È bene che l’UE compri armi dagli Stati Uniti?
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Negli ultimi anni l’Unione Europea è al centro di un intenso dibattito sul proprio futuro strategico in materia di difesa. Da un lato, la guerra in Ucraina e l’acuirsi delle tensioni globali hanno spinto i governi europei ad aumentare drasticamente le spese militari, spesso rivolgendosi all’industria bellica statunitense per colmare rapidamente i vuoti. Dall’altro, l’emergere di posizioni politiche divergenti negli Stati Uniti – in particolare il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel 2025 – ha alimentato in Europa i timori sull’affidabilità dell’alleato americano. Ne è scaturita una doppia reazione: un’ondata di “riarmo” senza precedenti, con decine di miliardi di euro spesi ogni anno in armi di fabbricazione USA, e al contempo un rinnovato slancio verso la cosiddetta autonomia strategica europea, cioè la capacità dell’UE di provvedere alla propria sicurezza senza dipendere da Washington.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
I sistemi americani sono prontamente disponibili e tecnologicamente superiori, indispensabili di fronte a minacce urgenti.
Gli Stati Uniti possono negare utilizzi, supporto o pezzi di ricambio se la loro agenda diverge, mettendo a rischio la sovranità e l’operatività europea.
Molti equipaggiamenti avanzati non hanno equivalenti UE pronti: svilupparli richiederebbe anni e fondi enormi.
Ogni euro speso oltreoceano è un euro sottratto allo sviluppo di una industria bellica europea. Continuare a comprare dagli USA condanna l’UE a non emanciparsi.
Con gli acquisti, l’Europa incentiva Washington a restare impegnata nella difesa comune, evitando tentazioni isolazioniste in America.
Se gli USA limitassero le forniture, gli europei, privi di produzione autonoma sufficiente, si troverebbero impotenti nei conflitti.
L’ombrello USA ci protegge, l’Europa ora non può essere sola
Gli europei devono fare i conti con una realtà immediata: in caso di aggressione oggi, la difesa dell’UE dipende in larga misura dagli Stati Uniti. Acquistare armi dagli USA è quindi una scelta pragmatica per garantire sicurezza immediata. I sistemi d’arma americani – dai caccia stealth ai missili antiaerei – offrono capacità all’avanguardia che spesso nessuna industria europea è in grado di eguagliare nel breve termine. Ad esempio, il caccia F-35 Lightning II, sviluppato dalla statunitense Lockheed Martin, viene considerato insostituibile per le sue doti furtive e di fusione sensori; come nota Camille Grand (European Council on Foreign Relations), “esistono alternative europee, ma nessuna è all’altezza dell’F-35”. Molti Paesi UE concordano: almeno 38 F-35 sono stati consegnati dall’America all’Europa nel solo 2024 (destinati a Belgio, Danimarca, Italia, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia e UK). Questo aereo rappresenta la punta di diamante tecnologica e, di fatto, standardizza le flotte alleate attorno a un unico modello avanzato – un vantaggio operativo nel contesto NATO.
In effetti, l’interoperabilità con gli Stati Uniti e con gli altri partner NATO è un argomento centrale per i favorevoli. Utilizzare equipaggiamenti comuni significa poter condividere logistica, parti di ricambio, addestramento e intelligence, massimizzando l’efficacia collettiva sul campo. Durante la Guerra Fredda la dottrina NATO già enfatizzava la standardizzazione: oggi, adottare sistemi d’arma USA garantisce che le forze europee possano integrarsi senza soluzione di continuità in qualsiasi operazione congiunta. Ad esempio, avere in tutta Europa batterie missilistiche Patriot compatibili (invece di una frammentazione di modelli nazionali) consente una difesa aerea integrata sotto un unico network di comando. Non a caso, l’ex premier polacco Donald Tusk – oggi presidente di turno del Consiglio UE – ha esortato gli europei a pensare a come contribuire da soli alla propria sicurezza “senza chiedere cosa può fare l’America”, ma nel frattempo Polonia e alleati baltici hanno acquistato di preferenza dagli USA proprio per agganciarsi al sistema NATO già rodato. In prospettiva, sottolineano i PRO, la difesa del continente resta un lavoro di squadra: rafforzare il pilastro europeo sì, ma all’interno dell’alleanza transatlantica, senza crearvi falle. Nel nuovo contesto geopolitico, caratterizzato dall’aggressività russa, “Europa e Stati Uniti devono restare uniti”: su questa linea il Regno Unito (tradizionale ponte NATO) insiste molto, al punto che il premier britannico Keir Starmer ha definito gli USA “il nostro primo partner in difesa”. Dunque, acquistare armamenti americani viene visto come un segnale tangibile di coesione occidentale.
C’è poi un fattore di urgenza e disponibilità. La guerra in Ucraina ha rivelato che gli arsenali europei erano impreparati: scorte di munizioni esaurite in settimane, carenze in settori cruciali (droni, artiglieria a lunga gittata, difese contraeree). Di fronte a questa realtà, i governi UE hanno dovuto agire rapidamente attingendo a chi poteva fornire materiale bellico subito: e quel qualcuno erano gli Stati Uniti. Washington dispone di scorte e capacità produttive enormi, accumulate in anni di spese militari ben superiori a quelle europee. Persino ordinare ad altri Paesi terzi (come Corea del Sud o Israele) non ha pari efficacia: di fatto, come raccontano i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), “la stragrande maggioranza dei rifornimenti straordinari giunti in Europa dal 2020 a oggi sono statunitensi”. Lo conferma anche un’analisi del “Guardian”: nel quinquennio 2020-2024 meno del 10% dei missili importati dall’Europa proveniva da altri Paesi UE, mentre oltre il 90% veniva da fornitori extraeuropei – in primis gli USA. In sostanza, quando c’è bisogno di armi moderne in tempi stretti, l’Europa si rivolge all’esterno perché le sue fabbriche non bastano. I sostenitori osservano che ciò è inevitabile: costruire nuove capacità industriali richiede anni, mentre le minacce sono immediate. La stessa Commissione europea ha ammesso, nel suo Libro Bianco sulla Difesa 2025, che l’industria UE “attualmente non è in grado di produrre i sistemi e le attrezzature necessari nelle quantità e velocità richieste”. Così, per citare l’allora ministro portoghese Nuno Melo, “non possiamo ignorare la geopolitica attuale”: se gli F-35 americani offrono subito un ombrello sicuro, nell’incertezza di Trump, Lisbona valuterà comunque alternative ma deve pur sempre garantirsi un caccia di pari livello. In breve, i favorevoli sostengono che la priorità è proteggere oggi i cittadini europei e ciò giustifica affidarsi all’alleato con i mezzi migliori a disposizione nell’immediato.
