Nr. 407
Pubblicato il 20/11/2025

Patrimoniale

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Il dibattito sull’introduzione di un’imposta patrimoniale, ossia un prelievo sulla ricchezza accumulata, tipicamente indirizzato ai grandi patrimoni, si riaccende periodicamente in Italia. L’ultima scintilla è giunta nel contesto della Manovra finanziaria 2026, quando il segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, ha proposto un contributo straordinario dell’1% sui patrimoni netti superiori a 2 milioni di euro. Secondo Landini, la misura colpirebbe circa 500 mila persone (l’1% più ricco) generando un gettito annuo aggiuntivo di circa 26 miliardi di euro da investire in sanità, scuola e welfare pubblico. La proposta è stata accolta con favore da settori della sinistra e del sindacato, che la definiscono una misura di “giustizia redistributiva” volta a riequilibrare un sistema fiscale percepito come iniquo. Nelle parole dei promotori, non si tratterebbe di una “tassa punitiva” ma di un contributo di solidarietà: chiedere di più a chi possiede di più, in un Paese dove meno dell’1% della popolazione detiene una quota di ricchezza superiore a quella del 70% più povero. Dall’altra parte, il governo guidato da Giorgia Meloni ha reagito con un netto rifiuto.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - In Italia è necessario ridurre le disuguaglianze e promuovere la giustizia sociale

Una patrimoniale sui super-ricchi riequilibrerebbe il carico fiscale e aiuterebbe a colmare il divario crescente tra élite facoltose e resto della popolazione.

02 - La patrimoniale permette di finanziare welfare e investimenti pubblici in modo solidale

Tassare i grandi patrimoni fornirebbe miliardi da destinare a sanità, istruzione e rilancio economico senza gravare sui ceti medio-bassi.

03 - Una patrimoniale rischierebbe di frenare la crescita economica e gli investimenti

Tassare i “ricchi” rischia di ridurre investimenti produttivi, innovazione e opportunità anche per i ceti popolari.

04 - Fughe di capitali ed elusione vanificherebbero l’imposta

I Paperoni possono spostare residenze e fondi all’estero o sfruttare scappatoie. Il risultato sarebbe scarso gettito e perdita di basi imponibili.

05 - Servirebbe un’armonizzazione europea e una tassazione globale della ricchezza

Una patrimoniale coordinata a livello UE (come proposto dall’Osservatorio fiscale) garantirebbe equità evitando fughe di capitali intraeuropee.

06 - La patrimoniale porterebbe un gettito limitato. Ci sono alternative fiscali più efficaci

Le patrimoniali generano introiti modesti. Meglio tassare i redditi da capitale e le successioni in modo efficace.

07 - La patrimoniale può correggere le distorsioni del sistema fiscale e recuperare basi imponibili nascoste

La tassa colpirebbe chi ha maggiore capacità contributiva, correggendo distorsioni e aiutando ad intercettare patrimoni di dubbia provenienza.

08 - La pressione fiscale è già elevata, una doppia imposizione sarebbe ingiusta

In Italia la pressione fiscale è elevata e le ricchezze possedute sono già state tassate: imporre un’ulteriore tassa patrimoniale sarebbe iniquo.

 
01

In Italia è necessario ridurre le disuguaglianze e promuovere la giustizia sociale

FAVOREVOLE

I fautori della patrimoniale la presentano anzitutto come uno strumento di equità distributiva in un contesto di divari economici sempre più marcati. Negli ultimi decenni la ricchezza si è concentrata enormemente: in Italia l’1% più ricco possiede una quota maggiore di quanto detenga il 70% più povero, e il 10% più ricco controlla il 43% della ricchezza nazionale. Parallelamente, milioni di famiglie faticano economicamente: il tasso di povertà assoluta è salito oltre l’8% della popolazione. Di fronte a questa forbice, una tassa sui grandi patrimoni viene considerata un atto di giustizia sociale, perché fa pagare di più chi oggettivamente ha di più (cioè, chi ha maggior “capacità contributiva”, in linea col dettato costituzionale). Secondo Oxfam, ormai l’opinione pubblica italiana ha metabolizzato questa esigenza: il 70% dei cittadini si dice favorevole a una patrimoniale europea mirata allo 0,1% più ricco. Ciò riflette la percezione diffusa che l’attuale sistema fiscale non stia realizzando abbastanza redistribuzione: nel nostro Paese le imposte colpiscono soprattutto redditi da lavoro e consumi, mentre i grandi capitali spesso beneficiano di aliquote effettive più basse. Tassare la ricchezza concentrata ai vertici servirebbe dunque a riequilibrare il peso fiscale, alleggerendo potenzialmente il carico sui ceti medio-bassi. Gli economisti del think-tank Tortuga notano che ridurre le disuguaglianze estreme non è solo eticamente auspicabile ma produce effetti positivi di lungo periodo: società meno diseguali tendono ad avere maggiore mobilità sociale e persino una crescita economica più robusta e sostenibile (minori barriere d’accesso all’istruzione, più coesione sociale ecc.). Un’imposta patrimoniale darebbe un contributo immediato in tal senso, sia nel momento del prelievo (riducendo la distanza tra i molto ricchi e gli altri) sia nel momento della spesa dei suoi proventi, se destinati a servizi pubblici e sostegni per i meno abbienti. Dal punto di vista comparato, anche l’OCSE, tradizionalmente prudente in materia fiscale, ha riconosciuto che nei Paesi con forte crescita delle disparità (come l’Italia) una tassa sulla ricchezza può essere uno dei modi più efficaci per accelerare la riduzione dei gap. In altre parole, la patrimoniale viene vista dai favorevoli come un correttivo necessario per riportare un po’ di giustizia nel sistema, in un periodo storico in cui “i ricchi diventano sempre più ricchi” (specie dopo le crisi finanziarie) e al contempo aumenta la povertà assoluta. I favorevoli alla patrimoniale sottolineano che non è questione di “punire i ricchi” per motivi ideologici, bensì di farli contribuire al benessere comune in proporzione alla loro ricchezza, invertendo almeno in parte il trend di polarizzazione economica. Chiedere un contributo aggiuntivo all’élite finanziaria è percepito come giusto e solidale: ad esempio, i promotori della campagna #LaGrandeRicchezza (sostenuta da Oxfam) ricordano che una frazione minuscola di popolazione controlla ricchezze enormi e che anche un prelievo moderato (come lo 0,5-1% annuo su patrimoni plurimilionari) potrebbe generare risorse vitali con impatto trascurabile sul tenore di vita di quei contribuenti. Lo storico economico Emanuele Felice ha calcolato che solo la ricchezza finanziaria detenuta dal top 5% degli italiani supera i 3.000 miliardi di euro: un’aliquota dell’1% su di essa produrrebbe circa 30 miliardi annui di entrate, prelevando a individui che nemmeno se ne accorgerebbero in termini di riduzione del proprio benessere. “L’Italia diventerebbe un altro Paese: più equo, solidale, efficiente, crescerebbe anche di più e meglio”, afferma Felice, suggerendo che l’investimento sociale di queste risorse migliorerebbe perfino la qualità dello sviluppo. Questa visione è condivisa da molti esponenti progressisti: per Elsa Fornero, ad esempio, una patrimoniale può essere giustificata moralmente sia da gravi difficoltà di finanza pubblica (debito elevato ereditato dalle nuove generazioni) sia da gravi iniquità sociali – due condizioni che in Italia coesistono. Fornero sottolinea anche che, mentre la povertà si diffondeva, “una parte molto minoritaria del Paese aumentava la propria ricchezza”, segno che c’è margine per riequilibrare senza intaccare la sostenibilità economica dei benestanti. In sintesi, la tesi pro-equità sostiene che la patrimoniale è “una tassa per ricostruire la giustizia sociale”: non colpisce alcuna fascia fragile, ma anzi mira a reperire risorse proprio per aiutare queste ultime e ricucire un tessuto socioeconomico sfilacciato. Affermazioni come quelle di Maurizio Landini (“chiediamo un contributo all’1% per alleggerire il peso sul 99%”) riassumono lo spirito della proposta: far sì che i sacrifici fiscali siano meglio ripartiti tra tutti i cittadini, proporzionalmente alla ricchezza di cui godono.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
02

