C’è un’Italia che non compare nei decreti-legge, né nei programmi elettorali. È l’Italia degli sportelli dell’anagrafe, degli uffici immigrazione delle prefetture, dei comuni di provincia che cercano – con personale ridotto e sistemi informatici obsoleti – di gestire un carico amministrativo sempre crescente. In questa Italia concreta, fatta di scadenze e faldoni, la proposta di dimezzare da 10 a 5 anni i tempi di residenza per ottenere la cittadinanza italiana, come previsto dal referendum di giugno 2025, rischia di trasformarsi in un boomerang operativo. Secondo un rapporto interno del Ministero dell’Interno, rilanciato da “Today.it”, ci sono attualmente oltre 150.000 pratiche di cittadinanza in attesa di essere esaminate. I tempi medi di lavorazione superano già oggi i 24 mesi, con punte di 36 mesi nelle città più grandi come Roma, Milano e Napoli. Si tratta di una situazione di “stress amministrativo” che non ha precedenti recenti, e che peggiorerebbe esponenzialmente con l’aumento delle domande conseguente alla riforma. Le ANCI, l’associazione nazionale dei comuni italiani, hanno più volte segnalato la carenza strutturale di personale dedicato. Come evidenziato nel dossier di “Cinformi”, il personale addetto alla gestione delle pratiche è spesso ridotto a poche unità e lavora con software diversi da comune a comune, senza interoperabilità. Una riforma che aumenti in modo repentino il flusso delle richieste di cittadinanza – senza parallelamente investire in risorse, formazione e digitalizzazione – rischia di paralizzare l’intero sistema. Il governo, consapevole di questa fragilità, ha inserito nella riforma una misura di centralizzazione presso la Farnesina per i cittadini italiani all’estero. Tuttavia, nulla di analogo è stato previsto per i richiedenti presenti sul territorio italiano. Come osserva l’editorialista Rosalba Reggio su “Il Sole 24 Ore”, “abbiamo un impianto burocratico costruito per gestire lentezza e prudenza. Oggi si pretende di renderlo reattivo, senza fornirgli gli strumenti”. Il tema non è solo tecnico. È anche di tenuta democratica. Quando la cittadinanza viene riconosciuta con ritardi di anni, il cittadino – o aspirante tale – perde fiducia nelle istituzioni. Come dimostrano le testimonianze raccolte da “IntegrazioneMigranti.gov.it”, molti giovani si sentono intrappolati in un limbo giuridico: né cittadini, né pienamente stranieri. Questa incertezza genera disagio sociale, sfiducia e, nei casi peggiori, frustrazione politica. Un altro rischio è quello della disparità territoriale. Se oggi ci sono comuni dove la procedura si chiude in 18 mesi, e altri dove dura 5 anni, l’aumento delle domande provocherebbe un effetto imbuto: i territori già fragili diventerebbero impraticabili. Lo denuncia anche il sindaco di Taranto in un’intervista su “Antenna Sud”, che chiede “una legge seria e unitaria, non un’ondata di richieste ingestibili”. A fronte di tutto questo, la riforma appare ambiziosa ma logisticamente impreparata. Come ha scritto l’editorialista di “Diritto.it”, “non basta modificare i numeri. Servono risorse, sistemi interoperabili, formazione del personale. Altrimenti si rischia di trasformare un’opportunità storica in un incubo amministrativo”. Dimezzare i tempi può essere una misura simbolicamente forte, ma senza una robusta infrastruttura burocratica, diventa una promessa irrealizzabile. E in politica, come nella vita, le promesse mancate fanno più male delle promesse negate.
Nina Celli, 11 aprile 2025