Sul piano politico-diplomatico, comprare armi dagli USA viene interpretato come un investimento nelle relazioni transatlantiche, con ritorni strategici per l’Europa. In un periodo in cui l’amministrazione Trump alza il tono sui contributi europei alla NATO e minaccia guerre commerciali, l’UE ha interesse a mostrare buona volontà. Non a caso, nell’accordo Trump-von der Leyen del 2025 l’Europa ha accettato di acquistare centinaia di miliardi in forniture USA (energia e armamenti) in cambio della riduzione dei dazi punitivi americani. Questa concessione è stata vista dai favorevoli come un male minore per evitare danni economici peggiori (una guerra dei dazi) e mantenere uno spirito cooperativo con Washington. Più in generale, la posta in gioco è la permanenza degli Stati Uniti come garante ultimo della difesa europea. Alcuni analisti riconoscono che la robusta interdipendenza nel settore armi potrebbe trattenere Trump o altri leader isolazionisti dal rompere con la NATO: se l’Europa diventa un “cliente indispensabile” dell’industria bellica USA, allora anche per Washington sarà conveniente onorare l’alleanza. In pratica, la dipendenza reciproca garantisce continuità. D’altronde, già oggi l’apparato militare congiunto NATO è talmente integrato che spezzarlo danneggerebbe tutti. I favorevoli citano il concetto di “mutua catena del valore”: per esempio, l’F-35 stesso è un programma internazionale dove partecipano industrie italiane, britanniche, olandesi e norvegesi; smettere di comprare quel caccia colpirebbe anche queste economie alleate. Inoltre, le aziende americane stanno reagendo alle richieste europee di “buy European” creando filiali e partnership sul suolo UE, così da offrire prodotti “localizzati” che soddisfino i requisiti (al Paris Air Show 2025 i big USA hanno parlato di coproduzioni, acquisizioni di società europee, creazione di sussidiarie in Europa). Ad esempio, la Raytheon collabora con la norvegese Kongsberg per il sistema NASAMS e con la MBDA europea per produzioni legate al Patriot, mentre Honeywell ha acquisito un’azienda italiana (Civitanavi) come testa di ponte industriale in UE. Queste mosse mostrano che comprare hardware americano non significa necessariamente ignorare il tessuto economico europeo: se ben negoziato, ogni affare può prevedere offset (compensazioni industriali) e trasferimenti tecnologici che mitigano l’uscita di capitali. In sintesi, l’UE è bene che sia pragmatica: l’ombrello USA è ancora essenziale per la sua sicurezza, va usato e alimentato oggi, mentre parallelamente si costruisce la capacità europea di domani. Rinunciare alle armi americane, secondo i favorevoli, equivarrebbe a scoprirsi il fianco in un momento storico troppo rischioso.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025
La dipendenza totale dagli USA è un boomerang per la sovranità europea
I contrari all’acquisto di armi statunitensi da parte dell’UE puntano il dito sulla dipendenza strategica che ne deriva, considerandola insostenibile e pericolosa. Secondo questa tesi, finché gli eserciti europei si basano su sistemi d’arma forniti (e in buona parte controllati) dagli Stati Uniti, l’Europa non potrà mai agire davvero in autonomia né difendere i propri interessi, se divergenti da quelli di Washington. Si tratta di una questione di sovranità nazionale e collettiva: le nazioni dovrebbero avere pieno controllo sul proprio strumento militare, mentre l’attuale situazione lega l’operatività delle forze europee alla volontà e ai vincoli imposti da un Paese terzo, sia pure alleato. Un esempio concreto spesso citato è il caso dei missili a lungo raggio Storm Shadow/SCALP forniti a Kyiv: sebbene fossero franco-britannici, contenevano componenti americane e ciò ha costretto Francia e UK a chiedere preventivamente il permesso di Washington per ogni impiego sul territorio russo. Questo evento, riportato dal giornalista David Carretta, ha reso palese come anche armi “europee” possano essere ostaggio di veti USA a causa di pezzi chiave importati. Ancora più rilevante è la situazione degli F-35: questi caccia sono letteralmente pilotati da un software proprietario americano e collegati via rete ai server Lockheed Martin, tanto che gli addetti ai lavori sottolineano come “gli americani tengono le chiavi di accensione” dei velivoli. Vincenzo Comito, esperto finanziario, ha dichiarato che “non compriamo il diritto di farli funzionare”: se gli USA volessero, potrebbero disabilitare a distanza alcune funzionalità o negare aggiornamenti fondamentali ai sistemi d’arma forniti. Persino un Paese fedelissimo agli USA come la Danimarca ha manifestato inquietudine: da utilizzatrice di F-35, Copenaghen ha realizzato che se un giorno difendesse la Groenlandia da mire statunitensi (un’ipotesi provocatoria ventilata da Trump), quegli aerei potrebbero esserle “bloccati a terra” dagli stessi americani. Questo scenario limite evidenzia però una verità: chi ti fornisce la tecnologia, ne mantiene spesso le leve. Elon Musk ha dimostrato qualcosa di analogo con il suo sistema satellitare Starlink, usato dagli ucraini ma gestito da una compagnia USA, arrivando a spegnerne alcune funzionalità perché in disaccordo con l’impiego bellico che Kiev voleva farne. Musk è un privato cittadino, certo, ma il principio è il medesimo: l’Europa, affidandosi a mezzi non propri, cede controllo e si espone a ricatti.
