Non tutti gli allarmi sono uguali. Alcuni sono chiari, operativi e consentono risposte rapide. Altri, invece, sono frammentari, ambigui, indistinguibili da attività normali o simulazioni. È in questa seconda categoria che rientrano gran parte delle informazioni raccolte dalle agenzie israeliane nei giorni e nelle ore precedenti al 7 ottobre 2023. Per questa ragione non era possibile identificare l’attacco come imminente o inevitabile, né si poteva giustificare un’azione preventiva su larga scala. Come riportato da fonti come “The Times of Israel” e “CNN”, lo Shin Bet aveva rilevato movimenti sospetti da parte di Hamas, inclusa l’attivazione di 45 SIM israeliane. Ma in un contesto in cui Hamas effettuava regolarmente esercitazioni e manovre simulando scontri con le forze israeliane, quei segnali non apparivano dissimili da decine di altri ricevuti nel corso degli anni. Come scritto su “Haaretz”, la valutazione degli analisti fu che si trattasse di “comportamenti anomali ma non decisivi”. Anche il cosiddetto piano “Jericho’s Wall”, spesso citato come prova di consapevolezza, era stato scoperto anni prima e non conteneva elementi temporali concreti. Secondo quanto riportato dal “New York Times”, non esisteva una versione operativa del piano associata al 7 ottobre, né vi era evidenza che Hamas stesse per attuarlo. La sua esistenza, quindi, non poteva essere considerata indicativa di un’azione imminente. L’intelligence militare israeliana aveva poi a che fare con centinaia di segnali ogni giorno, molti dei quali provenienti da fonti contraddittorie. Come evidenzia un’analisi di “Foreign Policy”, il sistema israeliano soffre di un eccesso di input e una mancanza di sintesi centralizzata. La pluralità di agenzie (IDF, Shin Bet, Mossad) e la divisione delle competenze generano sovrapposizioni, ma anche lacune: ognuno presume che qualcun altro agisca. Questa “burocrazia della sicurezza” rende difficile distinguere il segnale dal rumore. Per tale ragione, anche di fronte a dati come l’aumento delle comunicazioni tra cellule di Hamas, o i silenzi anomali su alcune frequenze, non si è attivata una risposta immediata. Perché la stessa situazione si era già verificata in passato e senza conseguenze. Come osservato da esperti militari in interviste a “The Guardian”, l’attacco del 7 ottobre ha avuto successo proprio perché ha saputo mimetizzarsi nel caos quotidiano delle informazioni. Anche il fattore psicologico ha avuto un ruolo. Dopo anni di guerra asimmetrica, droni e conflitti a bassa intensità, Hamas era percepita come contenibile. Le sue esercitazioni erano frequenti, anche con alianti e tecniche di penetrazione. Ogni volta, l’intelligence le osservava, registrava, classificava. Non è che Israele fosse cieca: era assuefatta al rischio. Agire su segnali ambigui, inoltre, comporta rischi enormi. Se il governo avesse deciso di mobilitare migliaia di soldati, evacuare i kibbutz o colpire Hamas preventivamente sulla base di “anomalie” poco chiare, avrebbe corso il rischio di una escalation politica e militare con costi incalcolabili. Se gli allarmi si fossero rivelati falsi, il governo sarebbe stato accusato di procurato panico, militarismo e manipolazione dell’opinione pubblica. Come osserva David Rosenberg su “Foreign Policy”, i segnali c’erano, ma non nella forma e nella chiarezza necessaria per giustificare un cambio di status operativo. Era come guardare una mappa incompleta, con punti di interesse ma senza percorsi evidenti. Nessuno poteva sapere che quel giorno, quell’esercitazione sarebbe diventata un massacro. La mancanza di reazione da parte di Israele non prova, quindi, la consapevolezza dell’attacco, ma l’ambiguità dei dati a disposizione. In uno scenario di rischio cronico e segnali confusi, la sicurezza perfetta è impossibile. L’errore è stato nella complessità del sistema, non in una decisione deliberata di ignorare la minaccia.
Nina Celli, 2 aprile 2025