Il 7 ottobre 2023, per la prima volta in decenni, Hamas è riuscita a oltrepassare i confini israeliani in decine di punti, attaccando comunità civili, basi militari e stazioni di polizia. Di fronte a una simile offensiva, molti si sono chiesti se Israele sapesse. Ma la realtà è più complessa. Non esistono prove che le autorità israeliane fossero in possesso di dati certi, chiari e utilizzabili per prevenire l’attacco. Anzi, tutto indica che il fallimento fu dovuto non a una consapevolezza ignorata, ma a una serie di segnali ambigui, interpretazioni errate e limiti strutturali dell’intelligence. Fonti come “The Times of Israel”, “The Guardian” e “CNN” rivelano che, nelle ore precedenti l’attacco, furono effettivamente rilevati segnali anomali, come l’attivazione di SIM israeliane e movimenti sospetti lungo il confine. Tuttavia, nessuno di questi segnali forniva elementi concreti e inequivocabili su un attacco imminente su larga scala. Il rapporto trasmesso alla segreteria militare del Primo Ministro alle 3:30 del mattino, ad esempio, fu valutato non sufficientemente urgente da svegliare Netanyahu, secondo quanto riportato dai suoi stessi collaboratori. Il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, ha dichiarato che “avremmo potuto evitare il massacro se avessimo agito diversamente”. Ma questa frase, per quanto forte, non implica che vi fossero dati certi. Al contrario, come osserva la testata “Haaretz”, il vero problema è stata l’assenza di fonti umane a Gaza (HUMINT). Da anni Israele si affidava quasi esclusivamente all’intelligence tecnologica — droni, intercettazioni, software di analisi predittiva — trascurando la raccolta diretta sul terreno. Hamas, consapevole di questo, ha adottato una disciplina operativa e una compartimentazione delle informazioni che ha reso ogni infiltrazione virtualmente impossibile. In questo contesto, anche la teoria di un “piano noto” come quello chiamato “Jericho’s Wall” perde forza. Il documento, pur reale, era stato archiviato come ipotesi strategica di Hamas, non come un piano imminente. Come conferma il “New York Times”, non esisteva alcuna indicazione che l’organizzazione avesse deciso di attuare quel piano proprio quel giorno. Non c’erano date, nomi, tempistiche. Solo simulazioni e indicazioni generiche. Un altro elemento chiave è l’esperienza pregressa. Hamas, per anni, aveva dato segnali di razionalità: gestiva servizi sociali, negoziava tregue, accettava fondi qatarioti. Il suo comportamento era visto come quello di un attore che voleva governare, non rischiare la distruzione totale. Le agenzie israeliane, così come molti analisti internazionali, non avevano motivi operativi per ritenere che Hamas stesse preparando un attacco suicida e devastante. Per Israele, Hamas rappresentava una minaccia cronica, non una bomba a orologeria pronta a esplodere. Anche la complessa struttura decisionale israeliana gioca un ruolo nella comprensione dell’accaduto. Come evidenziato da “Foreign Policy”, la catena di comando tra IDF, Shin Bet e governo non prevede un’unica autorità per l’attivazione dello stato d’emergenza. Le competenze sono frammentate, i protocolli non chiari, e i centri decisionali non sempre comunicano con efficienza. Qualsiasi risposta basata su allarmi incompleti avrebbe potuto provocare escalation inutili, errori militari, o persino accuse di militarismo da parte della comunità internazionale e della stampa interna. Lanciare un’allerta generale o colpire preventivamente Gaza senza prove certe avrebbe potuto scatenare critiche feroci e danni politici. In assenza di una certezza operativa, la prudenza è stata scambiata per negligenza.
Nina Celli, 2 aprile 2025