I fautori della linea contro avvertono che questa dipendenza potrebbe un giorno ritorcersi come un boomerang: se emergesse un conflitto in cui l’UE avesse interessi divergenti dagli USA, la sua capacità militare sarebbe paralizzata. Per esempio, se ci fosse una crisi nel vicinato meridionale (Mediterraneo) o in Africa in cui l’Europa volesse intervenire ma gli Stati Uniti no, o addirittura osteggiassero l’intervento. Con mezzi interamente made in USA, Washington potrebbe fare pressione minacciando di sospendere manutenzioni, rifornimenti di pezzi di ricambio o flussi di dati indispensabili. Ciò è già successo nel 2013, quando gli USA rimossero dal sud Italia i droni Predator utilizzati per monitorare il Mediterraneo, di fatto togliendo agli europei un asset per loro cruciale, perché serviva altrove. Oppure, in anni più recenti, gli USA hanno vietato all’Arabia Saudita e ad altri utilizzatori di impiegare certi aerei o bombe in modi contrari alla loro politica (pur vendendole). Niente impedirebbe, un domani, a un presidente americano contrario a un’azione europea autonoma di usare le armi come leva negoziale. L’ex ministro francese Le Drian parlò a riguardo di “diritto d’uso sovrano”: chi possiede un’arma deve poterla usare quando serve, ma con quelle americane il diritto d’uso rimane condizionato.
La dipendenza condiziona anche la politica estera europea nel suo complesso. I detrattori notano che già oggi l’UE fatica a prendere posizioni autonome per paura di contrariare Washington. Finché l’ombrello militare USA sarà indispensabile, l’Europa dovrà in larga misura allinearsi alle scelte strategiche americane, che si tratti di sanzioni contro la Cina o di atteggiamenti verso l’Iran. L’editorialista Riccardo Renzi ha analizzato la nuova Strategia di Sicurezza USA e l’ha definita “un’alleanza costosa e strategicamente sbagliata” per l’Europa: in pratica, Washington chiede agli europei di comprare armi americane e seguire la sua linea di politica estera, “senza però impegnarsi in un vero partenariato”. Questo riflette una crescente sfiducia USA verso gli alleati e un tentativo di minimizzare rischi per sé scaricandoli sull’Europa. In quest’ottica, la dipendenza militare viene vista come un cappio al collo: più l’Europa segue gli USA, più perde peso negoziale. L’asimmetria di potere cresce. Juan Mejino, ricercatore Bruegel, ha spiegato che la dipendenza europea dall’hardware americano conferisce agli Stati Uniti “molta più leva negoziale quando trattano su altri fronti”, come il commercio. Infatti, nel 2025 Trump ha imposto un nuovo accordo commerciale in cui l’UE ha subito tariffe e ha dovuto accettare di comprare un enorme quantitativo di armamenti USA come contropartita. Per i critici, è uno scambio impari e umiliante: l’Europa appare come un “vassallo” che paga tributi in acquisti militari per ingraziarsi l’impero americano. Non a caso, figure come l’alto rappresentante UE Josep Borrell hanno ammonito a “non diventare vassalli” e a coltivare l’autonomia strategica.
Il peggior rischio è che la dipendenza riduca la prontezza europea ad agire per conto proprio, perché abituata ad aspettare indicazioni dagli USA. Diversi osservatori temono il formarsi di una sorta di “sindrome da subappalto”: l’Europa spende e compra, ma poi lascia agli Stati Uniti la guida effettiva delle operazioni. L’architettura di comando attuale della NATO riflette questa realtà: in caso di grave conflitto sul suolo europeo, sarebbe quasi certamente un generale americano a comandare le forze alleate. L’ex ministro tedesco Thomas de Maizière notò polemicamente che la NATO in Europa era concepita per avere un generale USA in testa anche a truppe composte al 90% da europei. Con la dipendenza tecnologica, questo non cambierà: chi ha le chiavi dei sistemi e la superiorità informativa guiderà le operazioni. I contrari vedono qui un paradosso: l’Europa spende di più in difesa che in passato, ma continua a non poter pensare con la propria testa. Anzi, oggi l’UE si trova a investire risorse comuni (come il fondo EDIRPA) in progetti che potrebbero includere quote di forniture extra-UE (sebbene limitate al 30-35% su pressione del Parlamento). Questo significa che la stessa UE sta destinando denaro a potenziare ulteriormente la propria dipendenza. Una scelta che si potrebbe giudicare autolesionista.
Dunque, comprare armi USA perpetua una condizione di subalternità strategica, incompatibile con l’idea di un’Europa potenza sovrana. I Paesi UE rimangono vincolati al volere di Washington nell’impiego delle loro stesse forze armate. Politicamente, ciò li costringe a seguire l’America per timore che altrimenti “chiuda il rubinetto” (come quasi avvenuto con l’Ucraina). E militarmente, li priva della possibilità di condurre operazioni autonome senza chiedere placet oltreoceano. Acquistando decine di miliardi di armi dagli USA continuano a far comandare Washington. L’unico modo per spezzare questo circolo vizioso è smettere di alimentare la dipendenza e iniziare a investire seriamente in un complesso militare-industriale europeo, anche a costo di qualche inefficienza iniziale o gap temporaneo. In prospettiva, la sicurezza derivante dall’essere padroni del proprio destino è superiore a quella apparente garantita dall’ombrello altrui.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025
Armi migliori e interoperabilità, per questo l’UE deve continuare ad acquistare armi dagli USA
L’Europa non può permettersi strumenti di difesa secondari o “di serie B”: deve dotarsi del meglio disponibile e attualmente il meglio proviene dall’industria militare statunitense. La superiorità tecnologica di molti sistemi americani è riconosciuta anche dagli esperti più attenti all’autonomia europea. Il generale Camille Grand, già vicesegretario NATO, osserva che nel campo dei caccia di quinta generazione “nessun velivolo europeo compete con l’F-35”. Questo aereo da combattimento, con le sue capacità stealth e di fusione dei dati, fornisce un salto di qualità che né l’Eurofighter Typhoon né il Rafale (per quanto ottimi caccia di quarta generazione) possono offrire. Non sorprende quindi che ben sette Paesi UE abbiano già comprato l’F-35, per un totale di circa 200 esemplari attesi in Europa entro pochi anni. Un trend simile si osserva in altri settori: per la difesa aerea a medio raggio, molti Stati membri (Germania, Polonia, Svezia, Paesi Bassi ecc.) hanno adottato il sistema americano Patriot, preferendolo a soluzioni europee come il SAMP/T italo-francese, spesso per motivi di performance e maturità del prodotto. Disporre di armi più performanti significa aumentare la capacità deterrente complessiva dell’Europa: missili più precisi, aerei più invisibili, radar più potenti rendono il continente più sicuro contro aggressori tecnologicamente avanzati. I fautori ricordano che la deterrenza è tanto più efficace quanto più credibile è il potenziale difensivo. E la credibilità, oggi, passa dall’avere armamenti all’avanguardia paragonabili a quelli di Russia o Cina. Dato che la Cina investe oltre 250 miliardi l’anno in difesa e la Russia ha sviluppato proprie armi ipersoniche, gli europei preferiscono colmare il divario unendosi al treno tecnologico statunitense, piuttosto che rimanere indietro aspettando progetti nazionali futuri.
