Social media vietati agli under 16 in Australia
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
L’Australia è diventata il primo Paese al mondo a vietare l’uso dei social network ai minori di 16 anni. Dal 10 dicembre 2025, piattaforme come Instagram, TikTok, YouTube, Snapchat e Facebook sono tenute per legge a chiudere o bloccare tutti gli account di utenti under 16, impedendo loro di crearne di nuovi. La norma, approvata a fine 2024 con consenso bipartisan, è stata accompagnata da un anno di preparativi tecnici e normativi e da una campagna nazionale denominata Let Them Be Kids, volta a sensibilizzare sul tema. Il governo laburista di Anthony Albanese ha presentato il divieto come risposta necessaria a un crescente allarme sociale: numerosi studi indicano una correlazione tra uso intensivo dei social media in età precoce e problemi di salute mentale, dall’aumento di depressione e ansia a disturbi del sonno e dell’immagine corporea. Proprio alla luce di dati preoccupanti, come il forte incremento di atti di autolesionismo e suicidi tra gli adolescenti australiani negli ultimi anni, e di rivelazioni secondo cui i giganti del web saprebbero di aver reso le loro piattaforme intenzionalmente addictive per i più giovani, il Parlamento di Canberra ha legiferato con insolita rapidità.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Per i sostenitori, il ban è una misura necessaria a frenare un’epidemia di ansia e depressione tra i giovani causata dall’abuso di social network.
I critici denunciano una compressione delle libertà dei ragazzi: escluderli dai social significa negar loro spazi di espressione, informazione e partecipazione civile.
Il divieto consente ai ragazzi di vivere da bambini più a lungo, sottraendoli a pressioni e pericoli online, e aiuta i genitori a proteggere i figli.
Il bando è inefficace: molti under-16 aggireranno facilmente i controlli (con account falsi, VPN ecc.), a meno di implementare verifiche invasive per tutti gli utenti.
La legge obbliga Big Tech a prendersi cura degli utenti giovani, eliminando algoritmi “cattura-attenzione” e funzioni tossiche che finora hanno ignorato per profitto.
Oscurare i social mainstream ai minori potrebbe spingerli verso piattaforme non moderate o comportamenti in incognito, aumentando l’esposizione a pericoli.
Fissare un limite d’età è un primo passo educativo: pur non infallibile, crea un deterrente e un esperimento migliorabile strada facendo.
Alfabetizzazione digitale, supporto psicologico e regolamentare i social per tutti, invece di bandire solo i minori.
I Social network hanno un ruolo nella crisi della salute mentale giovanile
Uno dei principali argomenti a favore è la tutela della salute psicologica dei minori. Negli ultimi anni si è registrato un forte incremento di problemi come depressione, ansia, isolamento sociale e impulsi suicidari tra gli adolescenti. Una tendenza che molti studi collegano anche all’uso precoce e intensivo dei social media. Piattaforme come Instagram e TikTok, con i loro algoritmi incentrati su dopamina e dipendenza, vengono accusate di contribuire a un’“epidemia di malessere” nelle giovani generazioni. Il governo australiano ha giustificato il divieto under-16 proprio come intervento di salute pubblica per fronteggiare questa emergenza: “Proteggere la salute mentale dei bambini è un obiettivo legittimo e urgente”, ha dichiarato Luke Beck, docente di Diritto e sostenitore della legge. Di fronte a dati allarmanti – aumenti nei tassi di autolesionismo e suicidio tra i teen australiani – i favorevoli ritengono inadeguato affidarsi solo alla vigilanza familiare: “Non possiamo dire ai ragazzi di ’basta che stacchi’, perché le app sono progettate per tenerli incollati allo schermo”, nota uno psichiatra pro-ban. Il divieto di accesso sotto i 16 anni aiuterebbe dunque ragazzi e genitori a “spezzare l’incantesimo” dei social più invasivi, rimuovendo almeno temporaneamente dalla loro vita un fattore di rischio riconosciuto. I sostenitori citano evidenze come quelle riportate dal libro Anxious Generation dello psicologo Jonathan Haidt, che ha ispirato le mosse dei leader australiani: la diffusione massiccia di smartphone e social network dopo il 2012 è correlata a un netto peggioramento di indicatori di benessere tra gli under-18 (suicidi, ricoveri per disturbi alimentari ecc.). “I dati sui disturbi d’ansia, sul sonno, sull’immagine corporea ce lo ripetono da anni: certi ambienti digitali, usati troppo presto e senza tutele, possono fare male”, scrive lo psicoterapeuta Giuseppe Lavenia, favorevole a misure restrittive. Alla luce di ciò, aumentare l’età minima a 16 anni viene visto come un approccio precauzionale: si ritarda l’esposizione dei giovanissimi a un contesto potenzialmente nocivo, guadagnando tempo prezioso per la loro crescita in sicurezza. Gli under-16, più vulnerabili per neuro-sviluppo e maturità emotiva, “vanno protetti come lo erano da alcol e fumo in altre epoche”, sostengono alcuni commentatori. Il paragone con le soglie d’età in altri ambiti non è casuale: in molti Paesi l’accesso a determinate attività (bere alcolici, guidare, lavorare) è vietato ai minorenni perché ritenute troppo rischiose prima di una certa età. I pro-ban considerano l’uso indiscriminato dei social media un nuovo fattore di rischio comparabile, e dunque giustificano l’intervento normativo. Va notato che l’opinione pubblica appare in sintonia con queste preoccupazioni: al momento dell’approvazione della legge circa 3 australiani su 4 erano favorevoli a vietare i social ai minori di 16. Anche un sondaggio condotto nel Regno Unito su giovani 16-29 anni ha trovato che due terzi dei giovani stessi pensano che un divieto under-16 sia una buona idea. Ciò suggerisce una crescente consapevolezza dei rischi e un sostegno trasversale – genitori, ragazzi, educatori – verso misure più forti di tutela. In sintesi, per i fautori il ban è prima di tutto una risposta doverosa a un allarme sanitario e sociale: non risolve ogni problema, ma può ridurre un’esposizione ritenuta tossica in una fase delicata della vita, guadagnando margine per rafforzare successivamente la resilienza e l’educazione digitale dei futuri maggiorenni.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Il ban under-16 è una censura generazionale e una negazione dei diritti dei minori
