L’impatto negativo della pubblicità sui bambini dipende dalla scarsa attenzione dei genitori

Un allarme da non trascurare

Le pubblicità fanno male ai bambini, senza se e senza ma, qualunque sia il loro oggetto. Sono invasive, ripetute, fuorvianti, inducono all’acquisto e alla pressione psicologica, non rispettano le tante normative previste in materia che, a dir la verità, sono spesso di difficile comprensione e applicazione. Addirittura l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha lanciato recentemente un appello soprattutto riguardante il marketing alimentare rivolto ai minori: “Le strategie del marketing, per arrivare ai più giovani, sono diventate subdole e troppo aggressive. Talmente tanto che l’Europa deve intervenire, per difendere e tutelare i soggetti più vulnerabili: le pressioni, infatti, arrivano ai bambini e agli adolescenti non solo attraverso i soliti media, ma anche sui vari social, i giochi su internet e i moderni cellulari” (Rosa Pullano, L'Oms in allarme: 'Basta con il marketing rivolto ai più piccoli', “it.blastingnews.com”, 8 novembre 2016).

Incapacità critica e inganno

Le pubblicità di oggi traggono in inganno i minori e le aziende sono sempre più impunite. Non si può infatti trattare un bambino come un adulto, pretendere che comprenda tutto con razionalità in un’età dove si sta formando e dove sta formando la propria capacità critica. Basta uno spot ben fatto, con luci, colori e protagonisti amici e il gioco è fatto, si cattura l’attenzione del minore e si esercita una pressione psicologica enorme su di lui e di conseguenza sui suoi genitori. Le psicologhe Claudia Selis e Maria Elena Campus sottolineano un doppio problema, che coinvolge pure i genitori. Secondo le due dottoresse infatti la pubblicità: “sfrutta la loro incapacità critica e non si rendono conto dell’intento persuasivo implicito nello spot, eseguendo con fiducia ciò che gli viene suggerito come un diritto. I genitori spesso si sentono schiavi di questa azione persuasiva dei piccoli, che li assillano con i capricci per raggiungere lo scopo” (Claudia Selis e Maria Elena Campus, L’influenza della pubblicità sui bambini, “articolo21.org”, 13 marzo 2015).

La pubblicità mina la fiducia dei bambini

La teoria secondo cui il bambino non ascolta e non capisce è sbagliatissima, infatti egli, sin dai primi anni, è molto curioso e attento a tutti gli stimoli. La blogger Daniela Giovannacci afferma: “Il bambino è sicuramente un ottimo spettatore ed osservatore di immagini. La pubblicità che lo vede protagonista, più delle altre, cerca di conquistare l’attenzione di colui che usufruisce dello spot attraverso un modo visivo di fare comunicazione, a scapito della conversazione e dell’ascolto” (I bambini nella pubblicità, “lagallinacubista.it”, 27 agosto 2017). Qui i genitori dovrebbero entrare in gioco con fermezza, opponendosi ad una pubblicità sempre più invasiva con una buona educazione e con una presenza costante. Non si può infrangere il mondo dei sogni dei bambini, né la fiducia che essi ripongono nei confronti dell’essere umano in generale. La maggiore esperta dei processi evolutivi in Italia, la dottoressa Anna Oliverio Ferraris, afferma: “Un bambino ha una visione ottimistica della pubblicità. Così come ottimistico e fiducioso è il suo rapporto con gli adulti. Prende alla lettera le informazioni. Non pensa che lo si voglia ingannare o strumentalizzare. Ed è giusto che sia così” (Luca Oliverio, I bambini e la pubblicità, influenza e... assilli. “comunitazione.it”, 11 luglio 2005).

Due mondi paralleli

Il parallelo col mondo degli adulti non ha ragion d’essere soprattutto perché i messaggi sono completamente diversi. Le aziende conoscono tutte le tecniche per attrarre a sé un minore, utilizzano ogni mezzo, anche subdolo per raggiungere un risultato. Il giornalista Fabrizio Patti sottolinea questa discrepanza: “La sfida è impari. Da una parte trovate degli adulti, con tutta la loro esperienza da pubblicitari, con soldi da spendere e una cassetta degli attrezzi a disposizione: colori sgargianti, jingle, animazioni, animali, astronavi, piccoli attori bellissimi da ammirare ed emulare. Dall’altra un bambino di tre o quattro anni. Che non sa leggere, non conosce il significato della parola persuasione e soprattutto non sa distinguere appieno tra un messaggio pubblicitario e uno editoriale” (Fabrizio Patti, Ogni pubblicità per i bambini è una manipolazione, “linkiesta.it”, 27 febbraio 2016). 

