L’annessione della Groenlandia da parte degli Stati Uniti non solleverebbe solo tensioni diplomatiche o proteste locali: si configurerebbe anche come un potenziale caso di violazione del Diritto internazionale, con conseguenze gravi sul piano giuridico e normativo per l’intero ordine globale. Se perseguita in modo unilaterale o sotto pressione, un’operazione di questo tipo minerebbe principi fondanti dell’attuale sistema di relazioni internazionali, aprendo la strada a pericolosi precedenti che potrebbero essere sfruttati da potenze autoritarie in contesti simili. Il principio cardine in gioco è quello di autodeterminazione dei popoli, sancito dall’Articolo 1(2) della Carta delle Nazioni Unite: “Sviluppare relazioni amichevoli tra le nazioni basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli.” Questo diritto è stato ribadito in numerose risoluzioni ONU, tra cui la 1514 (XV) del 1960 sulla decolonizzazione e la 2625 (XXV) del 1970, che stabilisce che "nessun cambiamento territoriale può essere imposto con la forza o sotto coercizione". L’annessione della Groenlandia, se avvenisse senza un referendum libero, trasparente e verificato a livello internazionale, violerebbe quindi questi standard giuridici. La preoccupazione è che gli Stati Uniti, adottando una logica espansionista in contesto pacifico, potrebbero legittimare comportamenti simili da parte di potenze revisioniste come la Russia o la Cina. È difficile, ad esempio, condannare l’annessione della Crimea del 2014 o le pretese su Taiwan, se allo stesso tempo una democrazia occidentale come gli Stati Uniti perseguono un piano di espansione territoriale unilaterale, per di più su un alleato NATO come la Danimarca. Come ha sottolineato l’ex ambasciatore americano Daniel Fried: “L’annessione della Groenlandia ci allineerebbe con le peggiori pratiche autoritarie del XX secolo, riducendo l’America a un imitatore del putinismo.” Inoltre, esiste il rischio concreto che una simile operazione venga portata davanti alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ). La Danimarca potrebbe intentare una causa per violazione della sovranità territoriale e del diritto all’autodeterminazione del popolo groenlandese, aprendo uno scontro legale di lunga durata con impatti reputazionali devastanti per Washington. Nel diritto consuetudinario internazionale, qualsiasi mutamento di status territoriale deve avvenire secondo tre principi: Consenso democratico interno (referendum); assenso delle autorità sovrane (Danimarca, Groenlandia); riconoscimento multilaterale (ONU o trattati multilaterali). L’assenza di anche solo uno di questi tre elementi delegittimerebbe l’intera procedura. E come evidenziato da giuristi del Council on Foreign Relations, la Groenlandia è riconosciuta come “territorio autonomo”, ma non è una colonia o un territorio senza status: è parte integrante del Regno di Danimarca con pieni diritti legali e politici. Un altro aspetto delicato è la tutela delle popolazioni indigene. I groenlandesi sono in gran parte di etnia inuit, e quindi tutelati da una serie di convenzioni internazionali sui diritti dei popoli nativi, tra cui la Convenzione ILO 169 e la Dichiarazione ONU sui diritti dei popoli indigeni. Un'annessione che avvenisse senza un accordo specifico con i rappresentanti delle comunità locali violerebbe questi trattati, esponendo gli Stati Uniti a sanzioni morali e, in alcuni casi, giuridiche. L’annessione forzata, inoltre, violerebbe anche le logiche costitutive della NATO. Non solo perché sarebbe un attacco alla sovranità di uno Stato membro (la Danimarca), ma perché destabilizzerebbe il principio di solidarietà e fiducia reciproca su cui si fonda l’Alleanza. La NATO, fondata per prevenire aggressioni territoriali in Europa, non può tollerare che uno dei suoi membri persegua obiettivi espansionisti a danno di un altro. Questo metterebbe in crisi l’intero sistema difensivo atlantico e aprirebbe un pericoloso vuoto di legittimità geopolitica.
Nina Celli, 4 aprile 2025