La critica più profonda al bando under-16 è che costituisce una limitazione indebita delle libertà fondamentali dei giovani, creando una disparità di diritti basata sull’età. Secondo questa tesi, vietare ai minorenni l’accesso ai social network equivale a metterli a tacere e a escluderli dallo spazio pubblico digitale, con gravi implicazioni in termini di libera espressione, accesso all’informazione e partecipazione sociale. Numerose organizzazioni per i diritti civili e dell’infanzia – tra cui Amnesty International, Save the Children e Index on Censorship – hanno contestato la misura definendola “sproporzionata e lesiva dei diritti dei ragazzi”. In Australia, la Commissione Nazionale per i Diritti Umani aveva espresso “serie riserve” già durante l’iter legislativo: in un parere al Senato evidenziava che il divieto incide su vari diritti sanciti da trattati internazionali ratificati dall’Australia (come l’art.13 della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo sulla libertà di espressione e accesso alle informazioni, e l’art.15 sulla libertà di associazione e riunione). I critici sottolineano che le voci dei giovani sotto i 16 anni verrebbero azzerate sui principali canali online: niente più possibilità di condividere idee, creare contenuti, mobilitarsi su cause sociali o semplicemente interagire apertamente con coetanei e adulti. “Perché mai dovremmo essere banditi dall’esprimere le nostre opinioni? Siamo gli elettori di domani”, ha dichiarato Macy, 15 anni, una delle ricorrenti contro la legge. Emblematicamente, Macy paragona la situazione al romanzo 1984 di Orwell, percependo il provvedimento come un controllo autoritario. Il coetaneo Noah, anch’egli ricorrente, ha detto ai media: “Siamo delusi da un governo pigro che invece di impegnarsi a rendere i social più sicuri, li vieta in blocco e ci silenzia”. Questo risentimento è condiviso da molti adolescenti che vedono il ban come una punizione collettiva: “Mi sono sentito scioccato, irritato e ignorato dagli adulti”, racconta Jayden, 14 anni, spiegando che a scuola la notizia ha generato un senso di ingiustizia perché “i social erano un luogo dove comunicavo con amici, imparavo cose e trovavo intrattenimento… e ora ce li tolgono di colpo”. Gli oppositori affermano che, sebbene i minori di 16 anni non votino, hanno comunque diritto a essere “visti e ascoltati” nella società, e oggi gran parte del discorso pubblico (informazione, dibattito, attivismo) avviene online. Precludere loro l’accesso significa rischiare di isolarli civicamente: niente più possibilità di seguire testate giornalistiche sui social, di partecipare a gruppi di discussione studenteschi, di far sentire la propria opinione su temi che li riguardano (ambiente, scuola, diritti). Per i critici, si crea un digital divide generazionale in cui gli under-16 diventano cittadini di serie B nel mondo online. Index on Censorship avverte anche che misure del genere potrebbero essere strumentalizzate da governi autoritari per reprimere il dissenso giovanile: nel 2024 si sono contati centinaia di internet shutdown volti a zittire soprattutto i giovani manifestanti, e un ban per età potrebbe fornire un precedente formalmente giustificabile come “protezione” ma in realtà usato per controllare e censurare (specie dove i confini d’età potrebbero essere arbitrariamente spostati). L’Australian Digital Freedom Project definisce la legge “la più draconiana mai vista”, sostenendo provocatoriamente che persino la Cina ne sarebbe invidiosa. In effetti, uno scenario paventato è che paesi non democratici adottino normative simili per limitare l’accesso dei giovani a informazioni libere, giustificandole con motivi morali o di sicurezza. Anche tralasciando questi estremi, i detrattori fanno notare l’incoerenza interna: “A 16 anni possiamo iniziare a lavorare, a guidare con il foglio rosa, abbiamo responsabilità… ma secondo il governo non siamo ’abbastanza grandi’ per avere un account social?” – si chiede un adolescente australiano, trovando il limite poco logico. Molti suggeriscono che sarebbe stato più ragionevole un limite a 14 anni (in linea con i filtri esistenti in varie legislazioni), e vedono il 16 come una soglia arbitraria influenzata più dal panico morale che da evidenze scientifiche univoche. Infine, i critici evidenziano che la partecipazione online può avere aspetti positivi e persino salvavita per minoranze di giovani: ad esempio, ragazzi LGBTQ+ trovano spesso supporto e comunità sui social quando non li hanno offline; giovani con disabilità o isolati geograficamente usano internet per connettersi al mondo; minori interessati alla politica e attivismo hanno nei social uno strumento per organizzarsi (basti pensare ai movimenti ambientalisti tipo Fridays for Future, partiti da adolescenti via social). “Troppe volte i social non sono social – su questo concordo – ma spesso sono anche un rifugio e un gruppo di supporto che noi adulti non sappiamo offrire”, osserva un esperto critico, sottolineando che togliere quell’unico rifugio può fare danni. Save the Children, nel suo comunicato, ha raccolto la voce di un giovane membro che avverte: “Tagliare l’accesso ai social non limiterà solo le interazioni negative, ma toglierà anche quelle positive, facendo rimbalzare la negatività verso percorsi più dannosi”. In altre parole, se un ragazzo subisce bullismo a scuola, trovare comprensione online può aiutarlo; se lo si isola, anche digitalmente, potrebbe sprofondare senza aiuto. Questa prospettiva lega il tema dei diritti a quello degli effetti pratici collaterali.