Un secondo aspetto legato all’acquisto di armamenti USA è la maggiore interoperabilità e standardizzazione delle forze armate europee. La pletora di sistemi differenti in uso nei vari eserciti UE costituisce un problema serio: al 2025 si contavano 12 modelli di carro armato diversi in Europa, molte linee di munizioni non compatibili e generali difficoltà a operare insieme sul campo. L’impiego diffuso di equipaggiamenti americani, lungi dall’essere un atto di sudditanza, può essere letto come un fattore di integrazione militare. Se più Paesi condividono lo stesso aereo (come l’F-16 prima, ora l’F-35), lo stesso carro armato (come l’Abrams) o la stessa artiglieria, è molto più semplice combinare le forze in operazioni multinazionali: piloti di nazioni diverse possono scambiarsi gli aerei, le parti di ricambio sono comunemente stoccate, la logistica è semplificata. Nel contesto NATO, questo porta immediati benefici. Ad esempio, quando nel 2022 la Polonia ha dovuto rimpiazzare i vecchi carri sovietici ceduti all’Ucraina, ha scelto di acquistare 250 carri M1A2 Abrams dagli USA e altre centinaia di K2 sudcoreani. Oggi Varsavia possiede quindi mezzi identici a quelli in dotazione all’esercito americano; se scoppiasse una crisi sul fianco est, gli Stati Uniti potrebbero rifornire munizioni e pezzi per gli Abrams polacchi senza problemi, e viceversa gli equipaggi polacchi potrebbero integrarsi in formazioni corazzate NATO miste. Una maggiore standardizzazione attorno a piattaforme chiave (F-35, Patriot, Abrams, HIMARS ecc.) di provenienza USA può fungere da collante militare per un’Europa che politicamente non è ancora unita. In altri termini: laddove non arriva l’unificazione politica, può arrivare quella tecnologica. Questa logica è stata esplicitamente promossa dagli Stati Uniti nei decenni scorsi (il cosiddetto “interoperability through FMS”, ossia vendere armi per rendere interoperabili gli alleati). L’UE ha ancora bisogno di questo collante, almeno finché non svilupperà una politica di difesa comune robusta.
Una riflessione ulteriore è di tipo economico-industriale ma con risvolti operativi: i grandi programmi d’arma americani spesso includono la partecipazione dei Paesi acquirenti come partner. L’F-35 ne è l’esempio lampante: Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Danimarca e Belgio vi partecipano come partner di livello diverso, con industrie locali che producono parti dell’aereo (Leonardo in Italia assembla ali e fusoliere, ad esempio). Ciò significa che acquisire quell’aereo non comporta solo spedire denaro negli USA, ma anche ricevere commesse industriali e know-how. Molti sostenitori enfatizzano che la cooperazione con l’industria statunitense può fungere da volano tecnologico per l’Europa. Ad esempio, lavorare su componenti dell’F-35 ha permesso a ingegneri italiani e britannici di acquisire competenze utili per sviluppare in futuro caccia europei di sesta generazione (come il progetto Tempest/FCAS). In quest’ottica, “comprare americano” oggi potrebbe paradossalmente aiutare a “costruire europeo” domani, tramite trasferimento di tecnologia e formazione di una base di fornitori competitivi. Inoltre, quando un prodotto USA viene adottato diffusamente in Europa, non di rado le ditte americane investono in infrastrutture produttive locali. Il presidente di Raytheon International, Phil Jasper, ha dichiarato che il mercato europeo è in forte crescita e la sua azienda intende ampliare le collaborazioni in loco, con coproduzioni e joint venture flessibili “che portino benefici all’economia locale” (ad esempio, la partnership con MBDA per missili Patriot GEM-T). Allo stesso modo, Eric Fanning, presidente della maggiore associazione industriale aerospaziale USA, ha riconosciuto che la vera sfida è convincere gli europei che le aziende USA non sottrarranno posti di lavoro, ma anzi li creeranno investendo sul territorio. Se queste promesse si concretizzano, gli acquisti di armi americane potrebbero portare benefici economici condivisi, riducendo l’opposizione politica interna in Europa.
