Nr. 408
Pubblicato il 22/11/2025

Medioriente: la guerra è finita?

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Il 7 ottobre 2023 il gruppo Hamas lanciò un attacco a sorpresa contro Israele, uccidendo circa 1.200 persone e sequestrando 251 ostaggi. In risposta, Israele avviò un’offensiva nella Striscia di Gaza denominata operazione Spade di Ferro, con pesanti bombardamenti aerei seguiti da un’invasione di terra. Il conflitto causò una devastazione senza precedenti: in due anni di guerra sono rimasti uccisi oltre 67.000 palestinesi (stima proveniente dalle autorità sanitarie di Gaza), tra cui decine di migliaia di bambini, oltre a migliaia di feriti e sfollati. Le Nazioni Unite e varie ONG denunciarono gravi violazioni del diritto umanitario: Amnesty International, in un rapporto del dicembre 2024, ha accusato Israele di aver condotto a Gaza azioni equivalenti a un genocidio, citando bombardamenti indiscriminati, blocco degli aiuti e deportazioni forzate della popolazione civile. D’altro canto, gli attacchi di Hamas del 7 ottobre – inclusi massacri di civili e presa di ostaggi – sono stati anch’essi condannati come crimini di guerra e contro l’umanità. La guerra ha così inasprito un conflitto israelo-palestinese già segnato da decenni di violenze e reciproche violazioni dei diritti umani.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Hamas è stato neutralizzato: la guerra, come fase militare, è conclusa

La guerra come confronto armato tra due soggetti organizzati è terminata. Il fatto che vi siano ancora episodi di violenza non significa che ci sia una guerra aperta.

02 - Il cessate il fuoco e il quadro internazionale segnano l’ingresso nel dopoguerra

Il cessate il fuoco è stato negoziato come primo atto di un accordo ampio. Il fatto che sia stato formalizzato distingue la situazione attuale dalle pause precedenti.

03 - Una tregua fragile non equivale alla fine della guerra

Finché civili vengono uccisi, infrastrutture bombardate e combattimenti, parlare di “fine della guerra” appare più una scelta retorica, non una descrizione accurata.

04 - Senza una soluzione politica e senza giustizia la guerra resta solo sospesa

La guerra Israele-Hamas ha radici profonde: occupazione, autodeterminazione, sicurezza e diritti. Se questi nodi restano, la guerra non può considerarsi conclusa.

 
01

Hamas è stato neutralizzato: la guerra, come fase militare, è conclusa

FAVOREVOLE

Secondo questa tesi, “la guerra è finita” perché la sua dimensione strettamente militare si è esaurita. Dopo due anni di combattimenti, l’apparato di Hamas a Gaza è stato profondamente colpito: tunnel distrutti, arsenali decimati, catena di comando indebolita. La capacità del movimento di organizzare un’operazione paragonabile al 7 ottobre 2023 è oggi considerata molto ridotta. Non si registrano più lanci massicci di razzi né incursioni oltre confine e l’esercito israeliano ha cessato le grandi offensive di terra. In questo senso, la guerra intesa come confronto armato simmetrico tra due soggetti organizzati può dirsi terminata.
I sostenitori fanno leva sulla distinzione secondo cui il fatto che vi siano ancora episodi di violenza non significa che si sia in guerra aperta. In molte situazioni post-belliche esistono incidenti di frontiera, operazioni mirate, tensioni locali, ma questo non inficia il riconoscimento della fine del conflitto principale. Così, anche a Gaza, eventuali raid o colpi isolati vengono letti come azioni di sicurezza di “bassa intensità”, non più come parte di una campagna militare su vasta scala. Il fatto che le forze israeliane non cerchino più di occupare l’intera Striscia e che Hamas non lanci più offensiva generalizzata viene interpretato come il segnale chiave che la fase bellica si è chiusa.
Un altro pilastro di questa tesi è la percezione collettiva in Israele: la liberazione degli ostaggi, l’annuncio solenne della fine delle operazioni di grande portata e il passaggio del discorso pubblico dalla “guerra” alla “ricostruzione” hanno prodotto un senso diffuso di fine di un capitolo storico. Le cerimonie ufficiali, le dichiarazioni politiche e la copertura mediatica parlano ormai di “dopoguerra”, con attenzione rivolta al reinserimento degli ostaggi, al sostegno alle famiglie colpite, alle indagini sulle falle di sicurezza del 7 ottobre. In altre parole, il baricentro narrativo è passato dal fronte al “fronte interno”.
Questa tesi appoggia su un criterio pragmatico: la guerra finisce quando le parti accettano che l’obiettivo militare è stato raggiunto. Israele ritiene di aver ristabilito un certo livello di deterrenza; Hamas, pur non dichiarandosi sconfitto, ha accettato un cessate il fuoco a tempo indeterminato e condizioni che in altri momenti avrebbe respinto. La prosecuzione dello scontro, per entrambi, comporterebbe costi enormi a fronte di benefici incerti. Per i favorevoli, è proprio questa convergenza di interessi a sancire la chiusura della guerra: ciò che resta sono negoziati, traumi, rancori, ma non più una campagna bellica attiva.