Il ban under-16 è paternalistico e liberticida: tratta tutti i minorenni come incapaci di gestirsi, punendo anche i virtuosi per gli errori di alcuni. Così facendo, priva milioni di giovani di strumenti di espressione e relazione ormai essenziali e li priva di diritti che – sebbene modulati in base all’età – non dovrebbero essere negati in blocco. Piuttosto che “spegnere la voce ai ragazzi”, dicono i critici, bisognerebbe educarli e responsabilizzarli nel farne buon uso (come si fa insegnando educazione civica per il mondo reale). Anche diversi educatori e psicologi concordano che misure drastiche e proibizioniste raramente aiutano la crescita: rischiano anzi di generare conflitto intergenerazionale e sfiducia istituzionale. Non a caso, John Ruddick del DFP definisce il ban “Big Brother” e la 15enne Macy chiede retoricamente “perché dovremmo tacere solo perché abbiamo 15 anni? Non siamo persone anche noi?”. Per i detrattori, la legge australiana tradisce un approccio adultocentrico e proibizionista che non rispetta la dignità e l’autonomia in divenire dei minori.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Ban under-16 per lasciare che i bambini siano bambini
Da un punto di vista sociale e pedagogico, vietare i social sotto i 16 anni serve a restituire ai ragazzi uno spazio di crescita più sereno e a rafforzare il ruolo protettivo di genitori e comunità educante. Lo slogan adottato da una campagna a sostegno della legge – “Let Them Be Kids” (lasciate che siano bambini) – riassume questa visione. Secondo i promotori, negli ultimi anni i social network sono diventati ambienti troppo condizionanti per i preadolescenti: “rubano tempo alla famiglia, instillano problemi di autostima e li espongono a pressioni e bullismo”, come hanno raccontato molti genitori australiani quando il ban è entrato in vigore. Il primo ministro Albanese ha posto l’accento proprio su questo concetto quando ha definito il giorno del divieto “il giorno in cui i bambini tornano a fare i bambini e i genitori possono tirare un sospiro di sollievo”. L’idea è che un tredicenne o quattordicenne non debba trovarsi immerso in dinamiche virtuali spesso tossiche: challenge pericolose, modelli distorti di bellezza, ipersessualizzazione, contatti con estranei malevoli ecc., tutti fenomeni documentati e difficilmente controllabili su piattaforme aperte. Posticipare a 16 anni l’accesso vuol dire regalare ai giovanissimi qualche anno in più di vita offline, dedicata a scuola, sport, arte, amici “in carne e ossa” e alla famiglia, senza la costante distrazione/attrazione dello smartphone. “Vogliamo toglierli dagli schermi e riportarli sul campo da gioco o in classe di musica, a interagire nella vita reale”, ha spiegato la ministra Anika Wells parlando degli obiettivi della legge. Chi sostiene il provvedimento spesso ne fa anche una questione di responsabilizzazione genitoriale: finora tanti adulti si sono sentiti impotenti di fronte all’invasione digitale nelle vite dei figli; il ban fornisce uno strumento legale che li aiuta a dire “no” e impone un freno esterno laddove la “sola responsabilità individuale non è più sufficiente”. Se i social “fanno male” ai minori, dicono alcuni pedagogisti pro-ban, allora va ammesso che “quei meccanismi non sono sani nemmeno per noi adulti”, e sta agli adulti per primi dare il buon esempio con scelte coraggiose. In questo senso c’è chi suggerisce che la società intera dovrebbe mettere in discussione il proprio rapporto con i social (alcuni sostenitori estremi arrivano a dire: vietarli ai minori è coerente solo se ammettiamo che il problema è generale). Senza spingersi a tanto, il governo australiano ha comunque insistito sul concetto di “ridare potere ai genitori”: la norma è stata presentata come un modo per aiutare le famiglie a far rispettare regole che altrimenti ragazzi e big tech ignorerebbero. “I genitori mi dicevano: grazie per averci provato – non mollate!”, ha raccontato la ministra Wells, riferendo il sostegno diffuso raccolto parlando nelle scuole. L’effettivo gradimento tra gli adulti è molto alto: stando al sondaggio YouGov citato, il 77% degli australiani appoggiava il ban al momento del varo. Anche chi non è convinto della sua efficacia immediata tende comunque a vederlo come “un tentativo necessario” per arginare la situazione. Le storie di vita vissuta hanno giocato un ruolo chiave nel consolidare tale consenso: i sostenitori ricordano i casi tragici di adolescenti morti dopo episodi di cyberbullismo o adescamento online. Molti di questi genitori hanno sostenuto attivamente la campagna pro-ban (in delegazioni ricevute dallo stesso Albanese) per evitare che altri subiscano il loro destino. L’esempio spesso citato è quello di Kelly O’Brien, madre australiana che ha perso la figlia tredicenne e che ha scritto una lettera straziante al primo ministro chiedendo interventi forti: Albanese ha confidato di aver letto quella lettera e di averla trovata “devastante”, promettendo di agire di conseguenza. “Storie agghiaccianti come queste hanno fatto capire ai politici l’impatto reale di ciò che sta succedendo”, ha spiegato uno degli attivisti pro-ban (Michael “Wippa” Wipfli) che ha raccolto testimonianze di genitori in tutta la nazione.
Vietare, dunque, l’accesso social agli under-16 protegge la loro infanzia dalle nocività precoci del web e rinsalda il patto educativo con gli adulti. Non si tratta di “guerra ai ragazzi”, ma anzi di un gesto di cura: “non è una punizione, è il riconoscimento che certi ambienti non sono adatti finché non si è pronti”. Far sì che un quindicenne non possa stare sveglio alle 2 di notte su TikTok e che un genitore abbia la legge dalla sua parte nel vietarlo, è visto dai favorevoli come un risultato concreto. I bambini hanno diritto a un’infanzia libera dalle peggiori tossicità dei social, questo è il messaggio morale lanciato dalla riforma australiana, con l’auspicio che venga raccolto anche altrove.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Il ban under-16 è una misura inefficace e facile da aggirare