La patrimoniale permette di finanziare welfare e investimenti pubblici in modo solidale

FAVOREVOLE

Un secondo asse argomentativo a favore della patrimoniale riguarda l’utilizzo concreto del gettito per affrontare nodi strutturali del Paese. L’Italia ha cronici sottofinanziamenti in settori cruciali: sanità pubblica in affanno, istruzione e università che faticano a trovare risorse, politiche sociali insufficienti rispetto all’aumento di povertà e disoccupazione. Una tassa sui grandi patrimoni rappresenta, per i sostenitori, una via per reperire risorse straordinarie da destinare a questi ambiti senza gravare ulteriormente su lavoratori e imprese ordinarie. Il segretario CGIL Landini ha quantificato l’operazione: un’aliquota attorno all’1% sui patrimoni sopra i 2 milioni di euro frutterebbe circa 26 miliardi di euro all’anno, cifra considerevole che potrebbe essere immediatamente reinvestita in servizi pubblici essenziali. In un contesto di bilanci statali compressi dai vincoli europei e dall’elevato debito, quei miliardi aggiuntivi sarebbero ossigeno puro per rinforzare il welfare: Landini cita esplicitamente la possibilità di finanziare nuove assunzioni e investimenti nella sanità (messa sotto stress dalla pandemia e dai tagli passati), di aumentare stipendi nel pubblico impiego, potenziare le politiche abitative e i trasporti pubblici. Anche Oxfam sottolinea che un’imposta di questo tipo avrebbe un duplice impatto benefico: oltre a rafforzare l’equità del sistema fiscale, genererebbe “considerevoli risorse” da destinare al contrasto della povertà, delle disuguaglianze e perfino alla lotta ai cambiamenti climatici. Insomma, viene presentata come una “dote” per il futuro: far pagare di più ai ricchi oggi per finanziare interventi che avvantaggiano l’intera collettività domani (dalle cure sanitarie per tutti alla transizione ecologica). Alcuni sostenitori la vedono anche come un modo per affrontare il nodo del debito pubblico in modo equo: piuttosto che tagliare servizi o aumentare imposte generalizzate, si chiede un contributo mirato a chi può permetterselo. Ad esempio, l’OCSE ha segnalato che l’Italia, tra i Paesi con disuguaglianze di ricchezza cresciute maggiormente, potrebbe ridurre più velocemente questi divari e migliorare i conti adottando una patrimoniale ben congegnata. L’idea di fondo è che nei momenti di difficoltà finanziaria nazionale (come nel post-pandemia o di fronte a crisi sociali) una “solidarietà patrimoniale” sia preferibile a misure che colpiscono consumi o lavoro (che deprimono la domanda interna). Anche illustri economisti progressisti condividono questo approccio: Thomas Piketty, nel dibattito francese, ha definito una tassa del 2% sulle grandi fortune come il “minimo assoluto” necessario non solo per la giustizia sociale ma anche per affrontare le sfide fiscali post-crisi. Senza di essa, argomenta Piketty, i governi rischiano di dover tagliare spesa sociale o aumentare imposte regressive per ridurre i deficit, con effetti recessivi e ingiusti. In Italia, la patrimoniale viene vista dai proponenti come parte di un “patto sociale”: nel momento in cui si chiedono sacrifici per tenere sotto controllo i conti pubblici, è politicamente e moralmente opportuno chiederli a chi ha accumulato grandi ricchezze, piuttosto che ad esempio tagliare pensioni o redditi di base. Si evita così di scaricare i costi sempre sugli stessi strati della popolazione. Per questo figure come Elsa Fornero osservano che il nostro debito elevato deriva da scelte passate in cui si è speso a deficit senza tassare abbastanza i beneficiari. Far contribuire ora chi può sarebbe anche una forma di giustizia intergenerazionale. Un’altra dimensione è la durata e la finalizzazione del prelievo: Landini parla di un contributo annuale strutturale, altri (esponenti PD come Orfini nel 2020) ipotizzavano un intervento una tantum da incassare subito per iniziative straordinarie. In ogni caso, la destinazione dichiarata è ciò che lo rende “equo”: la patrimoniale non servirebbe a finanziare spese improduttive, ma a “restituire” ai cittadini sotto forma di servizi. A supporto viene spesso citato il caso spagnolo: la Spagna, con un governo progressista, ha introdotto nel 2022 una patrimoniale temporanea di solidarietà per i patrimoni >3 milioni, poi resa permanente, che nel primo anno ha fruttato oltre 1,3 miliardi di euro destinati in gran parte a misure contro il caro-energia e il sostegno alle fasce deboli. Secondo Pedro Sánchez, tassare “quelli che dormono su montagne di soldi” era doveroso per aiutare chi soffriva l’inflazione: un concetto che i favorevoli italiani fanno proprio, soprattutto alla luce dell’aumento dei costi della vita e dell’indigenza (5,7 milioni di persone in povertà assoluta). In sintesi, questa visione evidenzia il ruolo della patrimoniale come leva per reperire fondi necessari al bene comune: colmando il gap di finanziamento del welfare, si investe nel capitale umano e nella coesione sociale, gettando basi anche per uno sviluppo più inclusivo.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
03

