Molto oltre la sua utilità tattica, il progetto Stargate rappresenta una delle più ambiziose esplorazioni ufficiali mai tentate dall’intelligence militare sul potenziale della mente umana. Al di là del successo operativo delle singole sessioni di visione remota, Stargate si colloca in una linea di confine tra scienza, filosofia e intuizione. È, per molti studiosi contemporanei, il manifesto non dichiarato dell’epistemologia alternativa, capace di interrogare non solo “cosa sappiamo”, ma “come possiamo sapere ciò che non possiamo vedere”. La documentazione interna della CIA e della DIA mostra chiaramente come Stargate non fosse trattato come un progetto meramente funzionale: era un esperimento sul rapporto tra coscienza e realtà, condotto in un’epoca in cui la fisica quantistica e la teoria dell’informazione cominciavano a penetrare nel discorso strategico. Le fonti, come il Research and Peer Review Plan e lo Stargate Operational Overview, parlano apertamente di “perception enhancement techniques” e “non-local awareness”, concetti che risuonano con le ipotesi speculative oggi formulate nelle neuroscienze emergenti. La testimonianza di Ingo Swann, riportata in numerosi estratti e nel libro Phenomena di Annie Jacobsen, è emblematica: durante una sessione di visione remota, fu in grado di descrivere dettagli dell’ambiente lunare e — ancora più sorprendentemente — degli anelli di Giove, mesi prima che la sonda Pioneer 10 li rilevasse strumentalmente. Anche se questi episodi possono essere interpretati in vari modi, sollevano una domanda epistemologica fondamentale: è possibile che la mente acceda a informazioni non filtrate dai cinque sensi? In questo contesto, Stargate diventa non solo un progetto militare, ma un esperimento antropologico: cosa succede se soggetti allenati vengono privati di ogni input sensoriale e stimolati a generare informazioni attraverso stati di coscienza modificati? La risposta, secondo i ricercatori del Stanford Research Institute, non fu mai “nulla”. Qualcosa accadeva sempre: immagini, simboli, schemi, visioni. Il punto non era se fossero tutte accurate, ma il fatto stesso che si verificassero con costanza e potessero essere catalogate, misurate, confrontate con dati reali. Fonti moderne come l’articolo di “War History Online” e “Popular Mechanics” evidenziano come Stargate abbia contribuito ad alimentare non solo un immaginario collettivo — fatto di “spie psichiche”, poteri mentali e guerra dell’informazione quantica — ma anche un filone di ricerca interdisciplinare che oggi trova spazio in settori legittimi della scienza cognitiva: la neurofenomenologia, gli studi sul sogno lucido, la mente estesa, e perfino l’intelligenza artificiale ispirata alla creatività subconscia. È significativo che, nonostante la chiusura ufficiale del programma, alcuni ex partecipanti abbiano continuato a collaborare con agenzie e istituzioni, anche in ambiti civili. McMoneagle, per esempio, ha lavorato con la Monroe Institute e ha tenuto conferenze sull’interazione tra intuizione e decisione strategica, mentre i modelli di sessione Stargate sono stati adattati per training in creatività e problem solving in ambito aziendale. Anche i critici più severi ammettono che il progetto — pur non essendo scientificamente conclusivo — ha aperto domande fondamentali che ancora oggi attendono risposta: la mente può captare segnali deboli oltre la soglia della coscienza? Esiste una forma di “intelligenza intuitiva” quantificabile? L’osservazione interiore può generare dati affidabili in contesti ad alta incertezza? Il progetto Stargate, al di là della sua reputazione controversa, fu un esperimento unico nel suo genere: sostenuto da un ente governativo, dotato di strutture protocollari e integrato nel sistema informativo più potente del pianeta. Ma soprattutto, fu una ricerca sul limite della percezione, un tentativo autentico di rispondere alla domanda più affascinante di tutte: fin dove può arrivare la mente umana, se le si toglie ogni confine?
Nina Celli, 6 aprile 2025