In definitiva, la priorità è la protezione concreta e immediata dell’Europa, anche a costo di dipendere dall’alleato americano sul piano militare. Finché l’UE non sarà in grado di eguagliare l’offerta statunitense in termini di qualità e quantità di armamenti è saggio sfruttare l’ombrello USA e dotarsi delle migliori armi possibili. Ciò massimizza la sicurezza europea nel presente (deterrenza rafforzata, interoperabilità NATO, tempi di reazione rapidi) e non preclude, ma anzi può accompagnare, uno sviluppo graduale di capacità europee autonome.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025
Investire negli USA impoverisce l’Europa e la sua industria della difesa
Continuare a comprare armamenti dagli Stati Uniti significa dirottare immense risorse finanziarie europee verso l’estero, penalizzando la crescita della nostra industria bellica e tecnologica. Per ogni sistema d’arma americano acquistato c’è un corrispondente sistema europeo non sviluppato o non prodotto, con perdita di competenze, posti di lavoro qualificati e autonomia industriale. Secondo stime riportate da “Il Mattinale Europeo”, gli Stati membri europei spendono ogni anno circa 50 miliardi di euro per acquistare armamenti e attrezzature militari dagli USA. È come se un intero Fondo europeo per la difesa (EDF) venisse trasferito annualmente oltreoceano, visto che l’EDF vero dispone di appena 8 miliardi in 7 anni. Non solo: il SIPRI calcola che tra il 2020 e il 2024 quasi il 64% delle importazioni militari europee (NATO Europa) proveniva dagli Stati Uniti. Questo ha implicato, come scrive “Il Manifesto”, che il riarmo dell’Europa è avvenuto essenzialmente con armi made in USA. Tali risorse avrebbero potuto alimentare i bilanci di aziende europee; invece, sono andate a finanziare i colossi americani come Lockheed Martin, Raytheon, Boeing, General Dynamics ecc. I contrari definiscono questa dinamica un “travaso di ricchezza” dall’UE agli USA in un settore strategico. Vista la stagnazione economica europea e l’urgenza di investimenti in transizione verde, digitale ecc., spendere decine di miliardi all’anno all’estero appare controproducente. Inoltre, arricchendo l’industria USA, l’Europa rende più difficile in futuro competere: i campioni americani accumulano ulteriori capitali e know-how, staccando ancora di più quelli europei.
Il punto fondamentale è che l’Europa possiede già un’industria della difesa di buon livello, ma se non viene sostenuta, rischia di regredire o essere assorbita da quella d’oltreoceano. Vari indicatori mostrano che negli ultimi anni qualcosa si muoveva: l’Italia, ad esempio, è salita al 6° posto mondiale come esportatore d’armi grazie a commesse ottenute nel quinquennio 2015-2019. Ciò è avvenuto in settori dove l’industria italiana (e più in generale europea) eccelle: navale, elicotteri, difesa terrestre. Altri Paesi europei – Francia, Germania, Svezia, UK – sono anch’essi tra i top 10 esportatori globali. Questo testimonia che una base industriale esiste ed è competitiva, quando ne ha l’opportunità. Tuttavia, come nota Giorgio Beretta (Osservatorio Opal), gli exploit registrati dal SIPRI si devono a licenze di esportazione concesse in passato (governi Renzi e Gentiloni in Italia) che ora giungono in consegna. Per vedere l’effetto degli investimenti attuali bisognerebbe attendere qualche anno, ma intanto i governi europei stanno scegliendo la scorciatoia di comprare dagli USA anziché ordinare a casa propria. Questo potrebbe indebolire proprio nel momento in cui l’industria UE stava ingranando. Ad esempio, l’azienda italiana Leonardo nel 2024 ha visto le sue azioni salire del +73% grazie alle prospettive di spesa difesa; la tedesca Rheinmetall addirittura +114%. Ciò indica che il mercato crede nelle potenzialità di crescita produttiva in Europa. Ma se poi i decisori preferiscono investire quella spinta finanziaria in beni di importazione, l’ondata rischia di infrangersi.
Uno studio del Parlamento UE ha stimato che per ogni euro investito in produzione di difesa in Europa si generano 1,6 euro di valore aggiunto interno, per via dell’indotto e delle filiere lunghe. Al contrario, ogni euro speso all’estero è valore aggiunto perso per l’economia UE. In tempi in cui gli investimenti pubblici in difesa stanno per aumentare di centinaia di miliardi (NATO chiede +2% PIL, e possibili 3-4% per alcuni Paesi), buttare questa occasione a favore di terzi sarebbe un errore storico imperdonabile. Non capita spesso di avere consenso politico per aumentare la spesa in un settore industriale: è la chance per modernizzare e far crescere il comparto europeo. Se la si spreca alimentando l’industria altrui, l’Europa resterà per sempre cliente e mai fornitrice.
Inoltre, c’è il tema dei duplicati e delle economie di scala interne mancate. I critici riconoscono che in passato l’Europa ha disperso risorse creando troppi modelli differenti per soddisfare le fiere nazionali (ad esempio, diversi tipi di carri armati e caccia). Ma la soluzione, affermano, non è rimpiazzare i duplicati con un unico modello americano, bensì consolidarli in modelli europei comuni. Se tutti comprano Patriot, la filiera europea di difesa aerea (MBDA, Thales, Diehl ecc.) verrà marginalizzata. Invece, se gli europei unissero i programmi (ad esempio evolvendo SAMP/T o sviluppando congiuntamente un intercettore europeo), i duplicati sparirebbero ugualmente ma il beneficio economico resterebbe in casa. È proprio questo l’obiettivo di iniziative come la Bussola Strategica UE e il Fondo Europeo Difesa: mettere fine alla frammentazione incoraggiando cooperazione industriale continentale. I contrari accusano i governi di ipocrisia: a parole sostengono l’autonomia strategica e varano il ReArm Europe Plan da 800 miliardi di euro, ma poi – come segnala Emmanuele Panero – quell’enorme cifra rischia di finire per buona parte in acquisti di sistemi americani, “gli unici ad avere quelle tecnologie” oggi. Così, afferma Comito, “le ricadute positive sull’industria europea non ci saranno affatto”. È illuminante il caso del Piano franco-tedesco di difesa aerea lanciato dopo l’invasione russa: doveva essere un esempio di Buy European, ma in breve si è trasformato nell’iniziativa “European Sky Shield”, dove 17 Paesi (guidati dalla Germania) hanno deciso di acquistare un mix di sistemi israeliani e americani (Arrow-3 e Patriot) invece di sviluppare qualcosa in Europa. La Francia e l’Italia si sono chiamate fuori, vedendo tradito lo spirito di cooperazione industriale UE. Per i contrari, questa vicenda suona come monito: se ogni Paese corre a comprare all’estero la soluzione pronta, l’Europa unita sul piano militare non nascerà mai e le sue aziende verranno relegate a subcontractor secondari.