Una patrimoniale rischierebbe di frenare la crescita economica e gli investimenti

CONTRARIO

Gli oppositori della patrimoniale sostengono innanzitutto che essa sarebbe deleteria per l’economia nazionale, frenando la crescita del PIL e la creazione di posti di lavoro. L’argomentazione parte dal principio base che tassare la ricchezza accumulata significa ridurre il rendimento del capitale, quindi disincentivare gli investimenti produttivi. In altre parole, se ogni anno una quota del patrimonio viene erosa dal fisco, i detentori di capitali saranno meno propensi a investirli in nuove imprese, innovazione o attività economiche, poiché il rendimento atteso viene decurtato dall’imposta. Meno investimenti equivalgono a meno crescita e minori opportunità occupazionali. L’economista Roberto Perotti ha parlato a tal proposito di “azzardo patrimoniale”, avvertendo che una tassa concepita male che riduce crescita e investimenti finirebbe per danneggiare “proprio le fasce più deboli” della popolazione. Il ragionamento è che, se una patrimoniale frena l’economia, i primi a pagarne il prezzo sono i lavoratori (meno assunzioni, salari più bassi) e le PMI legate alla domanda interna, mentre i ricchi troverebbero comunque modi per preservare il loro livello di vita. Perotti sottolinea come l’Italia abbia disperatamente bisogno di crescita e che già nel recente passato si siano spesi molti soldi pubblici in modo improduttivo (ad esempio 720 miliardi in spesa extra 2020-23, tra Superbonus e PNRR poco efficaci) che non hanno risolto i problemi strutturali; introdurre ora una patrimoniale equivarrebbe a tassare ulteriormente un’economia già debole, riducendone la competitività quando invece servirebbero misure pro-crescita. A supporto di questo timore, si citano studi macroeconomici: una simulazione riportata da “lavoce.info” calcola che negli Stati Uniti una patrimoniale rivolta all’1% più ricco ridurrebbe il PIL di circa $1,3 per ogni $1 di gettito ottenuto. Significa che il Paese nel complesso diventerebbe più povero di quanto il governo incasserebbe, un esito controproducente. Aghion, economista francese premio Nobel 2023, ha espresso preoccupazione sulla tassa Zucman in Francia, temendo che “punisca” l’innovazione e le startup in un momento storico in cui si dovrebbe invece incentivare i capitali pazienti per la crescita tecnologica. Anche in Italia, figure come l’ex premier Matteo Renzi hanno avvertito che parlare di aumentare le tasse (anziché ridurle) lancia un segnale sbagliato agli investitori e può accentuare il clima recessivo. L’economista Nicola Rossi ha sostenuto che è errato pensare di risolvere i problemi di finanza pubblica “sempre e comunque” con maggiori imposte: questo approccio scarica sui contribuenti la mancanza di coraggio della politica nel tagliare spese e inefficienze. Dal suo punto di vista (liberale), prima di tassare ulteriormente bisognerebbe rendere lo Stato più snello, altrimenti, tassare i patrimoni alimenta solo la spesa pubblica improduttiva e non risolve i mali strutturali. La patrimoniale viene anche definita una misura “ideologica”: la premier Meloni l’ha bollata come tassa con motivazioni “ideologiche” che colpisce un pilastro dell’economia italiana (il risparmio privato) e finirebbe per frenare investimenti e crescita. L’idea qui è che in Italia il risparmio familiare è sempre stato volàno di sviluppo (finanziando imprese, mutui ecc.), tassarlo sarebbe come segare il ramo su cui si è seduti, portando a un effetto recessivo. Dal lato delle imprese, Confindustria e altri attori economici avvertono che una patrimoniale danneggerebbe la fiducia: gli imprenditori potrebbero temere di vedere tassati i propri asset aziendali o personali, riducendo l’incentivo a reinvestire gli utili nell’attività produttiva. L’effetto psicologico negativo, con un’Italia percepita come Paese che penalizza la ricchezza e il successo, potrebbe tradursi in minor attrattività per investitori esteri, spingendo anzi i capitali a preferire destinazioni più friendly. Una delle critiche concrete è che, per come funzionano le patrimoniali, queste spesso colpiscono gli stock di ricchezza indipendentemente dal rendimento corrente. Se un bene è illiquido o temporaneamente a basso rendimento (si pensi a un immobile sfitto o a un’azienda che attraversa un anno difficile), la patrimoniale comunque si deve pagare. Ciò potrebbe costringere a liquidare parte del patrimonio o indebitarsi, indebolendo soggetti anche virtuosi. Serena Sileoni ha evidenziato, ad esempio, che tassare le proprietà immobiliari significa tassare anni di risparmi accumulati, ma se il proprietario non ha redditi liquidi sufficienti, rischia di dover vendere la casa per pagare la tassa, un esito paradossale e socialmente inaccettabile. Similmente, per un imprenditore agricolo con molta terra ma poca cassa, una patrimoniale potrebbe essere la rovina. Anche per questo in Paesi come la Francia si è deciso di limitare la wealth tax ai soli immobili (escludendo investimenti produttivi e finanziari per non scoraggiare l’economia). Gli oppositori italiani temono che, una volta aperta la porta alla patrimoniale, sarebbe difficile “dosarla”: inizialmente colpisce i super-ricchi, ma poi la base imponibile potrebbe allargarsi per esigenze di gettito, arrivando a coinvolgere categorie di risparmiatori benestanti ma non certo ricchi (ad esempio, famiglie con patrimonio >500mila € potrebbero essere considerate bersaglio in futuro). Questo spauracchio frena l’appetito per la proposta anche in parte del centrosinistra: difatti, come riportato da “Panorama”, diversi esponenti PD e M5S temono l’etichetta di “partito delle tasse” e la possibilità che una patrimoniale spaventi il ceto medio più di quanto aiuti i poveri. Infine, va considerato l’effetto su mercati finanziari e immobiliare: alcuni studi indicano che l’introduzione di una patrimoniale può portare a ribassi nei valori di borsa o degli immobili, perché gli investitori scontano il nuovo prelievo (ad esempio, prelievi analoghi in passato in Paesi scandinavi portarono a riduzioni del valore dichiarato dei patrimoni fino al 40% in pochi anni, segno di disinvestimenti o ricollocamenti). Questo potrebbe generare instabilità e una riduzione generale della ricchezza nazionale (cosiddetto “effetto patrimoniale negativo”). In sintesi, la patrimoniale, pur animata da buone intenzioni redistributive, finisce per indebolire il tessuto economico, riducendo crescita e investimenti, con ricadute negative proprio sull’occupazione e sui redditi medi. Si tratterebbe, secondo questa visione, di “un boomerang”: “colpire i ricchi per poi far star peggio i poveri”. Per evitare ciò, i critici suggeriscono che la via maestra debba essere invece stimolare la crescita (che aumenta redditi e gettito in modo sano) e aggredire la spesa pubblica inefficiente, anziché introdurre nuove tasse patrimoniali che rischiano di essere recessive.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
04