Molti detrattori sostengono che il ban under-16 australiano sia destinato a fallire nei suoi intenti pratici, poiché i ragazzi troveranno modi per eludere i controlli e continuare a usare i social di nascosto. In altre parole, la legge rischia di essere un “colabrodo” tecnologico, creando più una falsa illusione di sicurezza che un reale cambiamento. Questa tesi poggia su diverse osservazioni: anzitutto, i sistemi di verifica dell’età online non sono infallibili. Lo stesso governo australiano riconosce che i metodi disponibili – dalle stime via IA ai documenti caricati – hanno margini di errore e lacune, specie per la fascia adolescenziale (ad esempio, volti di 15enni vs 17enni difficili da distinguere). Durante i test pre-lancio, è emerso che i sistemi biometrici possono essere “fregati” con stratagemmi semplici: vari ragazzini australiani hanno raccontato di aver superato la scansione facciale “facendo certe smorfie” o usando foto ritagliate, e alcuni hanno persino condiviso tips su TikTok per ingannare Yoti e simili. Un genitore ha riferito che il figlio 13enne è riuscito a superare il face-check “nascondendo i denti e aggrottando il viso” per sembrare più grande. Inoltre, i minorenni più determinati possono bypassare del tutto la barriera: utilizzando VPN (che simulano la connessione da un altro Paese non soggetto al divieto) o piattaforme alternative non incluse nella lista nera. Già nei primi giorni dall’entrata in vigore, molti ragazzini australiani hanno iniziato a usare VPN per continuare ad accedere come se si trovassero all’estero. La commissaria eSafety ha avvertito che se un minorenne con VPN pubblica poi contenuti che lo tradiscono (es. foto in una scuola australiana), le piattaforme potrebbero accorgersene, ma appare un gioco a guardie e ladri. Un esperto ha commentato: “I ragazzini smanettoni ne sanno spesso più degli adulti su come aggirare blocchi e filtri”. Non solo: il ban australiano colpisce solo 10 piattaforme specifiche, lasciando scoperti altri canali. Ad esempio, sono esclusi i server di chat di videogiochi online (molto frequentati dai teen), i forum specializzati, i siti stranieri minori e perfino strumenti come le email – vie attraverso cui i minori potrebbero comunque comunicare o condividere media. Come notato da Lancini in un’intervista, “in Australia il limite colpisce i social, ma esclude esplicitamente i giochi online: in pratica i social diventano il nemico pubblico mentre altri ambienti digitali altrettanto pervasivi restano liberi”. Il rischio concreto è quindi che gli under-16 semplicemente si spostino altrove anziché smettere di usare internet. Un sondaggio citato da “Wired” rivelava che il 33% dei genitori australiani era pronto ad aiutare attivamente i figli a eludere le restrizioni: un dato sorprendente che indica come molte famiglie considerino la legge inefficace e siano disposte a neutralizzarla pur di evitare ai figli la frustrazione del distacco. Diversi commentatori sottolineano l’asimmetria tecnologica: per far rispettare rigidamente il ban, i social dovrebbero implementare controlli invasivi su tutti gli utenti (ad esempio verifiche ID obbligatorie o monitoraggio continuo di contenuti e interazioni per scovare minorenni). Ma la legge stessa, per tutelare la privacy, non impone alle piattaforme di richiedere documenti a tappeto né di garantire un tasso specifico di accuratezza. Quindi, di fatto, si accontenta di sforzi “ragionevoli” che possono lasciare ampie falle. Facebook e gli altri non controlleranno uno per uno tutti gli utenti: sfrutteranno dati e algoritmi per stimare chi potrebbe essere minorenne, con un margine di incertezza. Questo margine favorisce inevitabilmente i furbetti: basterà (in molti casi) per un 15enne dichiarare un compleanno falso e comportarsi online “da adulto” (es: interagire con contenuti maturi) per sfuggire ai filtri automatici. Viceversa, l’uso di metriche comportamentali rischia di generare errori clamorosi: “Wired” riferisce di utenti maggiorenni segnalati come “troppo giovani” perché magari attivi in orario scolastico o follower di pagine giovanili.
I critici, dunque, prevedono che il ban sarà inefficiente: colpirà molti che hanno diritto (diciassettenni cacciati a torto) e lascerà scappatoie a molti under-16, riducendo la credibilità dell’intero impianto. Uno scenario paradossale è emerso sui media: alcuni genitori australiani, per non far isolare i figli banditi da Instagram rispetto ai coetanei ancora presenti, hanno creato per i figli account “fittizi da adulti” intestati a loro stessi. Questo aneddoto mostra come la compliance sociale possa essere bassa: se la norma è percepita come irragionevole o inapplicabile, molti cercheranno l’inganno. Da qui il detto evidenziato su “Il Fatto Quotidiano”: “fatta la legge, trovato l’inganno” (riferito proprio al caso in questione). Un altro problema di efficacia riguarda le possibili migrazioni verso piattaforme peggiori: scacciare i minori dai social mainstream potrebbe semplicemente spingerli su servizi emergenti, meno noti e regolati, dove i rischi di incontrare predatori o contenuti estremi sono anche maggiori. Nel complesso, i detrattori dipingono il ban come un provvedimento “fumo negli occhi” che rischia di non centrare l’obiettivo prefissato. A sostegno citano anche sondaggi: sebbene il 70% degli australiani fosse favorevole al ban, il 58% crede che non funzionerà davvero. Persino molti di coloro che lo appoggiano lo fanno quindi con scetticismo riguardo all’efficacia, più per dare un segnale che per convinzione pragmatica. Verificare l’età online è un compito arduo – concordano gli esperti – e questa legge di fatto scarica sulle piattaforme un onere che probabilmente non riusciranno a sostenere al 100%. Una società come Reddit ha esplicitamente dichiarato che, per rispettare il ban, dovrebbe imporre verifiche intrusive a tutti gli utenti, adulti compresi, e ciò è inaccettabile e rischioso per la privacy. Mantenendo aperto l’accesso anonimo, come consentito dalla legge, resterà sempre uno spiraglio. In sostanza, il ban under-16 è inefficiente, aggirabile e forse inapplicabile in modo completo: una rete facilmente perforabile dall’astuzia adolescenziale e dalle contraddizioni tecniche, che finirà per punire principalmente gli utenti più onesti e obbedienti (che si adegueranno perdendo opportunità), mentre molti altri continueranno a fare ciò che facevano, ma in modo meno controllabile.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Il ban under-16 responsabilizza le piattaforme e difende gli utenti giovani