Madeleine Maresca, 22 novembre 2025

 
02

Il cessate il fuoco e il quadro internazionale segnano l’ingresso nel dopoguerra

FAVOREVOLE

La guerra è finita perché si è passati a una fase istituzionalmente riconosciuta come post-conflitto. Il cessate il fuoco è stato negoziato non come tregua tattica di qualche giorno, ma come primo segmento di un accordo articolato: ritiro graduale delle truppe israeliane da Gaza, scambio di ostaggi e prigionieri, ingresso massiccio di aiuti, ruolo di monitoraggio di attori internazionali. Il fatto che questo impianto sia stato formalizzato in documenti, annunciato congiuntamente e tradotto in atti concreti distingue la situazione attuale dalle pause precedenti, che erano legate a intese più fragili e circoscritte.
Un elemento centrale è il riconoscimento da parte delle istituzioni internazionali. Quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva una risoluzione che “accoglie” un piano con lo scopo esplicito di porre fine alla guerra, autorizza missioni di stabilizzazione e legittima la transizione verso la ricostruzione, si compie un salto di qualità: non si tratta più solo di una scelta bilaterale, ma di un quadro multilaterale di dopoguerra. Le organizzazioni umanitarie e le agenzie ONU reindirizzano il proprio lavoro dalla gestione dell’emergenza a programmi di rilancio dei servizi essenziali, sostegno psicologico, rientro degli sfollati, pianificazione della ripresa economica. Tutto questo è tipico dei contesti post-bellici.
I sostenitori di questa visione sottolineano anche il cambio di agenda politica: i dibattiti internazionali non ruotano più intorno alla domanda “se” fermare le ostilità, ma “come” consolidare la tregua e “chi” governerà la Striscia nei prossimi anni. L’attenzione si sposta su forme di amministrazione temporanea, possibili ruoli per l’Autorità Palestinese, coinvolgimento della regione e garanzie di sicurezza. Le conferenze multilaterali discutono di fondi per infrastrutture, corridoi umanitari permanenti, meccanismi di supervisione. Si ragiona su un orizzonte di medio-lungo termine, tipico del dopoguerra, non più sull’urgenza di fermare i bombardamenti.
Questa tesi sottolinea il valore simbolico e politico delle dichiarazioni di fine conflitto. Quando attori religiosi come il Patriarca latino di Gerusalemme, leader politici locali e regionali o capi di organizzazioni internazionali parlano, in forme diverse, di “fine della guerra”, contribuiscono a consolidare una percezione condivisa. Non bisogna confondere “pace compiuta” e “fine della guerra”: nessuno nega che permangano tensioni enormi, ma l’assenza di offensive generalizzate, l’avvio di percorsi di ricostruzione e il riconoscimento multilaterale del cessate il fuoco bastano per dire che il conflitto armato 2023–2025 è stato formalmente archiviato e che oggi ci si muove, per quanto faticosamente, nel terreno del dopoguerra.

Madeleine Maresca, 22 novembre 2025

 
03

Una tregua fragile non equivale alla fine della guerra

CONTRARIO

Affermare che la guerra sia finita è prematuro e fuorviante. Il punto di partenza è la constatazione che il cessate il fuoco è costellato di violazioni, soprattutto nella forma di raid israeliani e morti palestinesi anche dopo l’annuncio della tregua. Finché civili continuano a essere uccisi, infrastrutture bombardate e combattimenti, seppur localizzati, parlare di “fine della guerra” appare più una scelta retorica che una descrizione accurata. La guerra non si misura solo dalla scala dei bombardamenti, ma dal fatto che la violenza organizzata rimanga uno strumento esplicito di politica e sicurezza.
I sostenitori di questa tesi sottolineano che non esiste un trattato di pace né un accordo politico definitivo: esiste solo una “fase 1” di un piano che tutti riconoscono come parziale. Nulla impedisce alle parti di interrompere il cessate il fuoco se lo ritenessero conveniente. Hamas conserva la propria struttura armata, non ha annunciato la rinuncia alla lotta armata, e parte dei suoi dirigenti continuano a presentare la tregua come momento tattico. Israele mantiene una presenza militare significativa e rivendica il diritto di intervenire ovunque identifichi una minaccia, definendo l’eliminazione della capacità offensiva di Hamas un obiettivo non ancora pienamente raggiunto. In termini giuridici e strategici, questo è esattamente lo schema di una guerra “congelata”, non conclusa.
Un altro pilastro di questa tesi è la mancata soluzione delle cause strutturali del conflitto. La Striscia resta devastata, sottoposta a fortissime restrizioni su movimenti e beni, con una popolazione che vive di aiuti e in condizioni di emergenza. La Cisgiordania continua a essere teatro di occupazione, colonizzazione e scontri, con un livello di violenza che in alcuni periodi ha raggiunto record pluridecennali. La prospettiva di uno Stato palestinese sovrano rimane lontana, mentre la frammentazione territoriale e politica si approfondisce. In questo contesto, definire “finita” la guerra a Gaza significa isolare il segmento più eclatante di violenza senza considerare il continuum del conflitto israelo-palestinese.
Dal punto di vista dei diritti umani, infine, il linguaggio della “fine della guerra” rischia di normalizzare una situazione ancora inaccettabile. Due anni di ostilità hanno prodotto decine di migliaia di morti, distruzione massiccia e accuse gravissime, inclusa quella di genocidio. Organizzazioni internazionali insistono sulla necessità di riconoscere le responsabilità, indagini indipendenti, eventuale intervento della giustizia penale internazionale. Se la guerra fosse davvero finita, ci si aspetterebbe un processo di verità, giustizia e riparazione; al contrario, le violazioni denunciate proseguono nella forma di blocco, ostacoli agli aiuti, uso della forza letale in circostanze controverse. Per i contrari, dunque, siamo di fronte a una fase di conflitto trasformato, non cessato: chiamarla “fine della guerra” significa sottovalutare la continuità della violenza e delle sue cause.