Fughe di capitali ed elusione vanificherebbero l’imposta

CONTRARIO

Uno degli argomenti più forti contro la patrimoniale è di carattere pragmatico: nel mondo globalizzato, i grandi patrimoni sono altamente mobili e assistiti da consulenti fiscali raffinati, per cui un Paese che introducesse una tassa del genere rischierebbe di non riuscire a coglierne il gettito, vedendoli semplicemente fuggire altrove o essere schermati con espedienti legali. La storia recente fornisce esempi eloquenti. In Francia, quando nel 2012 il governo Hollande aumentò la tassazione sui più ricchi, l’uomo più facoltoso del Paese, Bernard Arnault, tentò di trasferire la propria residenza in Belgio, scatenando polemiche patriottiche. Oggi, di fronte alla nuova proposta di Zucman (2% sopra 100 milioni), Arnault ha esplicitamente dichiarato che, se passasse sarebbe “mortale per l’economia” e che lui stesso potrebbe andarsene, togliendo allo Stato centinaia di milioni di entrate tributarie. Non è solo una minaccia astratta: dati del Henley Wealth Migration Report indicano che nel 2024 ben 128.000 milionari hanno cambiato paese (nuovo record), e che la Francia tra il 2000 e il 2017 ha perso circa 60.000 milionari, in buona parte a causa della vecchia patrimoniale. Questo trend prosegue e rischia di accelerare se Parigi inasprisce la tassazione sui ricchi. Ma “Parigi’s loss” può essere “Milano’s gain”: l’Italia stessa si è posizionata per attirare questi capitali in fuga, ad esempio con la flat tax per “non dom” (200mila € annui forfettari per ricconi stranieri residenti). Secondo il “Corriere”, quasi 4.000 individui alto-patrimonializzati hanno già optato per trasferirsi in Italia sfruttando questa agevolazione, portando qui ricchezza che spende su immobili di lusso, scuole private ecc. È ovvio cACAChe, se l’Italia introducesse una patrimoniale aggressiva, invertirebbe questo flusso: non solo smetterebbe di attirare milionari esteri, ma probabilmente vedrebbe scappare i propri. Per gli oppositori, è una forma di suicidio competitivo imporre unilateralmente una tassa patrimoniale in assenza di analoga volontà negli altri Paesi: si rischia di perdere i “big spender”, i cervelli e i capitali verso destinazioni più accoglienti. L’OCSE ha evidenziato che i super-ricchi possono facilmente utilizzare tax havens, trust, fondazioni e altri strumenti per celare la propria ricchezza. Ad esempio, creare holding in Paesi a bassa fiscalità e trasferirvi azioni e asset, oppure convertire il patrimonio in forme difficilmente tassabili (arte, criptovalute, diamanti) e custodirle offshore. La conseguenza è che spesso le patrimoniali realizzate in passato hanno raccolto molto meno del previsto: i patrimoni dichiarati scendono drasticamente perché i più facoltosi trovano vie di elusione. “Lavoce.info” ricorda il caso della Svezia: un aumento dell’aliquota patrimoniale di 1 punto portò a un calo del 43% nella ricchezza dichiarata in pochi anni, segno che i ricchi reagirono spostando soldi altrove o dichiarando di meno (vendendo o occultando beni). Questo fenomeno può rendere quasi inutile l’imposta: se un miliardario trasferisce residenza nel giro di una notte a Montecarlo, l’Italia non vedrà un euro, anzi perderà pure quanto quel soggetto pagava prima in altre imposte. Anche all’interno dell’UE vi sono opportunità di arbitraggio fiscale: Svizzera (non UE ma in Europa) e UK sono mete storiche di rifugio per grandi patrimoni (la Svizzera ha attratto numerosi milionari norvegesi scontenti della wealth tax al punto che il governo di Oslo è sotto pressione, con il primo ministro Støre costretto a difendere la patrimoniale che “divide la Norvegia” di fronte all’emorragia di super-ricchi verso cantoni elvetici). All’interno della UE, invece, l’assenza di frontiere per le persone facilita spostamenti di convenienza: un contribuente molto benestante può trasferire la residenza fiscale in Portogallo (che offre regimi non dom e 0% su redditi esteri per 10 anni), o a Dubai, fuori UE, e continuare a gestire i propri affari globali. La tesi “fuga di capitali” fu usata in passato per abolire varie patrimoniali: in Germania la tassa patrimoniale è stata eliminata nel 1997 anche perché giudicata incostituzionale (doppia imposizione sui beni) ma soprattutto perché si temeva la perdita di competitività rispetto ai vicini. Analogamente Austria e Danimarca la tolsero negli anni ’90. I contrari avvertono che l’Italia, che già soffre di investimenti esteri bassi, non può permettersi di spaventando gli investitori. C’è poi un discorso di attuabilità pratica: per i patrimoni più facilmente trasportabili (denaro, titoli) l’elusione è dietro l’angolo; per quelli illiquidi (es. immobili) c’è il rischio di svendite e trasferimenti di proprietà a prestanome in altri Paesi. Un altro esempio concreto è l’effetto sui professionisti mobili: introducendo una patrimoniale, si potrebbe incentivare medici, manager e altri ad emigrare verso Paesi a fiscalità più mite, portando via competenze e gettito. Tale “fuga dei cervelli ricchi” è un danno collaterale a volte trascurato ma reale (basti pensare a calciatori di alto livello o imprenditori digitali che scelgono dove risiedere in base al fisco). Sul fronte delle imprese, se la patrimoniale colpisce anche partecipazioni societarie o riserve, le aziende potrebbero delocalizzare sede legale all’estero. Giuliana Ferraino sul Corriere evidenzia come “l’Italia ha tutte le carte in regola per diventare la nuova casa dei grandi patrimoni europei” grazie al suo regime fiscale agevolato per ricchi; invertire tale posizione potrebbe farle perdere quel vantaggio appena guadagnato. Anche alcuni economisti di sinistra ammettono questo problema: Piketty propone infatti una patrimoniale minima europea proprio per evitare competizione tra paesi, conscio che, se un solo paese tassasse molto i ricchi, questi migrerebbero in massa. In mancanza di coordinamento, i contrari chiedono di non fare harakiri da soli. La vicenda di Arnault è spesso citata come monito: di fronte a tasse ritenute eccessive, il secondo uomo più ricco del mondo non ha remore a portare altrove il suo impero (e con sé centinaia di milioni di gettito). E quell’impero potrebbe trovare sede in Italia come rifugio (è un paradosso che l’Italia pensi di tassare di più i propri ricchi mentre offre flat tax agli stranieri come Arnault). L’IMF (Fondo Monetario) nel suo manuale per i governi è chiaro: “le preoccupazioni per le disuguaglianze di ricchezza non implicano che si debba usare per forza la tassa patrimoniale”, anzi migliorare la tassazione dei redditi da capitale è di solito più efficiente, implicando che la patrimoniale rischia di essere inefficace se i capitali scappano. Un aspetto ulteriore è l’elusione interna: i ricchi potrebbero rimodulare i loro investimenti per sfuggire alla base imponibile. Ad esempio, se la patrimoniale esenta (come spesso accade) i titoli di Stato per non penalizzare il debito pubblico, i ricchi compreranno più BTP e meno azioni; oppure punteranno su asset esentati (ad esempio arte, che spesso non viene tassata). Questo altera le allocazioni di capitale generando inefficienze senza raccogliere più tasse. L’OCSE nota che una patrimoniale “è spesso aggirata tramite la collocazione di asset in trust, in oggetti da collezione difficili da valutare, o la domiciliazione in giurisdizioni offshore”. Così, l’imposta rischierebbe di tradursi in un flop: tanto clamore per pochi spiccioli incassati, a fronte però di un danno reputazionale e reale per il sistema-Paese. Il senatore Carlo Cottarelli ha riassunto il concetto dicendo che in situazioni di emergenza nulla va escluso, “ma l’Italia oggi non è in una crisi così profonda” da giustificare misure straordinarie che possono indurre fuga di capitali. Meglio quindi evitare interventi che spaventano la ricchezza mobile, concentrandosi su modi più intelligenti di far contribuire i benestanti senza spingerli a fare i bagagli.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
05

