Se è vero che i segnali dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 furono raccolti ma ignorati o sottovalutati, lo è ancora di più che la gestione politica successiva all’attacco ha aggravato la percezione pubblica di un insabbiamento deliberato. Le scelte operate dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dal suo governo non solo non hanno chiarito le dinamiche che hanno portato al disastro, ma hanno contribuito a creare un clima di sospetto e delegittimazione senza precedenti nella società israeliana. Poche ore dopo l’attacco, i primi interrogativi hanno iniziato a circolare. Come aveva fatto Hamas, un gruppo monitorato da una delle intelligence più sofisticate del mondo, a penetrare in Israele con centinaia di miliziani via terra, aria e mare, cogliendo di sorpresa le forze dell’IDF? Come mai nessun sistema di difesa — dai droni ai sensori elettronici, dalle torri di controllo ai soldati di guardia — aveva risposto in tempo? A questi dubbi, il governo ha reagito con silenzi, reticenze e soprattutto con l’assenza di una commissione statale di inchiesta. Secondo “Foreign Policy”, mai nella storia di Israele un evento di tale portata era stato gestito con tanta opacità. Anche durante la guerra del Kippur del 1973, fu istituita una commissione d’indagine: stavolta no. Il motivo, secondo le dichiarazioni dello stesso Netanyahu riportate dal “The Guardian” e “Times of Israel”, è che una commissione “non è opportuna in tempi di guerra”. Ma per l’opposizione e gran parte della società civile, questa è una scusa per evitare di affrontare responsabilità dirette. Il sospetto è alimentato anche da scelte operative e personali. Come riportato da “Axios”, Netanyahu ha cercato di licenziare il direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, pochi mesi dopo l’attacco. Una decisione senza precedenti, avvenuta mentre Bar stava collaborando con la magistratura per far luce sul cosiddetto “Qatargate” (uno scandalo legato ai fondi qatarioti che avrebbero finanziato Hamas, con la presunta complicità di alcuni membri dello staff del Primo Ministro). Bar, che aveva chiesto tempo per concludere le indagini e gestire le trattative per la liberazione degli ostaggi, è stato allontanato. La Corte Suprema israeliana ha sospeso temporaneamente la decisione, ma il gesto politico è rimasto. In parallelo, Netanyahu ha lanciato attacchi pubblici contro l’intelligence, sostenendo che le agenzie lo avevano ingannato, che Ronen Bar non l’aveva svegliato nella notte dell’attacco, e che i servizi “non avevano fatto il loro dovere”. Tuttavia, i documenti ufficiali mostrano che Netanyahu stesso aveva ricevuto diversi rapporti nei giorni precedenti e che fu proprio il suo staff a decidere di non allertarlo. La tensione è esplosa nelle piazze. “Al Jazeera” e “CNN” hanno documentato manifestazioni in tutto il Paese, con migliaia di cittadini che chiedevano verità e trasparenza. Le famiglie delle vittime, in particolare quelle dei kibbutz colpiti, hanno fondato movimenti di protesta permanente. Anche numerosi ex funzionari del Mossad e delle forze armate si sono uniti alle richieste di chiarezza. L’ex consigliere per la sicurezza Chuck Freilich ha parlato di “una gestione del rischio cinica e criminale”. Ma la reazione pubblica non ha modificato l’atteggiamento del governo. Nessun alto funzionario si è dimesso. Nessun ministro ha subito procedimenti disciplinari. E persino la leadership dell’IDF ha evitato di entrare apertamente in conflitto con il Primo Ministro, nel timore di una crisi istituzionale. In tutto questo, il conflitto a Gaza è proseguito, i negoziati per gli ostaggi si sono interrotti e la questione delle responsabilità interne è rimasta congelata. Un’intera nazione — scrive il “New York Times” — è stata lasciata senza risposte.
Nina Celli, 2 aprile 2025