopo parola, omissione dopo omissione. L’impunità diplomatica di Israele è dunque anche un effetto della cautela europea. Un effetto che si traduce, nei fatti, in una legittimazione implicita delle violazioni.
Nina Celli, 14 maggio 2025