Servirebbe un’armonizzazione europea e una tassazione globale della ricchezza

FAVOREVOLE

I sostenitori della patrimoniale sottolineano che l’Italia non sarebbe un caso isolato: esiste un movimento internazionale verso una maggiore tassazione delle grandi ricchezze e una misura coordinata in ambito europeo ridurrebbe i rischi di fuga di capitali, massimizzando al contempo l’efficacia redistributiva. La leader PD Elly Schlein ha affermato di essere “a favore di una tassazione europea” sui milionari e miliardari, proprio perché i capitali “viaggiano molto più velocemente delle persone” e una soluzione sovranazionale garantirebbe uniformità ed equità. Questa posizione riflette il lavoro di economisti come Gabriel Zucman, che nel marzo 2025 (Osservatorio Fiscale Europeo) hanno proposto un modello di “patrimoniale europea” sui super-ricchi: si ipotizza un prelievo tra il 2% e il 3% per patrimoni eccezionalmente elevati (sopra i 100 milioni o 1 miliardo di euro). Tale imposta, se applicata uniformemente in UE, potrebbe raccogliere cifre ingenti (uno studio stima ~67 miliardi di euro l’anno con un’aliquota 2% sui miliardari europei). In pratica, argomentano i fautori, i grandi patrimoni sono ormai fenomeno transnazionale e vanno affrontati con politiche fiscali condivise: un ricco contribuente non avrebbe incentivo a spostare la residenza se trova regole simili in tutti i Paesi dell’Unione. L’armonizzazione renderebbe la tassazione più efficace e stabile. Del resto, già oggi alcune nazioni europee adottano patrimoniali significative: la Norvegia (pur fuori dall’UE) preleva lo ~1,1% annuo sui patrimoni oltre circa 150mila €; la Spagna ha un’imposta progressiva che arriva al 3,5% oltre i 10 milioni €, più una sovrattassa di solidarietà statale per i più ricchi introdotta di recente. Perché l’Italia dovrebbe essere da meno, soprattutto se coordinasse i suoi passi con questi paesi? I sostenitori segnalano che esiste già un quadro di cooperazione fiscale internazionale in evoluzione: il G20 Finanze 2024, sotto presidenza brasiliana, ha ufficialmente riconosciuto la necessità di meccanismi più progressivi di tassazione globale dei ricchi. Questo implica che un consenso politico mondiale sul tema sta emergendo, simile a quello che ha portato all’accordo OCSE sulla minimum tax alle multinazionali. Proporre una patrimoniale in Italia, dunque, non è affatto uno scatto isolato anti-impresa, ma si inserisce in un trend verso una “global wealth tax” di cui parlano premi Nobel e centri studi. L’economista Thomas Piketty – tra i primi a lanciare l’idea di un’imposta globale progressiva sulla ricchezza – ha spesso ribadito che, se coordinata internazionalmente, una wealth tax potrebbe raggiungere traguardi ridistributivi impensabili per le singole nazioni, creando un circolo virtuoso di investimenti in beni pubblici globali (lotta al cambiamento climatico, piani di sviluppo sostenibile ecc.). In attesa di schemi globali, l’Unione Europea è il livello adeguato per iniziare: Schlein e altre forze progressiste europee premono affinché Bruxelles consideri un’iniziativa comune, se non altro per evitare concorrenza fiscale interna. Sul fronte interno, si fa notare che l’Italia ha già normative che attraggono i ricchi stranieri (la flat tax da 100-150.000 € per nuovi residenti facoltosi), ma ciò non esclude che parallelamente possa chiedere un contributo ai propri ultraricchi. Anzi, alcuni sostengono che un accordo europeo sulla patrimoniale renderebbe obsoleti questi regimi di favore, stabilizzando il gettito e impedendo arbitraggi. Inoltre, il confronto internazionale smonta l’idea che una patrimoniale sia “una follia da cui tutti scappano”: in Svizzera esiste da decenni a livello cantonale, eppure la Svizzera attrae capitali; la Francia, pur avendo ridotto la propria impôt sur la fortune nel 2018, sta seriamente dibattendo una sua reintroduzione mirata ai miliardari, segno che la questione è aperta anche in economie avanzate (e alcuni miliardari patriottici francesi, come l’imprenditore Stéphane Distinguin, hanno pubblicamente dichiarato di volere una patrimoniale per contribuire al Paese). Gli assertori italiani citano pure il caso della Spagna come esempio politico: la manovra spagnola 2023 ha alzato le tasse ai redditi alti e varato la patrimoniale di solidarietà sulle grandi fortune, mostrando che “si può fare” senza cataclismi economici. Maurizio Landini ha enfatizzato che “in Spagna stanno facendo qualcosa di sinistra” e che l’Italia dovrebbe seguirne l’esempio. Questa armonia con modelli stranieri serve anche come argomento “difensivo”: se investitori volessero abbandonare l’Italia per sfuggire alla patrimoniale, dove andrebbero se misure analoghe esistono o stanno arrivando altrove? L’imposizione omogenea eviterebbe le cosiddette “race to the bottom” (gare a chi tassa meno i ricchi). Dunque, la patrimoniale, da attuare preferibilmente in un quadro comune europeo, sarebbe uno strumento di giustizia fiscale globale: recuperare risorse da chi spesso contribuisce meno di quanto dovrebbe, data la facilità con cui sfrutta regimi di favore e paradisi fiscali. E su questo orizzonte sovranazionale vi è ormai consapevolezza: il FMI stesso, pur non entusiasta delle patrimoniali generalizzate, ammette che c’è margine per far pagare di più i ricchissimi, ad esempio eliminando sacche di elusione sui capital gain e introducendo exit tax per chi emigra. La patrimoniale può essere vista come parte di questo pacchetto di riforme internazionali volte a garantire che i “Paperoni” contribuiscano almeno quanto gli altri gruppi sociali. Per i proponenti, insomma, tassare la ricchezza (coordinandosi con gli alleati) non è estremismo, ma semplice aggiornamento del patto fiscale democratico ai tempi della globalizzazione finanziaria.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
06

La patrimoniale porterebbe un gettito limitato. Ci sono alternative fiscali più efficaci