Un ulteriore argomento pro-ban sposta l’attenzione dai minori alle aziende tecnologiche, ritenute finora inadempienti nella tutela dei più giovani. Il divieto under-16 è visto come un modo per costringere i social network a cambiare condotta: se vogliono evitare di perdere utenti e incorrere in multe salate, dovranno implementare serie misure di verifica e protezione, investendo in soluzioni che finora hanno evitato per non intaccare i profitti. “I social hanno uno scopo, ma devono anche avere un dovere di cura verso i ragazzi online, ed è ciò che questa legge impone”, ha dichiarato la ministra Wells. In pratica, la norma assegna alle piattaforme una responsabilità legale diretta sul mantenere i minori fuori dai loro servizi: non possono più nascondersi dietro la scusa “vietato ai minori di 13 anni” nei Termini d’Uso (clausola aggirata su larga scala), ma devono attivamente scovare ed eliminare gli under-16, o ne pagheranno le conseguenze. Questo obbligo ha già provocato un cambio di passo: colossi come Meta e Snapchat hanno dovuto implementare tecnologie avanzate (IA di stima dell’età, partnership con servizi di verifica) e rimuovere centinaia di migliaia di account di ragazzi. In sostanza, il governo australiano – e chi ne sostiene l’azione – manda il segnale che “l’era del Far West digitale è finita”: le Big Tech vanno regolamentate e richiamate alla loro responsabilità sociale, specialmente verso gli utenti più vulnerabili: i minori. Questa filosofia è in linea con altre iniziative australiane degli ultimi anni (il News Media Bargaining Code per far pagare le news ai tech, le leggi contro i contenuti illegali online ecc.). Nel caso specifico del ban under-16, i fautori puntano il dito contro le pratiche predatorie delle piattaforme: algoritmi deliberatamente progettati per massimizzare il tempo di schermo, notifiche e feed infiniti che creano dipendenza (la cosiddetta economia dell’attenzione). La ministra Wells, in un discorso pubblico, ha citato un creatore di funzioni social definendo questi algoritmi “cocaina comportamentale” usata per tenere i ragazzi incollati allo schermo. Documenti interni emersi in una causa legale californiana – ricordati da Wells stessa – mostrerebbero che società come Meta e TikTok sanno bene che i loro prodotti possono essere pericolosi per i minori, ma hanno sistematicamente ignorato o bloccato le proposte di migliorarne la sicurezza per non diminuire l’engagement dei teen (e i ricavi pubblicitari associati). Ad esempio, dipendenti Meta suggerirono varie funzioni di mitigazione del rischio, ma i dirigenti le bocciarono temendo un calo del coinvolgimento dei ragazzi; dirigenti Snap hanno ammesso che utenti adolescenti “totalmente dipendenti da Snapchat non hanno spazio per nient’altro nella vita”. Perfino YouTube sapeva internamente che puntare a “più uso quotidiano non era compatibile col benessere digitale”, ma non vi ha rinunciato. Queste rivelazioni – sottolineano i sostenitori del ban – smascherano l’ipocrisia delle Big Tech e giustificano interventi drastici: “Le compagnie hanno guadagnato miliardi sulle famiglie australiane perché restiamo anche solo due secondi in più a guardare un video… Dal 10 dicembre iniziamo a riprenderci quel potere per i giovani australiani”, ha scandito Wells. Dunque, anziché aspettarsi che siano i ragazzini o i genitori a “vincere” contro sistemi progettati per essere irresistibili, lo Stato sposta la pressione su chi quei sistemi li gestisce: se i social non sanno rendersi sicuri per i minori, allora i minori non ci devono stare. Questa impostazione ribalta l’onere della protezione e, secondo i favorevoli, “spinge i colossi hi-tech a trovare soluzioni che finora non avevano incentivo a sviluppare”. Non a caso, la legge australiana non prescrive come fare: lascia che siano le aziende a escogitare i migliori metodi per rispettarla – in pratica, le sfida a investire in innovazione etica. La Commissaria Inman Grant ha pubblicamente dichiarato: “Con le linee guida di oggi, non c’è scusa per la non conformità”, segnalando che il governo si attende creatività e serietà dalle piattaforme nel mettere in atto controlli efficaci. Insomma, il ban funge anche da leva regolatoria: costringe le società digitali a implementare su larga scala tecnologie di age verification e nuove policy di moderazione che potrebbero stabilire best practice replicabili altrove. Alcuni osservatori notano che i big di internet temono l’effetto a cascata: se questo modello prende piede, perdono un segmento d’utenza e devono ristrutturare i loro servizi. Ed è proprio ciò che i sostenitori auspicano: “Era ora che i social avessero un dovere di protezione verso i ragazzini – finora hanno solo coltivato la loro dipendenza”. Diversi Paesi stanno discutendo normative analoghe, e l’Australia – definita da Ursula von der Leyen “avanguardia coraggiosa” – punta a fornire un progetto. In Europa già si parla esplicitamente di “obbligo di diligenza digitale” verso i minori, e il presidente di Protéger l’Enfance in Francia afferma: “Dobbiamo costringere le piattaforme a rendere i loro prodotti meno pericolosi, come imposto nel mondo fisico per i giocattoli o i farmaci”. Se non lo fanno spontaneamente, aggiunge, farli “spegnere” ai minori è l’unica alternativa. Vale anche l’argomento deterrente: i favorevoli ritengono che il ban mandi un segnale culturale forte alle Big Tech. Il primo ministro Albanese ha parlato di “giorno orgoglioso” e “messaggio al mondo: se l’abbiamo fatto noi, perché voi no?”. Questo monito non è rivolto solo ai governi esteri ma anche ai colossi digitali: se non miglioreranno le loro pratiche, sempre più società li terranno fuori dalla porta. Infine, i pro-ban fanno notare che la legge mette in pratica ciò che da anni veniva chiesto alle piattaforme con scarsi risultati: implementare verifiche dell’età serie. Già il GDPR in Europa impone il parental consent sotto una certa età, ma senza meccanismi efficaci è rimasto lettera morta. L’Australia ora obbliga a svilupparli davvero, e infatti Meta, Snap e altri stanno usando tool innovativi (come la biometria facciale Yoti) su milioni di utenti, una novità epocale. Questo approccio “chiama all’azione” i giganti tecnologici, che non potranno più limitarsi a dichiarazioni di principio sulla sicurezza minorile, ma dovranno dimostrare concretamente di saper gestire la loro presenza. Il ban under-16 responsabilizza finalmente le piattaforme, invertendo i rapporti di forza: non sono più i ragazzini a dover essere abbastanza maturi da resistere alle lusinghe dei social, ma i social a dover garantire un ambiente adeguato, e se non ci riescono, vengono esclusi dalla platea under-16. Ciò crea un “duty of care” che finora mancava e che può spingere verso un internet più sicuro per tutti.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Il ban può avere come effetto collaterale una fuga nel sommerso