Madeleine Maresca, 22 novembre 2025

 
04

Senza una soluzione politica e senza giustizia la guerra resta solo sospesa

CONTRARIO

Nella sua dimensione politico-strutturale, la guerra tra Israele e Hamas può essere letta come la manifestazione acuta di una controversia molto più ampia, che riguarda occupazione, autodeterminazione, sicurezza e diritti fondamentali. Finché questi nodi restano irrisolti, la guerra non può considerarsi davvero conclusa; al massimo, è temporaneamente sospesa. Una pace reale richiederebbe almeno un quadro credibile verso due obiettivi: sicurezza garantita per gli israeliani e fine duratura dell’assedio, dell’occupazione e della frammentazione per i palestinesi. Oggi nessuno di questi due elementi appare assicurato.
Il piano che ha accompagnato il cessate il fuoco rinvia a fasi successive le questioni chiave: chi governerà Gaza, quale ruolo avrà l’Autorità Palestinese, come verrà garantita la sicurezza senza presenza militare permanente israeliana, quale sarà il destino della Cisgiordania. Le dichiarazioni di diversi leader israeliani continuano a respingere esplicitamente l’idea di uno Stato palestinese sovrano; dall’altro lato, Hamas e altre organizzazioni armate non accettano la legittimità dell’assetto attuale. In assenza di un orizzonte politico condiviso, la tregua appare un compromesso minimo legato alla stanchezza bellica e alla pressione esterna, non il preludio a una soluzione.
Questa tesi insiste anche sul tema della giustizia e dei traumi. La guerra ha generato livelli di sofferenza umana eccezionali: comunità palestinesi distrutte, una generazione di bambini cresciuta sotto le bombe, famiglie israeliane segnate da massacri, rapimenti, lutti. La memoria del 7 ottobre e delle devastazioni a Gaza alimenta sentimenti di paura, rancore, desiderio di vendetta. Senza forme di riconoscimento delle responsabilità, risarcimenti, percorsi di riconciliazione, questi traumi collettivi rischiano di alimentare nuove ondate di violenza. In altre parole, anche se i cannoni tacciono, nella mente e nella società la guerra continua.
Alcuni sottolineano la dimensione regionale e globale. Il conflitto Israele–Hamas è strettamente legato a equilibri più ampi: rapporti con Iran e suoi alleati, posizionamento di potenze come Stati Uniti, Russia, Unione Europea, dinamiche interne al mondo arabo. Gli ultimi anni hanno mostrato quanto sia facile che scontri a Gaza si traducano in tensioni sui fronti libanese, siriano, yemenita, sul mar Rosso. Una tregua locale non disinnesca automaticamente questi meccanismi: milizie e attori non statali possono utilizzare la causa palestinese come motivo di mobilitazione anche in futuro. Fintanto che non verrà consolidato un assetto regionale di sicurezza, il rischio che la guerra “ritorni” sotto altre forme è elevato.
Mancano dunque gli elementi che storicamente caratterizzano la vera fine di una guerra: un accordo politico condiviso, un quadro istituzionale duraturo, un avvio credibile di processi di giustizia e riconciliazione, garanzie regionali. Senza questi pilastri, ciò che si osserva oggi è una pausa armata in un conflitto lungo, non la sua conclusione. Parlare di “guerra finita” può essere comprensibile sul piano emotivo, ma non descrive la realtà profonda di un contesto che resta altamente instabile e segnato da strutture di violenza ancora intatte.

Madeleine Maresca, 22 novembre 2025

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