Urgono dunque normative ancora più specifiche per tutelare i nostri figli, per lasciarli liberi di scegliere. Non si può lasciare impunito un sistema che approfitta della debolezza di una parte per arricchirsi. Su questa lunghezza d’onda Pietro Greppi, Ethical advisor: “Che questo venga usato però dalle aziende e dalle agenzie che le assecondano (o viceversa?), che se ne appropriano per strumentalizzare commercialmente i sentimenti che un bambino ci provoca, questo non è accettabile, soprattutto oggi” (Pietro Greppi, Bambini e pubblicità, la scelta furba (e deplorevole) delle aziende, 10 ottobre 2017).

Il bisogno di appartenenza

Il bambino ha bisogno di appartenere a un gruppo, a una comunità, di essere parte integrante della società. Ha dei modelli e si indentifica, deve avere quello che hanno loro, vestirsi allo stesso modo, mangiare gli stessi cibi, è molto più facile omologarsi che essere la pecora nera del gruppo. La psicologa Teresa Montesarchio afferma: “I brand dei cosiddetti cibi spazzatura fanno leva proprio sul riconosciuto bisogno di appartenenza, che nel bambino si traduce nel desiderio di avere ciò che tutti gli altri hanno. L’altro elemento è la tendenza dei giovani ad emulare i modelli di comportamento attribuiti agli eroi dei cartoni animati o alle star del cinema, con l’aspettativa di un vantaggio: essere belli, forti e popolari come loro” (Teresa Montesarchio, Pubblicità e bambini: gli spot alterano profondamente la consapevolezza sui valori nutrizionali dei cibi e fidelizzano i piccoli al marchio grazie a escamotage e furberie, “ilfattoalimentare.it”, 6 giugno 2013), nasce da qui la strategia di usare i personaggi dei cartoni animati o i supereroi come testimonial pubblicitari.

I genitori devono assumersi le proprie responsabilità

La pubblicità è sempre esistita e non è certo da demonizzare in sé. Fa parte della quotidianità tanto degli adulti quanto dei bambini, è un’esigenza vitale per le aziende che devono portare all’attenzione dei possibili consumatori i propri prodotti. Ormai si pubblicizza praticamente tutto e i minori stanno sempre più ore davanti alla tv od on-line, con i rischi che aumentano vertiginosamente, così come i canali a disposizione, ricchi di cartoni, spot e messaggi di ogni tipo. Le psicologhe Claudia Selis e Maria Elena Campus sottolineano dunque il ruolo centrale dei genitori nel processo di avvicinamento alla pubblicità: “Da un lato i genitori dovranno lavorare su se stessi, individualmente e come coppia, per mantenere la loro posizione o valutare, eventualmente, le motivazioni di un cambiamento della regola, per mantenere e rafforzare la fiducia nel proprio ruolo e nelle proprie capacità genitoriali. Dall’altro dovranno lavorare insieme ai figli per convincerli del loro punto di vista, argomentando le loro motivazioni, supportando i figli ribadendo l’amore per loro e aiutandoli a gestire il confronto con il gruppo dei pari” (Claudia Selis e Maria Elena Campus L’influenza della pubblicità sui bambini, “articolo21.org”, 13 marzo 2015). Dunque, si richiede un lavoro su se stessi e un confronto con i propri figli, il tutto all’insegna di un’apertura mentale e di un’immedesimazione in un mondo peculiare e caratteristico come quello dei bambini.
D’altronde ad essere a rischio è proprio il rapporto tra genitore e bambino, come confermato anche dalla maggiore esperta dei processi evolutivi in Italia, la dottoressa Anna Oliverio Ferraris: “Se il messaggio che proviene dai media contrasta apertamente con la volontà dei genitori, questi dovranno fare un lavoro supplementare per convincere i figli a seguire la loro linea educativa; in caso contrario ad avere la meglio saranno i messaggi pubblicitari, nuovi educatori di molti bambini contemporanei”(Luca Oliverio, I bambini e la pubblicità, influenza e... assilli. “comunitazione.it”, 11 luglio 2005).