Danni indiretti potrebbero derivare dal ban under-16, conseguenze non volute che potrebbero peggiorare la situazione invece di migliorarla. I critici temono che l’esclusione dei minori dai grandi social mainstream possa spingerli verso contesti digitali più pericolosi e meno controllati, aumentando paradossalmente i rischi. L’analisi di “Rai News” rileva che “una parte dei ragazzi potrebbe finire su piattaforme meno regolamentate, o su sistemi anonimi più difficili da monitorare” e che il divieto “rischia di incentivare l’uso di strumenti – VPN, false identità, account adulti – che riducono ulteriormente la capacità delle piattaforme di proteggere gli utenti”. In pratica, se oggi un quindicenne sta su Instagram (dove magari esistono policy di moderazione, profili segnalati e misure di sicurezza come il blocco degli sconosciuti nei DM per minori), domani potrebbe migrare su piattaforme alternative meno presidiate. Potrebbe rifugiarsi, ad esempio, su network cifrati, chat anonime di nicchia, forum underground o social emergenti non soggetti al ban perché “sfuggiti” all’elenco iniziale. In quegli ambienti il controllo parentale e perfino delle autorità è quasi nullo: un minorenne potrebbe esporsi a contenuti ben peggiori (ad esempio siti per adulti, deep web, gruppi radicalizzati) senza alcuna rete di sicurezza. “Protegge, ma non cura. Se non ricostruiamo relazioni reali, cambierà solo il luogo della fuga, non la fragilità che la genera” avverte lo psicologo Matteo Lancini, spiegando che se togli TikTok arriverà qualcos’altro, e finché non affronti il disagio che spinge i ragazzi lì, “stiamo discutendo di contenitori, non di contenuti”. Questo concetto sintetizza il timore: il ban potrebbe spostare il problema altrove anziché risolverlo, con la differenza che altrove sarà più difficile intervenire. Diverse associazioni hanno anche evidenziato che i social media tradizionali – pur con tutti i loro difetti – offrono alcuni meccanismi di segnalazione e linee guida comuni, nonché visibilità pubblica. Se i minori vengono banditi, molti cercheranno rifugio magari in app di messaggistica cifrata (es. Telegram con chat segrete) o in progetti decentralizzati e privi di moderazione. Ciò complicherebbe enormemente individuare situazioni di pericolo come grooming o cyberbullismo, perché avverrebbero in zone d’ombra digitali lontane dai riflettori delle grandi piattaforme.
L’ONG Digital Rights Watch ha manifestato il timore che la legge australiana “possa attrarre l’interesse di regimi autoritari” per replicarla, ma anche che all’interno della stessa Australia i minorenni non abbiano più canali sicuri per “organizzarsi e sviluppare consapevolezza politica”, privandosi di strumenti cruciali in età in cui non hanno voce nelle urne. Un altro effetto collaterale riguarda il benessere emotivo e sociale dei ragazzi. I social, per quanto problematici, sono anche un luogo di socialità, creatività e supporto tra pari. Le community online permettono ai giovani di trovare persone simili con cui condividere interessi o problemi, cose che a volte non trovano nel loro ambiente immediato. Basti pensare alle comunità LGBTQ+ giovanili, ai gruppi di aiuto su temi di salute mentale, alle fan community creative. Toglierle di colpo potrebbe lasciare molti ragazzi più soli. Save the Children evidenzia che per tanti minori “la tecnologia è un modo per connettersi, imparare e trovare la propria tribù”, e un loro Youth Advisor afferma che un ban efficace “strapperebbe le linee vitali di amicizie, comunità e risorse per la salute mentale su cui milioni di ragazzi contano”. Ancora più preoccupante, come accennato, è il potenziale aumento dello stigma e della segretezza: costretti nell’illegalità, i minorenni che comunque useranno i social lo faranno di nascosto, e se incorreranno in qualcosa di spiacevole potrebbero esitare a chiedere aiuto agli adulti per paura di confessare di aver infranto la legge. “Posso dire con sicurezza che se mettono un divieto, i ragazzi troveranno comunque il modo di accedere, ma con meno regole e avranno più vergogna o paura a chiedere aiuto se succede qualcosa”, testimonia Dante, 22 anni, consigliere di Save the Children, parlando delle sue esperienze e di ciò che ha sentito dai più giovani. Questo è un paradosso pericoloso: il ban potrebbe portare i minorenni a non segnalare situazioni di abuso perché ciò vorrebbe dire auto-denunciarsi come utenti illegali. Organizzazioni come Molly Rose Foundation nel Regno Unito hanno sollevato questo esatto punto: un’età proibitiva creerebbe un “cliff edge” (dirupo) al compimento dei 16 anni, ma nel frattempo i ragazzini si sposterebbero in ambienti non monitorati e al momento del 16º compleanno magari si ritroverebbero di colpo sommersi da contenuti nocivi senza aver sviluppato difese graduali. La CEO di Save the Children, Mat Tinkler, aggiunge: “Se i giovani finiscono in spazi meno sicuri e provano vergogna o timore nel cercare aiuto, abbiamo peggiorato la situazione”. Un altro effetto collaterale denunciato è l’esternalizzazione del problema: i genitori potrebbero illudersi che, bandendo i social, il lavoro sia finito e smettere di vigilare o dialogare con i figli su questi temi. “Molti genitori tirano un sospiro di sollievo per il divieto: finalmente qualcuno interviene, la colpa era tutta delle piattaforme. Ma è un sollievo pericoloso, perché il divieto diventa una scusa per non guardarci allo specchio” avverte Lancini, sottolineando che così gli adulti si auto-assolvono e non si interrogano più sul proprio ruolo (furono pur sempre i genitori a dare ai bambini il primo smartphone e a lasciarli connessi di notte senza controllo). In tal modo, il ban potrebbe indebolire gli sforzi educativi: invece di promuovere un uso consapevole e coinvolgere attivamente i genitori nella vita digitale dei figli, si delega tutto a un divieto legale, rischiando di creare “un falso senso di sicurezza”. Un esperto ha avvisato: “Il sospiro di sollievo dei genitori è comprensibile ma illusorio: se credono che basti la legge e non fanno più la loro parte, i ragazzi resteranno fragili e cercheranno un altro rifugio”.