Vi è anche un risvolto di bilancia commerciale e autonomia finanziaria. L’UE già importa molta energia (gas e petrolio) e tecnologia (microchip, elettronica) dal resto del mondo. Aggiungere anche la difesa come voce massiccia di importazione può peggiorare i saldi esterni e aumentare la vulnerabilità a shock. Un’analisi sul “Corriere della Sera” spiegava che per evitare i dazi USA l’Europa stava offrendo di acquistare più gas naturale liquefatto americano e più armi statunitensi, “per riportare la bilancia commerciale a un livello meno sbilanciato” a favore dell’Europa. Ma è giusto riequilibrare quella bilancia a spese nostre, spendendo in America soldi che potremmo investire in innovazione qui? In pratica, Trump ha imposto un riequilibrio tramite una sorta di tributo: l’Europa compra beni USA (gas, armi) per compiacere Washington. Ciò allevia forse tensioni commerciali nel breve termine, ma priva l’Europa di risorse e la rende ancora più dipendente economicamente dagli USA. Questa subordinazione economica preoccupa non solo i sovranisti ma anche gli europeisti convinti: ad esempio, un’analisi di “The Parliament Magazine” afferma che l’architettura di difesa americanocentrica porta l’Europa a “prendersi il bastone corto” anche in trade-off su commercio e industria. Finché l’UE dipende dagli USA per la sicurezza, finirà col fare concessioni in altri ambiti per mantenere la benevolenza americana. Nel 2025 si è visto con i dazi e l’accordo “sbilenco” Ursula-Trump in cui l’UE ha accettato tariffe del 15% su quasi tutto il proprio export e un 50% su acciaio, pur di evitare di peggio. Chi ci ha guadagnato è l’industria USA: in cambio, l’UE sborsa 600 miliardi $ in prodotti americani e 750 miliardi $ in energia. È evidente che questa strada porta l’Europa a finanziare la potenza economica e militare americana a proprio scapito. Un professore (Alegi) ha fatto notare che l’accordo includeva pure l’incoraggiamento a investimenti dell’industria europea negli USA per 600 miliardi $, il che significa dire alle nostre aziende: “se volete vendere, producete in America, non in Europa”. Anche questo viene ritenuto folle: equivarrebbe a svuotare il tessuto industriale europeo per trapiantarlo altrove, una delocalizzazione politica. Alegi, infatti, esprime preoccupazione: “mi preoccuperei altrettanto, o di più, riguardo i 600 miliardi di investimenti dell’industria europea negli Stati Uniti… si sta dicendo alle aziende di produrre lì e non in Europa”. Sarebbe il colmo di una strategia autolesionista.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025
Manteniamo gli USA impegnati nella difesa europea, questo è un investimento strategico
Gli acquisti europei di armamenti statunitensi vanno interpretati anche come una mossa strategica di politica estera, volta a garantire il perdurare dell’impegno americano nella difesa dell’Europa. In un momento storico caratterizzato da incertezze politiche a Washington – con segmenti dell’opinione pubblica e della leadership USA tentati dall’isolazionismo – dimostrare concretamente che l’Europa è un partner che investe nell’alleanza può fare la differenza tra un’America coinvolta o disinteressata al destino europeo. Acquistare armi made in USA, in quest’ottica, diventa un segnale di buona volontà e un fattore di rassicurazione per chi a Washington spinge affinché gli alleati “facciano la propria parte”.
Uno degli argomenti ricorrenti di Donald Trump (e di altri esponenti politici americani) è che gli europei abbiano a lungo “approfittato” della protezione USA spendendo poco in difesa. Sin dal suo primo mandato, Trump ha chiesto aumenti drastici dei bilanci militari NATO, minacciando in caso contrario un disimpegno americano. Ebbene, gli europei hanno reagito: oggi molti Paesi UE stanno incrementando le spese verso (o oltre) il 2% del PIL, con Polonia e Paesi baltici ben oltre questa soglia. Ma aumentare il budget non basta a convincere Washington: bisogna anche decidere dove impiegarlo. Se l’UE usasse tutti i nuovi stanziamenti per programmi strettamente nazionali o europei, ci sarebbe il rischio che negli USA vedessero questo come un “decoupling” (sganciamento) dall’alleanza, alimentando la retorica di chi accusa l’Europa di voler fare da sé e magari accomodarsi con potenze rivali. Al contrario, destinare una parte significativa di quei fondi all’acquisto di equipaggiamenti americani lancia un messaggio potente: l’Europa scommette sull’alleato a lungo termine. Dal punto di vista diplomatico, ciò può consolidare i legami politico-militari: generali, industrie e comunità strategiche americane avranno un interesse diretto a mantenere forte la NATO perché ne traggono benefici economici e di influenza. In altre parole, gli acquisti UE in America creano una lobby domestica pro-alleanza negli Stati Uniti. Questo concetto è ben noto: storicamente, la presenza di truppe USA in Europa (e le basi NATO) ha generato negli Stati Uniti meccanismi di coinvolgimento quasi automatico – militari che fanno carriera nell’Alleanza, aziende che riforniscono le basi, scambi accademici ecc. Oggi che la presenza militare americana è relativamente ridotta rispetto al passato, la dimensione commerciale (armi vendute) può fungere da surrogato per mantenere quei legami vitali.
Vi è anche un ragionamento economico alla base: grazie alle commesse europee, l’industria bellica USA ottiene profitti e scala produttiva maggiori, rafforzandosi e rendendo gli Stati Uniti più forti militarmente. Alcuni in Europa considerano ciò un problema, ma altri pensano che un’America militarmente più forte e integrata con l’Europa è un vantaggio netto per la sicurezza occidentale. Se il compito è contenere potenze revisioniste come Russia e Cina, avere gli arsenali americani ben finanziati – anche con i soldi alleati – è nell’interesse strategico dell’Europa. Prospetticamente, poi, gli acquisti possono essere modulati: l’Europa potrebbe decidere di acquistare alcuni sistemi chiave dagli USA (quelli più efficaci) e concentrarsi internamente su altri. Un esempio citato dai sostenitori è quello delle munizioni e artiglierie: dopo il 2022 gli europei si sono resi conto di dover aumentare la produzione di proiettili e hanno fatto investimenti che, in due anni, hanno portato la produzione continentale di proietti d’artiglieria a sei volte il livello iniziale, superando perfino i volumi americani. Ciò dimostra che, se motivata, l’UE può rendersi autosufficiente in certi comparti. Ma parallelamente, per caccia e missili sofisticati, ci vorrà più tempo. Dunque, in alcuni settori l’Europa inizia a camminare, in altri continua a essere portata dagli USA, senza che questo implichi vergogna politica. Del resto, lo stesso segretario generale NATO Mark Rutte riconosce la necessità di una transizione graduale: ha invitato gli alleati europei a investire sia in industrie e innovazione interne, sia ad acquisire subito capacità fondamentali (spesso di provenienza USA) per la difesa comune. Insomma, anche ai vertici dell’Alleanza la linea è duplice: rafforzarsi, ma intanto comprare ciò che serve.
