Morte clinica e morte cerebrale
Grazie allo sviluppo tecnologico in ambito medico, a metà dello scorso secolo si è imposto un ripensamento dei criteri di definizione del decesso. Il 5 agosto 1968 un report realizzato da un comitato di esperti della Harvard Medical School (A Definition of Irreversible ComaReport of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School to Examine the Definition of Brain Death, “jamanetwork.com”, 5 agosto 1968) proponeva una definizione della morte secondo nuovi criteri neurologici, che hanno spianato la strada alla trapiantologia. In precedenza, la morte era diagnosticata attraverso la valutazione di tre funzioni: circolatoria (assenza del battito cardiaco), neurologica (assenza di risposta agli stimoli), respiratoria (assenza di respirazione). Con la diffusione della ventilazione meccanica, grazie anche alla concomitante nascita delle prime unità di terapia intensiva intorno agli anni Cinquanta, fu possibile mantenere in funzione artificialmente respirazione e circolazione sanguigna in pazienti altrimenti destinati all’arresto cardiaco. Ma, una volta collegati alle macchine, alcuni pazienti non tornavano più a mostrare alcun tipo di attività cerebrale e nasceva così la necessità di distinguere chi era ancora funzionalmente in vita, e aveva la chance di recuperare qualche tipo di attività cerebrale e cognitiva, da chi era fondamentalmente morto, ma tenuto in funzione dalla ventilazione artificiale. “Il report di Harvard nacque dunque dalla necessità di individuare in maniera univoca e condivisa una definizione di morte che non si basasse unicamente sulla cessazione delle funzioni respiratorie e circolatorie, criteri resi ormai desueti dall’introduzione della ventilazione artificiale. E per farlo, propose di definire la morte come la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello, o morte encefalica. Perché senza un cervello […] non si può parlare di vita”. Da qui la possibilità di trapiantare gli organi sani di un defunto per sostituire quelli malati di un paziente ancora in vita. Il criterio di morte cerebrale ha permesso l’utilizzo di un maggior numero di organi da cadavere volti al recupero di centinaia di migliaia di vite.
Oggi, dunque, abbiamo due definizioni di morte: la cosiddetta “morte clinica”, o più precisamente cardiaca, che si accerta constatando che il sistema cardiocircolatorio ha smesso di funzionare, e quella “cerebrale”, ovvero la cessazione definitiva del funzionamento del cervello definita in base ai criteri di Harvard (Simone Valesini, Come è cambiata la definizione di morte?, “Wired”, 19 gennaio 2019). Il criterio di “morte cerebrale” non è funzionale all’espianto di organi. Difatti, il processo di accertamento di morte è indipendente dall’eventuale possibilità di donare. I medici si accertano della morte seguendo le procedure indicate nella legge 29 dicembre 1993, n. 578, e nel decreto ministeriale 11 aprile 2008 n. 136, basandosi su criteri neurologici o cardiaci. In seguito, una commissione di medici certifica la morte. Tale commissione, composta da un anestesista, un neurofisiopatologo e un medico legale, convocata dalla Direzione sanitaria della struttura ospedaliera, è indipendente da chi ha riscontrato lo stato di morte e diversa dall’équipe che eseguirà il prelievo e il trapianto. Solo in seguito a tale iter, e nel caso in cui la persona abbia espresso il proprio consenso (o i familiari aventi diritto non si siano opposti), si potrà procedere alla donazione di organi e tessuti (Per chi dona dopo la morte, Centro Nazionale Trapianti, 5 dicembre 2018).
Riguardo ai dubbi che possono sorgere in merito alla definizione di “prelievo a cuore battente”, il professor Franco Filipponi, direttore del Dipartimento di trapiantologia epatica, epatologia e infettivologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria pisana, chiarisce che si tratta di individui deceduti, in cui il cuore continua a battere e il sangue a circolare solo grazie all’ausilio delle macchine e dei farmaci: “L’apparente paradosso deriva dal fatto che nell’immaginario collettivo le funzioni vitali di un individuo sono ritenute essere legate alla funzione e alla vitalità del cuore. In realtà, è la presenza e il mantenimento delle funzioni e dell’attività dell’encefalo che permette a un individuo di essere vivo. Nel momento in cui il cervello smette totalmente e irreversibilmente di funzionare, viene a mancare la vita: il cuore potrà continuare a battere, ma l’individuo non potrà mai più tornare a vivere […] I criteri clinici e strumentali che la legge italiana ha fissato per la certificazione consentono di stabilire, in maniera incontrovertibile, la morte dell’individuo” (La paura di donare gli organi. Intervista al Prof. Franco Filipponi, “epatitec.info”, consultato il 17 luglio 2022).
Nina Celli, 30 maggio 2023
Autori citati:
Comitato Harvard Medical School
Filipponi Franco
- direttore del Dipartimento di trapiantologia epatica, epatologia e infettivologia, Azienda Ospedaliero-Universitaria pisana