Ridurre la libertà dei bambini

Si tratta di un testa a testa in piena regola, pubblicità contro genitorialità, fondamentale per l’educazione presente e futura del minore. L’infanzia è una fase della vita da salvaguardare a tutti i costi, con tutele maggiori, con interventi drastici, con un’attenzione tipica, in ballo c’è un bambino con i suoi sogni, in piena fase di sviluppo, con un cervello facilmente malleabile.
Bisogna contrastare il bombardamento delle pubblicità e per farlo bisogna ridurre il campo d’azione dei più piccoli, come affermato da Maura Manca, Psicologo Clinico e Psicoterapeuta: “La rete internet è troppo a portata di mano e loro hanno tanta libertà nel navigare fin da piccoli senza un’adeguata selezione dei contenuti. La televisione pullula di baby talent, di cartoni animati certe volte non troppo idonei per l’infanzia e programmi per bambini non proprio adeguati” (Maura Manca, L’adultizzazione dei bambini… c’era una volta l’infanzia, “blogautore.espresso.repubblica”, 10 maggio 2016).
Troppo facile e frequente l’abbandono dei figli davanti ad un televisore o ad uno smartphone con tutte le conseguenze che ne seguono. I bambini, senza controllo, sono attratti da spot pieni di luci e colori, con personaggi familiari e affidabili, con messaggi che incentivano all’acquisto tramite una pressione psicologica non indifferente. Eppure basterebbe solo un po’ più di controllo, tornare a fare i genitori, assumersi le proprie responsabilità. Agostino Toscana, direttore creativo esecutivo di Saatchi & Saatchi, afferma: “Se si lasciano i figli allo Stato brado, non sarà una Commissione politica a migliorare le cose. Io sono padre e mi sento responsabile di quello che i figli vedono” (Fabrizio Patti, Ogni pubblicità per i bambini è una manipolazione, “linkiesta.it”, 27 febbraio 2016).

La pubblicità può essere sana

Basta rispettare le tante regole in materia per fornire ai più piccoli una pubblicità sana. Secondo Roberto Piumini, scrittore e poeta per bambini: “Una pubblicità che rispetti il piccolo dovrebbe solo farlo ’giocare a essere’, senza proporgli oggetti: solo spingendolo/aiutandolo a esplorare/consolidare il suo mondo. In pratica, un messaggio-dono per giocare a essere, magari soltanto firmato, alla fine, da un logo, come si firma una lettera amorosa” (Giuseppe Mazza, Bambini e pubblicità, “doppiozero.com”, 5 maggio 2015).
D’altronde la vita dei bambini deve essere improntata soprattutto sulla leggerezza e sul gioco. Non bisogna dunque ingannare i bambini con mezzi subdoli, ma bisogna porsi al loro livello, con messaggi semplici, aiutandoli in un percorso e perché no proponendogli giochi e cibi che possano farlo divertire. Semmai il problema può essere la frequenza degli spot pubblicitari che ormai riempiono il palinsesto di ogni tv. Già qualche anno fa, Roberto Fico, oggi presidente della Camera, aveva lanciato l’allarme: “Oggi la pubblicità è vietata soltanto nei programmi di durata inferiore ai trenta minuti ma nulla vieta alle emittenti di trasmettere messaggi pubblicitari all’inizio o al termine del programma, oppure di ricorrere, grazie ad una interpretazione scorretta delle norme vigenti, all’escamotage della pubblicità fra un episodio e l’altro di un programma per bambini” (Fabrizio Patti, Ogni pubblicità per i bambini è una manipolazione, “linkiesta.it”, 27 febbraio 2016).

Il contenuto della pubblicità

Secondo Laura Stigliani, SEO specialist ed esperta del settore, le caratteristiche che deve avere uno sport per bambini sono tante, ma la più importante deve essere questa: “Stimolare la loro attenzione attraverso scene caratterizzate da molta azione, effetti sonori e musica. Solo così il bambino si ricorderà della pubblicità” (I bambini e l'advertising: effetti del marketing sui mini-consumatori, “linkedin.com”, 7 maggio 2017). Il bambino si immedesima nei protagonisti della pubblicità, sente e risente lo stesso spot più volte al giorno ma questo perché sono i genitori a piazzarli davanti alla tv per troppe ore. Il sociologo Gianni Statera ha scritto: "Degli spot, i bambini sanno tutto, o quasi; e tutti sanno di alcune categorie di prodotti pubblicizzati. Dagli spot dichiarano di avere ‘scoperto’ l'ultimo gioco o il migliore snack (…). Ma soprattutto degli spot, e/o con il linguaggio degli spot, i bambini parlano fra loro" (Serena Iannello, Pubblicità e tutela dei minori: sulla pubblicità di alimenti, “altalex.com”, 28 febbraio 2010). Conoscere uno spot fa sentire il bambino rassicurato, fa parte di un sistema, è alla pari con i suoi amici, non per forza dovrà comprare e ottenere il prodotto pubblicizzato.

Claudio Alessandro Colombrita, 22 novembre 2018