In un conflitto tragico come quello che sta devastando la Striscia di Gaza, la tentazione di dividere il mondo in complici e oppositori è forte. Ma la realtà è più complessa. Di fronte alle accuse di passività, l’Unione Europea può rivendicare una serie di azioni concrete, soprattutto sul piano umanitario e diplomatico, che costituiscono una risposta tangibile — anche se non sempre visibile — alla crisi. Sul fronte umanitario, l’UE è attualmente il principale donatore internazionale di aiuti a Gaza. La Commissione Europea ha stanziato, tra il 2023 e il 2027, oltre 1,6 miliardi di euro destinati a interventi di emergenza, ricostruzione e resilienza. Solo nel 2023, 450 milioni di euro sono stati impiegati per garantire l’accesso a beni di prima necessità, acqua potabile, cure sanitarie e supporto psicologico. I risultati sono stati: distribuzione di cibo per oltre un milione di persone; l’allestimento di scuole temporanee per 100.000 bambini; assistenza sanitaria e supporto psicosociale per decine di migliaia di sfollati. In un contesto in cui le Nazioni Unite parlano di “catastrofe umanitaria in tempo reale”, questi interventi hanno salvato vite ogni giorno, mitigando gli effetti più devastanti del blocco israeliano e del collasso infrastrutturale della Striscia. Sul piano diplomatico, l’Unione ha mantenuto canali di dialogo attivi con tutte le parti: Israele, Autorità Palestinese, Egitto, ONU, Stati Uniti. Ha promosso, in sede ONU e G7, risoluzioni per il cessate il fuoco, l’accesso agli aiuti e il rispetto del diritto umanitario. Il 5 maggio 2025, un portavoce della Commissione ha dichiarato: “Non stiamo chiedendo con gentilezza: stiamo esercitando una pressione diplomatica continua per la fine delle operazioni militari indiscriminate”. L’UE ha inoltre appoggiato, senza ambiguità, il riconoscimento del diritto palestinese a uno Stato, posizione ribadita in tutte le sedi internazionali e sostenuta attivamente da alcuni Stati membri con azioni unilaterali (Irlanda, Spagna, Belgio). Va poi considerato l’aspetto giuridico dell’UE, la quale non è uno Stato, ma una comunità politica fondata su consenso multilaterale. Qualsiasi misura vincolante in politica estera — comprese sanzioni o embargo — richiede unanimità tra i 27 Stati membri. In un’Unione profondamente divisa su questo tema, dove la Germania ha legami strategici con Israele e l’Irlanda chiede invece l’embargo, il blocco decisionale è strutturale, non ideologico. Inoltre, rompere completamente le relazioni con Israele significherebbe perdere ogni forma di leva negoziale. L’UE è uno dei pochi attori globali ancora in grado di interloquire con entrambe le parti. Distruggere questo ruolo equivarrebbe a rinunciare a ogni capacità di mediazione futura. L’UE ha fatto e continua a fare molto. Forse non abbastanza, forse non tutto ciò che sarebbe auspicabile. Ma parlare di passività o complicità significa ignorare un impegno reale, quotidiano, documentato, che ha salvato vite e sostenuto la pace anche in condizioni di paralisi politica. L’Europa non è il problema. È uno dei pochi strumenti ancora disponibili per immaginare una soluzione.
Nina Celli, 14 maggio 2025