CONTRARIO

Un ulteriore punto critico sollevato dagli oppositori è che le imposte patrimoniali, per loro natura, generano entrate piuttosto modeste rispetto alle aspettative, specialmente se disegnate per colpire solo i grandi ricchi. Ciò le renderebbe un esercizio più simbolico che sostanziale, mentre esistono altre leve fiscali potenzialmente più fruttuose e meno problematiche. Uno sguardo ai Paesi che mantengono patrimoniali conferma la scarsa resa: in Spagna, dove l’aliquota può arrivare al 3.5% oltre i 10 milioni, il gettito complessivo dell’Impuesto sobre el Patrimonio è stato di circa €1,5 miliardi, una cifra importante ma pari a circa lo 0,1% del PIL, praticamente irrilevante per i conti pubblici (e comunque ottenuta sommando la tassa ordinaria regionale e la nuova “imposta di solidarietà” statale). In Svizzera, i cantoni incassano dallo wealth tax locale in media lo 0,3-0,4% del PIL. In Norvegia, la patrimoniale porta circa €1,3 miliardi (0,3% PIL). Questi importi sono decimali rispetto ai volumi di spesa pubblica o di deficit. “Reuters sintetizza: “le patrimoniali generano tipicamente pochi decimali di PIL di gettito”, perché base ristretta e facilmente erosa. Se in Italia avesse lo stesso ordine di grandezza (0,2-0,3% PIL), significherebbe 4-6 miliardi l’anno: ben lontani dagli ottimistici 20-30 miliardi talvolta citati dai proponenti. E questo se la tassa fosse permanente; se fosse una tantum, sarebbe un gettito unico non ripetibile. Inoltre, per ottenere somme significative, bisognerebbe tararla su soglie più basse o con aliquote più alte, colpendo però così anche il ceto medio-alto e rischiando maggiori effetti distorsivi. Dunque, secondo i contrari, la patrimoniale non avrebbe effetti decisivi: provoca reazioni e costi ma non risolve i problemi di bilancio né alimenta davvero il welfare in modo sostenuto. Esistono invece alternative fiscali più efficaci e meno costose in termini di effetti negativi. Una delle principali è il miglioramento della tassazione sui redditi da capitale e sulle eredità. Il FMI, ad esempio, ha chiaramente suggerito che incrementare la tassazione dei capital gains e dei dividendi può essere sia più equo sia più efficiente di una wealth tax netta. Questo perché le imposte sui redditi di capitale colpiscono gli utili effettivamente realizzati, evitando il problema di tassare patrimonio che magari non genera flusso di cassa; inoltre inseguono la ricchezza “dinamica” dove si manifesta come reddito, riducendo alcuni tipi di elusione. Molti economisti liberali e riformisti, da Nicola Rossi a Tommaso Di Tanno, sostengono che sia preferibile tassare i frutti della ricchezza anziché la ricchezza in sé. Tradotto: alzare l’aliquota su dividendi, interessi, plusvalenze, magari equiparandola a quella sui redditi da lavoro (oggi in Italia al 26% flat, si potrebbe portare ad esempio al 30-35% progressivo), oppure eliminare certe esenzioni (ad esempio la plusvalenza su vendita di prima casa che in alcuni casi arricchisce molto senza imposta). Un altro fronte è l’imposta di successione: l’Italia ha oggi tasse di successione molto basse (4% per eredi diretti con franchigia di 1 milione a testa, 0% per coniuge su casa principale ecc.). Molti suggeriscono di aumentare significativamente la tassa di successione sui grandi patrimoni ereditari come misura più mirata e accettabile socialmente. In quel caso, infatti, non si penalizza l’imprenditore in vita, ma si prende una quota consistente quando la ricchezza passa agli eredi (evitando così di colpire eventualmente l’attività produttiva in corso). Tassare pesantemente le eredità multimilionarie migliora la mobilità sociale senza scoraggiare investimenti. Ad esempio, Joe Biden negli USA e vari economisti in Europa preferiscono proporre una robusta estate tax sui super-ricchi piuttosto che patrimoniali annuali. L’OCSE stessa nel rapporto 2018 notava che dove esistono buone imposte di successione e capital gains, la patrimoniale netta risulta ridondante e distorsiva. Un ulteriore punto è che l’Italia già ha margine per ridurre l’evasione fiscale tradizionale prima di cercare nuove imposte: Carlo Cottarelli ha più volte evidenziato come recuperare anche solo una parte dei ~100 miliardi annui di evasione sarebbe ben più fruttuoso di una patrimoniale. In quest’ottica, rafforzare i controlli e digitalizzare il fisco potrebbe portare entrate aggiuntive strutturali superiori a quelle di una