Un altro argomento pro-acquisti USA è il mantenimento dell’ombrello nucleare tattico e delle capacità strategiche americane sull’Europa. Sebbene la questione nucleare sia specifica, è correlata: Paesi come Belgio, Paesi Bassi, Italia e Germania ospitano bombe nucleari USA (nuclear sharing) sganciabili con aerei americani (prima F-16, in futuro F-35). Assicurarsi di avere la nuova generazione di velivoli USA (F-35 appunto) consente di tenere in vita questa deterrenza condivisa. Se l’Europa decidesse di non comprare l’F-35 e puntare su soli aerei propri non certificati per armi nucleari, rischierebbe di spezzare il meccanismo di dissuasione nucleare integrata con gli USA – scenario che molti governi considerano imprudente vista l’attuale aggressività russa. Quindi anche in questo ambito i Pro vedono negli acquisti di caccia USA una garanzia implicita di continuità strategica: finché gli europei usano piattaforme americane per missioni sensibili (come il nucleare), gli Stati Uniti resteranno saldamente coinvolti.
Inoltre, l’alleanza con gli USA è insostituibile sul piano globale. L’Europa da sola, anche se equipaggiata di armi proprie, non avrebbe la proiezione di potenza e il peso geopolitico di un’accoppiata transatlantica. Tenere legate insieme le due sponde – anche attraverso la dipendenza militare – è considerato prudente. L’alternativa sarebbe un mondo multipolare dove l’Europa, orfana dell’America, finirebbe schiacciata tra altre superpotenze. In questa visione, comprare armi americane non è solo una scelta tecnica, ma un atto politico di alleanza: significa “votare” per un Occidente unito e assicurare che gli USA rimangano in Europa. In quest’ottica, riassunta con efficacia da un commentatore su “Il Manifesto”, “comprare armi dagli Stati Uniti è come pagare l’abbonamento affinché lo scudo americano continui a proteggerci”. La contropartita è costosa, sì, ma considerata necessaria: meglio investire miliardi in prodotti USA che perdere un alleato del calibro degli Stati Uniti.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025
L’Europa deve puntare all’autonomia strategica
L’Europa può e deve raggiungere la piena autonomia strategica in difesa e ciò è impossibile se continua ad appoggiarsi alle armi americane. Oltre agli aspetti già discussi di dipendenza e di danno industriale, qui si sottolinea l’importanza geopolitica e identitaria per l’UE di diventare un attore di sicurezza autonomo, capace di agire secondo i propri valori e interessi, senza essere trascinata o limitata dalle agende altrui.
Gli assertori di questa tesi spesso richiamano la storia: finora, quando l’Europa ha delegato la propria sicurezza agli USA, ha finito per essere coinvolta in “guerre imposte” non sempre in linea con i suoi interessi. Il “Giornale d’Italia”, in un pezzo di Riccardo Renzi, ha ricordato come gli Stati Uniti abbiano trascinato l’Europa in conflitti come Iraq 2003 o Libia 2011 senza un adeguato dibattito interno in Europa, producendo instabilità e crisi migratorie di cui oggi l’Europa paga il prezzo. Secondo questa prospettiva, l’essere rimasti sotto l’ombrello USA ha avuto un costo geopolitico: l’UE non ha sviluppato una propria visione strategica, adattandosi a quella americana e subendone anche gli errori. Continuare a comprare armi USA perpetua questa eterodipendenza strategica. Viceversa, investire su un proprio apparato difensivo (anche se faticoso) obbligherebbe l’Europa a chiarire i propri obiettivi di sicurezza e assumersi responsabilità come attore globale. I contrari ritengono che la crisi ucraina e la “dottrina Trump” abbiano aperto gli occhi a molti in Europa sulla necessità di emancipazione. Il presidente francese Emmanuel Macron è tra i principali portavoce di questa linea: ha più volte invocato un’Europa “potenza sovrana”, capace di “prendere il controllo del proprio destino” e non dipendere da “poliziotti extraeuropei”. Nel concreto, Macron nel 2023 dichiarò che gli europei non devono essere “vassalli” (riferito agli USA) e nel 2025 ha lanciato un’offensiva diplomatica per convincere vari Paesi UE a scegliere sistemi europei invece degli americani. Ha fatto esempi specifici: offrire il SAMP/T NG (franco-italiano) a chi stava per comprare il Patriot, proporre il Rafale a chi valuta l’F-35. Questa campagna, appoggiata anche dal ministro francese Lecornu, è stata definita “la grande battaglia per il 2025”, a sottolineare l’importanza cruciale del momento: se l’Europa spende male ora (su fornitori esterni), perderà l’ultima occasione di costruire una difesa europea robusta. I contrari sposano in pieno questa visione: ogni euro investito in un’azienda europea resta patrimonio tecnologico europeo e rafforza la sovranità dell’UE; ogni euro regalato a Lockheed o Boeing rafforza la supremazia USA e indebolisce la prospettiva di un’Europa indipendente.
