Per comprendere come Hamas sia riuscita a portare a termine l’attacco del 7 ottobre 2023, bisogna fare un passo indietro. Non basta parlare di “fallimento dell’intelligence” o “errore operativo”: l’origine dell’evento è politica. Da almeno un decennio, il governo israeliano ha adottato una strategia deliberata di contenimento e tolleranza nei confronti di Hamas, ritenendolo il “male minore” rispetto all’Autorità Palestinese (ANP), considerata più pericolosa sul piano diplomatico. Secondo numerosi analisti, come Chuck Freilich a Aaron David Miller, Israele ha visto in Hamas un contrappeso utile all’ANP. Un’organizzazione armata, sì, ma gestibile, confinata a Gaza, priva di legittimità internazionale. Sostenere tacitamente Hamas significava dividere il fronte palestinese, impedire una riconciliazione interna e, quindi, bloccare ogni tentativo di negoziato serio sullo Stato palestinese. Questo approccio si è concretizzato in azioni molto precise: come riportato da “Foreign Policy”, Israele ha autorizzato per anni l’ingresso di centinaia di milioni di dollari dal Qatar verso Gaza, formalmente per aiuti umanitari. In realtà, quei fondi sono finiti anche nelle mani di Hamas, che li ha utilizzati per pagare stipendi, costruire infrastrutture militari e rafforzare la propria rete logistica. La stampa israeliana e internazionale ha parlato di “Qatargate”. Il caso è stato approfondito da “Axios”, “Haaretz”, “The Atlantic” e “Times of Israel”. L’ex capo dello Shin Bet, Ronen Bar, si è pubblicamente opposto a questa politica, chiedendo il blocco dei finanziamenti qatarioti e l’apertura di un’indagine sulle responsabilità di alcuni consiglieri di Netanyahu. Proprio quando Bar ha iniziato a collaborare con la magistratura, Netanyahu ha cercato di rimuoverlo, scatenando proteste in tutto il paese e l’intervento della Corte Suprema. Ma la strategia non si è limitata ai flussi finanziari. Come rivelato da “The Guardian” e confermato dalla “CNN”, il governo israeliano ha sistematicamente scelto di non colpire duramente le strutture di Hamas, nemmeno in occasione di escalation minori. L’obiettivo era mantenere un equilibrio instabile: permettere a Hamas di restare forte abbastanza da governare Gaza, ma non tanto da diventare una minaccia esistenziale. Una sorta di “gestione controllata del nemico”. Tuttavia, Hamas non è rimasta ferma. Ha saputo trasformarsi da movimento ideologico a forza paramilitare disciplinata, con una catena di comando, divisioni d’assalto, servizi di intelligence propri. Il piano “Jericho’s Wall”, scoperto anni prima dai servizi israeliani, ne era la dimostrazione. Ma fu liquidato come una fantasia, un esercizio interno senza valore operativo. Il 7 ottobre, Hamas ha sfruttato proprio quelle libertà concesse da Israele: fondi, addestramento, impunità relativa. Ha lanciato un attacco coordinato via terra, mare e aria, dimostrando una capacità logistica e militare che solo chi aveva avuto tempo e risorse poteva sviluppare. Oggi emergono tutte le contraddizioni di quella politica. Netanyahu si rifiuta di istituire una commissione statale, temendo un “linciaggio politico”. Ma l’opinione pubblica non è convinta. Le proteste si susseguono. Gli ex vertici della sicurezza parlano apertamente di “complicità strutturale”. Come si legge su “Foreign Affairs”, il più grande errore strategico di Israele è stato credere di poter manipolare Hamas per fini politici interni, ignorando la dinamica storica che ogni potere concesso a un gruppo armato prima o poi si ritorce contro chi lo tollera. L’attacco del 7 ottobre, quindi, non è nato dal nulla. È stato possibile anche a causa dell’atteggiamento di Israele, che ha alimentato e legittimato indirettamente Hamas, nella speranza di usarlo come leva geopolitica.
Nina Celli, 2 aprile 2025