Il 7 ottobre 2023 non ha rappresentato solo un momento di shock per Israele. È stato il crollo di un intero paradigma di sicurezza, un evento che ha dimostrato come la superiorità tecnologica e il prestigio dell’intelligence israeliana non fossero sufficienti a prevenire una catastrofe. Quello che è emerso dalle indagini, dai rapporti riservati e dalle ammissioni pubbliche è che le informazioni c’erano, ma il sistema non è stato capace di elaborarle, trasmetterle e agire. A dirlo per primo è stato Ronen Bar, direttore dello Shin Bet, durante una conferenza stampa riportata dal “Times of Israel” e dal “The Guardian”: “Se avessimo agito diversamente, il massacro si sarebbe potuto evitare”. Un’affermazione gravissima, non solo sul piano politico ma soprattutto su quello tecnico. Bar ha confermato che tra il 6 e il 7 ottobre vi furono almeno quattro segnali d’allarme: movimenti anomali al confine, attivazione di SIM israeliane da parte di Hamas, scambi radio fuori protocollo e un aumento del silenzio informativo da parte delle cellule note. Ma nessuno sapeva chi fosse il responsabile di lanciare l’allerta. Nel rapporto interno dello Shin Bet si legge che non vi era una procedura chiara su quando e come attivare l’allerta di guerra. Il Centro di Comando Sud dell’IDF riteneva che spettasse allo Shin Bet. Lo Shin Bet pensava spettasse all’intelligence militare. E nel frattempo, le truppe di Hamas superavano il confine con bulldozer e alianti. Come ha scritto Yossi Melman su “Haaretz”, il vero disastro è stata la mancanza di fonti umane (HUMINT) sul terreno, a Gaza. Israele si era abituata a un'intelligence tecnologica fatta di droni, intercettazioni, algoritmi. Ma contro una rete organizzata, semi-militare, clandestina e motivata, servivano agenti, infiltrati, testimoni, ma questi non c’erano. Già nel 2020, analisti del Mossad (servizio segreto israeliano) avevano chiesto di rafforzare la presenza umana a Gaza, ma la richiesta fu ignorata. Il sistema ha fallito anche nella trasmissione dell’informazione. Il rapporto interno del “Times of Israel” ha rivelato che, alle 4:30 del mattino del 7 ottobre, un ufficiale dell’intelligence militare non svegliò Netanyahu, pur avendo ricevuto un rapporto allarmante. Il documento fu consegnato alla segreteria militare, ma non venne inoltrato al Primo Ministro, né furono attivate le comunità nei pressi del confine. Quando le prime chiamate di emergenza arrivarono da Be’eri, Nahal Oz e Kfar Aza, gli ordini non erano ancora stati dati. Questo è stato un cortocircuito istituzionale, come lo definisce David Rosenberg su “Foreign Policy”. Non esisteva una cabina di regia. Nessuno coordinava IDF, Shin Bet, Mossad, autorità locali. Netanyahu, in quel momento, era politicamente indebolito dalle proteste interne per la riforma giudiziaria e molti dei suoi alleati erano concentrati su temi religiosi e ideologici, non operativi. Persino dopo l’attacco, il sistema ha continuato a mostrare segni di disgregazione. La decisione di licenziare Ronen Bar nel marzo 2025, come riportato da “Axios” e “Al Jazeera”, è stata interpretata da molti come un tentativo politico di scaricare le responsabilità, anziché riformare realmente l’apparato di sicurezza. Migliaia di israeliani sono scesi in piazza per difendere Bar, percepito come uno dei pochi funzionari ad aver agito con trasparenza. Infine, la mancata istituzione di una commissione d’inchiesta indipendente, come sottolineato da “The Atlantic” e “NYT”, ha contribuito a un clima di sfiducia crescente. Le famiglie delle vittime chiedono verità. I cittadini vogliono riforme. Ma il governo, temendo implicazioni politiche dirette, continua a rimandare.
Nina Celli, 2 aprile 2025