nuova tassa che colpisce pochi soggetti. Giorgia Meloni e il suo ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti insistono che la via preferibile è allargare la base imponibile (cioè far pagare chi oggi evade) e puntare sulla crescita per aumentare il gettito, piuttosto che introdurre nuovi tributi straordinari. Allargando lo sguardo, i critici evidenziano che la maggior parte dei Paesi avanzati ha eliminato le wealth tax generali negli ultimi 30 anni perché ritenute inefficienti e complicate per il poco che rendevano. Germania, Svezia, Olanda, Canada, Giappone, tutti avevano patrimoniali decenni fa e vi hanno rinunciato, preferendo altre forme di tassazione. In Svezia la tassa patrimoniale fu rimossa nel 2007 dopo aver calcolato che in alcuni casi il costo di compliance e i capitali persi superavano il gettito. In UK si discute se introdurla, ma il governo alla fine ha preferito aumentare l’imposta sui dividendi e ridurre esenzioni sulle plusvalenze (2022-23) perché misure più mirate. “Reuters” riporta anche come Gran Bretagna e Francia stiano riflettendo su come far pagare di più i ricchi per ridurre i deficit, ma gli esperti consiglino di guardare ad aliquote sui redditi da capitale e ai “trucchi” legali dei miliardari anziché a un’imposta patrimoniale piena. In Francia, ad esempio, Zucman propone la patrimoniale ma altri economisti (come Gollier e Levy su “Le Figaro”) hanno obiettato che non risolverebbe certo il problema del debito francese e che servono invece riforme strutturali. In Italia, analogamente, Antonio Misiani (responsabile economico PD) ha sottolineato che il governo Meloni ha già portato la pressione fiscale al massimo decennale (42,8% del PIL) e che sarebbe più utile redistribuire in altro modo, ad esempio, aumentando la tassazione delle rendite finanziarie e rendendo più progressiva l’aliquota sui redditi da capitale, piuttosto che insistere su una patrimoniale in senso stretto. Questo sarebbe politicamente più vendibile e concettualmente più solido (si tassa un flusso reddituale). I detrattori vedono poi un rischio: una volta introdotta una patrimoniale, potrebbe scattare la tentazione di aumentarla o abbassare le soglie per far cassa, finendo per colpire non solo i “paperoni” ma ad esempio chi ha un patrimonio di qualche centinaio di migliaia di euro (una casa di valore e un po’ di risparmi per la pensione). Ciò la trasformerebbe in una tassa sui ceti medi, con potenziale impopolarità e ingiustizia. Meglio allora non aprire quel vaso di Pandora e piuttosto perseguire i benestanti con le leve fiscali già esistenti. Serena Sileoni suggerisce di concentrare semmai l’attenzione su “tassare i proventi” della ricchezza: un ricco ha spesso grandi rendite finanziarie e immobiliari, si alzino quelle imposte (oggi, come ricordano i contrari, l’Italia tassa le rendite finanziarie al 26% e i canoni di locazione con cedolare 21%, aliquote ben inferiori a quelle IRPEF sui redditi medio-alti). Infine, c’è il concetto di costo politico: varare una patrimoniale è impopolare e polarizzante; i governi che l’hanno fatto (Hollande in Francia) ne hanno pagato il prezzo in termini di fuga di capitali e reazioni negative. Forse è più saggio ottenere risultati simili con misure meno clamorose ma efficaci: ad esempio, l’OCSE cita l’eliminazione delle esenzioni sulle plusvalenze immobiliari e la tassazione all’uscita per chi trasferisce residenza in un paradiso fiscale. Tali misure colpiscono proprio i super-ricchi che vogliono sfuggire, garantendo equità, e probabilmente incassando di più in un decennio di quanto farebbe una fugace patrimoniale nazionale. Dunque, la patrimoniale netta sarebbe un’arma spuntata: tanto rumore per poco risultato. Invece, conviene usare armi più affilate: tassare di più i redditi da capitale (perché lì c’è margine, essendo oggi favoriti), rafforzare le imposte di successione (così si colpiscono le rendite ereditarie senza scoraggiare l’attività in vita) e combattere seriamente evasione ed elusione (dove l’Italia ha da recuperare decine di miliardi). Così si centrerebbe l’obiettivo di far contribuire i benestanti al benessere comune, senza i controeffetti e le complicazioni che una patrimoniale comporterebbe.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
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La patrimoniale può correggere le distorsioni del sistema fiscale e recuperare basi imponibili nascoste

