In un’aula scolastica italiana, non è raro che due bambini siedano fianco a fianco, leggano lo stesso libro, cantino l’inno nazionale insieme. Eppure, uno dei due, magari nato a Roma da genitori senegalesi, pur parlando italiano meglio dei suoi coetanei e avendo frequentato sin dalla materna le scuole pubbliche, non è cittadino italiano. Non lo sarà fino ai 18 anni, e solo a patto che presenti una domanda entro una finestra temporale strettissima e riesca a dimostrare di aver risieduto ininterrottamente in Italia per tutta la vita. Questo è il paradosso italiano. Secondo il Ministero del Lavoro, oltre 800.000 minori stranieri sono nati o cresciuti in Italia ma non hanno ancora accesso alla cittadinanza. Il referendum previsto per l’8 e 9 giugno 2025 propone, tra le altre misure, di dimezzare i tempi di residenza da 10 a 5 anni per ottenere la cittadinanza italiana. Una riforma che punta direttamente a colmare il divario tra identità vissuta e riconoscimento giuridico, soprattutto per i più giovani. Il problema è strutturale. Come riportato da “Il Sole 24 Ore”, solo il 30% dei minori stranieri residenti in Italia è riuscito ad ottenere la cittadinanza. Questo nonostante due alunni stranieri su tre siano nati in Italia e frequentino regolarmente il sistema scolastico. L’80,3% di questi ragazzi si dichiara “anche italiano”, ma solo il 45% immagina un futuro stabile in Italia. La mancanza di riconoscimento giuridico genera incertezza e frustrazione, spingendo molti giovani verso un’identità frammentata o verso la migrazione secondaria. Il rapporto Orizzonti condivisi, presentato da IDOS e Centro Studi Pio V, sottolinea come la scuola sia il luogo primario di integrazione reale. Gli studenti stranieri partecipano alle gite, agli esami, alle attività pomeridiane. Alcuni diventano rappresentanti di classe. Ma quando si tratta di partecipare attivamente alla vita civica – votare, essere eletti, accedere ad alcuni concorsi pubblici – la barriera della cittadinanza si fa sentire. “Sono italiana, ma sulla carta non lo sono”, è la frase ricorrente di chi vive questa esclusione silenziosa. Secondo l’economista Piero Fassino, riportato da “Italia Informa”, “un paese che cresce con nuove generazioni che non si sentono riconosciute è un paese destinato alla frammentazione sociale”. E il presidente del Centro Astalli, Camillo Ripamonti, ha ribadito alla conferenza annuale del 2025 che “la cittadinanza deve essere lo strumento con cui lo Stato riconosce l’appartenenza effettiva, non un premio da conquistare”. Sul piano internazionale, l’Italia è oggi tra i paesi più restrittivi in Europa. Mentre in Francia servono 5 anni (ridotti a 2 in caso di formazione in loco), in Germania sono sufficienti 6–8 anni con integrazione linguistica. Ridurre il periodo minimo italiano da 10 a 5 anni significherebbe allinearsi finalmente agli standard europei, come sottolineato da Justin Frosini (Bocconi) in una tavola rotonda per “Il Sole 24 Ore”. Dare cittadinanza a chi ha già fatto proprio l’immaginario italiano – non solo lingua, ma valori, storia, relazioni sociali – è un atto di realismo politico, oltre che di giustizia. E come ha ricordato il Centro Astalli, “non si può più ignorare che la nuova Italia è già qui, siede sui banchi delle nostre scuole, entra nei nostri ospedali, gioca nelle nostre squadre di quartiere”. Nel 2025, votare a favore della riforma significherà dare un volto e un futuro a questa nuova generazione di italiani, troppo a lungo sospesi tra due mondi.
Nina Celli, 11 aprile 2025