Infine, va considerato anche l’impatto sul diritto all’informazione: in situazioni di emergenza o isolamento (si pensi ai lockdown COVID), i social furono una risorsa per i giovani per informarsi e mantenere contatti. Togliere questo mezzo può avere costi nascosti in futuro, qualora ricapitassero contesti di didattica a distanza o simili (gli under-16 si troverebbero tagliati fuori da piattaforme dove magari avvengono comunicazioni utili, costretti a soluzioni meno immediate). Nel complesso, il divieto under-16 non è privo di rischi collaterali: può creare sacche ancora più insidiose di attività online clandestina, isolare ulteriormente i giovani più vulnerabili e ridurre la trasparenza e la possibilità di intervento protettivo degli adulti.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Il ban under-16 è una misura pragmatica, seppur imperfetta
I sostenitori del divieto australiano riconoscono apertamente che non sarà una panacea, ma sostengono che fare qualcosa sia meglio che restare inerti di fronte ai problemi e che un’azione anche imperfetta possa innescare progressi successivi. Questa opinione enfatizza il carattere sperimentale e graduale del provvedimento: il ban under-16 viene concepito come un “grande esperimento sociale” (citato anche dal governo) dal quale imparare, correggere e ispirare nuove politiche. “Aumentare l’età minima per i social non è una cura, è un piano di trattamento”, ha spiegato la ministra Wells, aggiungendo che “non possiamo essere statici in ambienti dinamici, la tecnologia cambia continuamente e noi adegueremo la risposta”. Questo atteggiamento riflette l’idea che un intervento immediato per arginare gli eccessi attuali fosse necessario, pur sapendo che andrà aggiustato in corso d’opera. Il governo australiano ha infatti ammesso di “non aspettarsi perfezione né efficacia totale subito”, paragonando il ban a una rete a maglie sempre più fini: inizialmente alcuni pesci piccoli (minori) sfuggiranno, ma col tempo i buchi saranno ridotti e la rete filtrerà meglio. Questa sincerità ha in parte disarmato le critiche: i pro-ban sostengono che l’alternativa è peggiore: non fare nulla finché non si ha la soluzione perfetta. “Ci vuole coraggio per provare, pur sapendo che non sarà perfetto. Ma i genitori mi hanno detto: grazie per averci provato, non tiratevi indietro!”, ha raccontato Wells riguardo alle sue consultazioni pubbliche. L’argomento pragmatico è che un divieto imperfetto è comunque utile: il governo paragona la situazione a quella delle leggi sugli alcolici per minorenni che, pur essendo violate da alcuni, hanno comunque un effetto positivo di contenimento e di tipo culturale. “Qui la questione non è solo che qualcuno infrangerà la regola (succederà), ma l’effetto di modifica dei comportamenti che la regola induce”, come si racconta su “Rai News”. L’aspettativa dei favorevoli è che il ban produca un “effetto chilling” benefico: sapere che lo Stato vieta i social ai minori spingerà molti ragazzi (e i loro genitori) a ridurre volontariamente l’uso e in generale la società ad alzare l’asticella di ciò che considera accettabile per i giovanissimi. Ad esempio, “Wired” riferisce che già prima dell’entrata in vigore “molti giovani hanno iniziato a ridurre l’uso dei social” in previsione del ban. Inoltre, uno studio giapponese citato evidenzia che misure anche senza sanzioni (come ordinanze locali che limitano l’uso dello smartphone a 2 ore al giorno per tutti i residenti) hanno un importante valore di segnale: trasmettono il messaggio che “la società considera certe abitudini nocive”, incoraggiando così famiglie e scuole ad adottare comportamenti coerenti. Il ban australiano amplifica tale messaggio su scala mondiale. Paesi come la Danimarca, la Norvegia, la Malesia si sono detti ispirati dall’esempio e pronti a seguire. Un sondaggio Ipsos in 30 Paesi indica che il 65% delle persone supporta l’idea di vietare i social sotto i 14 anni, con maggioranze favorevoli in 29 Paesi su 30 (unica eccezione la Germania). Ciò suggerisce un terreno fertile per diffondere la regola e “normalizzarla” culturalmente. I sostenitori sottolineano poi che la legge australiana include meccanismi di revisione e aggiustamento: entro due anni verrà condotto un riesame indipendente dei suoi effetti e falle. Questo significa che il ban non è statico, ma sarà raffinato alla luce dei risultati, con approccio scientifico e ragionevole. Già emergono possibili miglioramenti: alcuni propongono, ad esempio, di prevedere eccezioni graduate (come fa la bozza danese: consenso parentale dai 13 in su), oppure di includere gradualmente altre piattaforme inizialmente escluse (ad esempio, i videogiochi online, come fatto notare da Lancini). L’importante per i favorevoli era rompere gli indugi e lanciare il modello. L’Australia ha parlato esplicitamente di “esperimento collettivo” che sarà studiato da un comitato indipendente e dagli altri Paesi. Questo riconoscimento di “progetto pilota” è un punto di forza retorico: implica trasparenza e disponibilità a correggere il tiro, cosa che rende il ban politicamente più accettabile. Infine, i pro-ban fanno leva sull’inefficacia del quadro precedente: fino ad ora la soglia di 13 anni fissata da normative in vigore era rimasta lettera morta, con quasi tutti i bambini che mentono sull’età per aprire account. Continuare con lo status quo significava lasciare milioni di under-13 (e under-16) esposti senza tutele reali. Il ban ha quantomeno “rotto il muro dell’inerzia”. “Non abbiamo ancora trovato un modo soddisfacente di far convivere minori, piattaforme e responsabilità pubblica, ma intanto la politica risponde a una preoccupazione diffusa” scrive “Rai News”, notando che il rischio semmai è credere ingenuamente che “basti una regola semplice per risolvere un problema complesso”. I sostenitori concordano: il ban non basta da solo, ma lo considerano un punto di partenza necessario. Un parlamentare a favore lo ha definito “un esperimento collettivo” di cui si conoscono i limiti, ma potenzialmente prezioso per comprendere come ridurre i rischi online. In un mondo ideale, dicono, i ragazzi sarebbero educati a un uso moderato fin da piccoli; nel mondo reale, queste buone intenzioni si sono scontrate con la realtà di piattaforme sempre più pervasive. Dunque, serve anche un “approccio regolatorio sperimentale” che provi strade nuove. L’Australia ha scelto una strada audace: se funzionerà anche parzialmente, altri potranno perfezionarla; se emergeranno effetti negativi, si potranno correggere. In ogni caso, l’inerzia non era più un’opzione.