Anche leader di altri Paesi condividono l’idea di ridurre la dipendenza. La Germania, tradizionalmente più atlantista, con l’arrivo di un possibile cancelliere CDU (Merz) ha cominciato a ventilare la nascita di una “Comunità europea di difesa” alternativa in caso di disimpegno USA. Lo stesso Merz sostiene che i massicci riarmi tedeschi post-2022 dovrebbero essere “assegnati per quanto possibile a produttori europei”. Questo indica che il concetto di preferenza europea sta guadagnando consensi anche fuori dalla Francia. Questo è un segnale importante: se Parigi e Berlino (assieme ad altri) iniziano a convergere su progetti comuni, l’UE potrebbe creare quell’effetto massa finora mancato. Ad esempio, il caccia FCAS di sesta generazione (Francia-Germania-Spagna) e il caccia Tempest (Italia-UK-Giappone) dovrebbero forse unirsi per evitare duplicazioni e sommare risorse. Lo stesso vale per i futuri carri armati (il progetto MGCS). Finora queste iniziative procedono a rilento, in parte perché alcuni partner (Germania, ad esempio) hanno preso vie traverse comprando sul momento dagli USA (gli F-35 per sostituire i Tornado, rompendo l’unità sul caccia europeo). I contrari definiscono queste scelte errori politici gravi, dettati dalla fretta e da pressioni esterne, e chiedono di rimettere sui binari i grandi programmi europei. Se ciò comporta un temporaneo scoperto, si può ricorrere a soluzioni ponte europee. Ad esempio, la Spagna ha deciso di non comprare gli F-35B americani per le sue portaerei, preferendo puntare su un futuro velivolo europeo o su un adattamento degli FCAS, pur sapendo di dover gestire un gap capacitivo attorno al 2030. Questa scelta, applaudita dai contrari, dimostra coerenza strategica: meglio accettare qualche limitazione operativa che legarsi definitivamente a sistemi USA.
Un altro argomento chiave è la resilienza e l’indipendenza di approvvigionamento. I sostenitori del Buy European ricordano la lezione della pandemia di COVID: l’Europa ha sofferto per la dipendenza da forniture estere (mascherine, vaccini inizialmente, materie prime critiche). Ha quindi avviato politiche per la “sovranità industriale” in settori come farmaceutica e microchip. Lo stesso ragionamento dovrebbe applicarsi alla difesa: in caso di crisi globale, ogni Paese tende a privilegiare se stesso. In caso di conflitto tra USA e Cina, è plausibile che gli Stati Uniti dirottino la produzione di armi verso il Pacifico. Un policy brief di Bruegel avverte infatti che “le future amministrazioni USA potrebbero dare priorità alle consegne verso l’Asia”. Ciò lascerebbe l’Europa in coda alla fila di fornitura, come ha spiegato il generale Grand: “c’è la percezione errata che gli USA siano un Walmart gigantesco con tutto in pronta consegna, la realtà è che finisci in coda”. Già ora, per certi armamenti americani, i tempi di consegna per gli europei sono pluriennali (2-5 anni). In caso di emergenza mondiale, la priorità USA andrebbe al proprio esercito, non a rifornire l’Europa. Cosa succederebbe se nel 2027 scoppiasse una guerra su Taiwan e l’Europa avesse bisogno di nuove munizioni o pezzi di ricambio? Rischiamo di non ottenerli in tempo, perché le fabbriche americane saranno occupate da ordini per il Pentagono o alleati asiatici. Per questo si insiste sul concetto di autonomia strategica: l’Europa deve costruire una base industriale capace di soddisfare almeno le sue esigenze critiche. In alcuni settori (carri armati, artiglierie, missili antinave) l’industria UE è già leader mondiale (ad esempio, Leopard 2 tedeschi, Panzerhaubitze 2000, Exocet francesi). Potenziando queste filiere e sviluppandone di nuove in segmenti deboli (droni MALE, aerei di 5a gen, difesa antimissile), l’Europa può aspirare a non dipendere da nessuno. Sarebbe un percorso analogo a quello seguito dall’Unione nei settori spaziale (lanciatore Ariane invece dei razzi USA) o nucleare civile (reattori e filiera combustibile propri): inizialmente cooperando con gli USA, poi emancipandosi.
C’è da sottolineare che un’Europa autonoma militarmente non significherebbe un’Europa antiamericana, bensì un alleato più forte e credibile. Il think tank Atlantic Council (pur di scuola atlantista) riconosce che un “pilastro europeo più robusto” alla fine porterebbe a una NATO più equilibrata e resiliente. Gli USA stessi, specialmente in un contesto di multi-confronto (Russia e Cina), dovrebbero giovarsi di un’Europa capace di gestire la propria sicurezza regionale in autonomia, lasciando agli americani libertà di concentrarsi altrove. Paradossalmente, quindi, l’autonomia europea rafforzerebbe la partnership riducendo i risentimenti e le incomprensioni reciproche. Ma perché ciò avvenga, l’Europa deve fare un atto di volontà: investire su se stessa. I contrari citano il concetto di “Europeizzazione degli investimenti”: i soldi europei (soprattutto se provenienti da fondi UE o debito comune) devono servire a finanziare produzioni europee, come ha affermato il ministro francese Lecornu – “La vendita di armi europee agli eserciti europei è la grande battaglia del 2025”. Non fare questa scelta vorrebbe dire arrendersi a essere perennemente un protettorato armato da altri, senza dignità di attore globale. Personalità anche moderate, come l’alto diplomatico spagnolo Javier Solana, da tempo suggeriscono che l’UE deve avere “autonomia di decisione e di approvvigionamento” nelle questioni di difesa, altrimenti non sarà mai considerata seriamente sulle scene di crisi mondiali.
Per 70 anni l’Europa è dipesa dagli USA; ora deve crescere e prendersi la responsabilità della propria difesa. Continuare a comprare americano sarebbe restare nell’adolescenza geopolitica. Altre potenze emergenti, come l’India, diversifica le sue fonti militari (comprando da Russia, Francia, Israele) per non dipendere da nessuno, e investe nel Make in India. L’Europa ha un potenziale industriale molto superiore all’India, eppure paradossalmente oggi appare più dipendente (quasi 2/3 dell’import UE da un solo Paese, gli USA). Questa situazione è ritenuta anomala e non degna dell’UE. Un commentatore su l’“Indipendente” l’ha definita “fuga dagli F-35 americani, l’Europa teme di ritrovarsi vulnerabile e costosa”, facendo riferimento a vari Paesi che stanno ripensando l’acquisto dei Lightning II per cercare alternative. Ciò dimostra che la consapevolezza sta crescendo anche tra gli alleati: la “buyer’s remorse” (rimorso del compratore) di cui scrive “Euractiv” si sta diffondendo in molte capitali UE.
Madeleine Maresca, 17 dicembre 2025