Nina Celli, 20 dicembre 2025
Il ban under-16 è semplicismo normativo. Servono educazione e riforme, non un divieto totale
Molti critici affermano che il ban under-16 australiano rappresenta una risposta semplicistica e miope a un problema complesso. Sostengono che invece di affrontare le cause profonde e implementare soluzioni strutturali, il governo ha scelto la scorciatoia del divieto, che suona bene politicamente ma “colpisce il bersaglio sbagliato”. Matteo Lancini ha sintetizzato questa idea dicendo: “Il divieto è sanità pubblica, non è educazione… se ci fermiamo lì, sbagliamo bersaglio”, perché rischia di attaccare il sintomo (l’app) senza curare il malessere sottostante. Secondo questo punto di vista, dunque, i problemi legati all’uso minorile dei social (dipendenza, cyberbullismo, esposizione a contenuti nocivi) non si risolveranno con un semplice ban, ma richiedono politiche molto più articolate: educazione digitale nelle scuole e in famiglia, supporto psicologico, regolamentazione “evidence-based” delle piattaforme (ad esempio, obblighi sul design non manipolativo, moderazione più efficace dei contenuti tossici, limiti mirati alle funzionalità più pericolose). Save the Children Australia, pur riconoscendo le buone intenzioni del governo, ha sostenuto apertamente che occorre “inseguire risposte che affrontino le cause profonde del danno” invece di “escludere i giovani dagli spazi digitali”. Nel loro comunicato, chiedono di puntare l’attenzione sul chiamare le aziende a rendere le piattaforme intrinsecamente più sicure e di collaborare con esperti e ragazzi stessi per trovare soluzioni sostenibili. Ad esempio, un’alternativa proposta era il progetto annunciato di un Digital Duty of Care Bill, cioè una legge che impone standard di sicurezza e obblighi alle piattaforme senza vietarle ai minori. Molti esperti concordano: “Non serve buttare fuori i ragazzi, serve costringere i social a fare di meglio”. Un altro pilastro di una strategia seria dovrebbe essere l’educazione mediatica (media literacy). Invece di impedire ai giovani di usare i social fino a un certo punto e poi lasciarli entrare all’improvviso senza preparazione, sarebbe preferibile insegnare gradualmente un uso responsabile e consapevole, costruendo resilienza e senso critico. “Il punto non è togliere un’App dal telefono ma chiedersi perché milioni di adolescenti si rifugiano lì dentro”, scrive Lancini, evidenziando che i ragazzi scappano “da famiglie iperconnesse ma poco presenti, da adulti sempre occupati che non li ascoltano, da scuole dove si misura tutto tranne la solitudine”. In questa prospettiva, la soluzione non è semplicemente togliere loro i social – che sono un rifugio (seppur fragile) – ma ricostruire relazioni affettive ed educative solide nel mondo reale. Se non si fa questo, “cambierà solo il luogo della fuga… finché non guardiamo al dolore preesistente allo schermo, discutiamo di contenitori non di contenuti”. In sintesi, i critici sostengono che il ban è un “silver bullet” illusorio: un colpo solo pensato per risolvere tutto, ma destinato a fallire perché non affronta la complessità. Servirebbe invece un insieme di misure: campagne educative per genitori e figli, investimenti nel supporto psicologico scolastico, linee di aiuto per vittime di cyberbullismo, maggiore responsabilizzazione degli adulti (genitori) nel dare regole e soprattutto nell’essere presenti nella vita dei figli. Su quest’ultimo punto, Lancini e altri sottolineano che spesso i genitori hanno delegato troppo alla tecnologia e ora sperano che la legge aggiusti magicamente la situazione: “il divieto diventa una scusa per non guardarci allo specchio… ci illudiamo che siano stati gli algoritmi a rovinare i nostri figli, dimenticando che siamo stati noi a mettere un dispositivo in mano a un 10enne e lasciarlo solo online”. Molti educatori temono che la legge faccia passare il messaggio sbagliato: “problema risolto, colpa solo delle piattaforme, missione compiuta”, distogliendo attenzione dalla necessità di colmare il gap educativo. Dal punto di vista normativo, la critica è che la legge australiana è troppo radicale e poco mirata: avrebbe avuto più senso un approccio modulare, ad esempio limitando l’uso in certi orari (come fanno alcune giurisdizioni: in Utah i minori non possono usare social di notte senza consenso parentale) o vietando caratteristiche specifiche (come algoritmi di contenuti infiniti per minori, sistemi di messaggistica anonima ecc.), piuttosto che un ban assoluto. “Nessuno pensa che regole ideate per mettere fine alle false recensioni online funzioneranno” – analogamente, molti commentatori su “Wired” (sezione Diritti) suggeriscono che normative più mirate sarebbero state preferibili all’approccio con l’accetta. In UE, per esempio, il dibattito si concentra su modifiche al design (il Digital Services Act impone audit sugli algoritmi, l’UK Online Safety Act costringe le piattaforme a rimuovere contenuti dannosi per minori ecc.) invece che su divieti d’accesso totali. Insomma, l’accusa è che l’Australia ha scelto una scorciatoia politica per mostrare di agire (un divieto fa notizia e piace a molti elettori preoccupati), ma così ha evitato di intraprendere il percorso più lungo e faticoso di costruire consapevolezza e norme calibrate. Un indizio di ciò, dicono i detrattori, è la tempistica: la legge è stata “fatta passare in fretta” a fine 2024, presumibilmente per avere un risultato da presentare prima delle elezioni del 2025. Ciò lascia intendere un certo opportunismo politico. Un editorialista ha definito il ban “una soluzione rapida che tranquillizza, ma basata su strumenti fragili e conoscenza parziale del problema”.
La strada giusta è quella dell’approccio integrato ed evidence-based: educazione, prevenzione, coinvolgimento dei giovani stessi nella creazione di soluzioni e riforme delle piattaforme (maggiori controlli su contenuti pericolosi, limiti alle funzionalità predatorie). Il ban invece “spara nel mucchio” punendo tutti i minori indistintamente e sperando che i problemi spariscano, cosa alquanto improbabile. Come afferma Save the Children: “Il governo deve usare lo slancio del momento non per un ban superficiale, ma per pretendere che i giganti tech integrino la sicurezza sin dal design e per lavorare con esperti e giovani a rendere gli spazi online più sicuri, non off-limits”. Finché questo non avverrà, il ban rischia di essere non solo inefficace, ma persino controproducente rispetto all’obiettivo di lungo termine di far convivere i minori con il mondo digitale in modo sano e consapevole.
Nina Celli, 20 dicembre 2025