FAVOREVOLE

Un ulteriore argomento a favore riguarda la capacità della patrimoniale di rendere più progressivo e razionale l’intero sistema tributario italiano, colpendo aree di ricchezza oggi sotto-tassate o occultate. Molti osservatori notano che il nostro fisco è paradossalmente meno gravoso, in proporzione, per chi ha redditi da capitale elevati rispetto a chi vive di solo lavoro. Ad esempio, il “Corriere della Sera” ha riportato un’analisi secondo cui il sistema italiano risulta “tra i più regressivi”: le aliquote effettive sui redditi da capitale (dividendi, rendite finanziarie) sono più basse di quelle sui redditi da lavoro e ciò avvantaggia proprio il 7% più ricco della popolazione. In pratica, attualmente chi genera grandi profitti finanziari spesso riesce a pagarci il 26% fisso (o anche meno con pianificazioni) mentre un normale professionista può arrivare al 43% di IRPEF sul suo reddito. Una patrimoniale servirebbe proprio a riequilibrare questo squilibrio. Tassare il patrimonio netto di una persona (ossia l’insieme di beni e investimenti detenuti) integra infatti l’approccio classico basato sui redditi annuali dichiarati e consente di intercettare chi gode di ricchezza al di là di un reddito eventualmente modesto o ben ottimizzato fiscalmente. Un caso tipico è quello dei grandi patrimoni ereditati o frutto di capital gain tassati poco: un miliardario può dichiarare “ufficialmente” un reddito modesto (stipendio, cedole) e vivere di incrementi patrimoniali, pagando poche tasse; una patrimoniale lo obbligherebbe a contribuire di più in base alla ricchezza reale posseduta. Questo migliora la progressività complessiva del sistema: come afferma la Costituzione, si deve concorrere alle spese pubbliche secondo la propria capacità contributiva e il patrimonio è chiaramente una dimensione della capacità economica. Ernesto Ruffini, ex capo dell’Agenzia Entrate, pur scettico su patrimoniali “spot”, ha evidenziato un dato imbarazzante: in Italia “redditi del ceto medio, da 50.000 euro, sono colpiti con la stessa aliquota di redditi milionari”, segno che il sistema attuale non è progressivo ai livelli alti. Ciò è dovuto ai vari scaglioni esauriti e al fatto che redditi molto alti spesso provengono da capitale (in regime di flat tax). Una patrimoniale permanente sui super-ricchi o un forte aumento delle imposte di successione sui grandi patrimoni ripristinerebbe la logica per cui chi sta all’apice della piramide paga di più non solo in valore assoluto ma anche in percentuale, come avviene invece per i redditi medi. Un altro aspetto fondamentale è il contrasto all’evasione e all’illegalità. Una certa parte della grande ricchezza in Italia, si sospetta, deriva da evasione fiscale pregressa, proventi illeciti o economia sommersa. Una patrimoniale ben progettata potrebbe stanare queste ricchezze incongrue. L’Associazione ARDeP, ad esempio, propone di tassare solo i patrimoni “di cui non è possibile dimostrare la provenienza lecita”: in pratica incrociando il patrimonio accumulato con i redditi dichiarati nel corso del tempo, si individua la quota che non trova giustificazione (spesso frutto di nero) e la si colpisce. Questo funzionerebbe come un potente incentivo all’emersione: chi negli anni ha occultato redditi all’estero o in attività fittizie sarebbe spinto a regolarizzarli prima di incorrere nel prelievo. Il messaggio sarebbe che il tempo dell’impunità fiscale per i grandi evasori è finito. Anche in assenza di formule così selettive, la patrimoniale in generale crea un’anagrafe patrimoniale che aiuta il fisco a mappare ricchezze e possedimenti, rendendo più difficile nasconderli. Vale pure per i beni di lusso: oggi c’è chi possiede yacht, gioielli, opere d’arte di immenso valore contribuendo poco al fisco; una patrimoniale costringerebbe a dichiarare anche quei cespiti, pena sanzioni severe. La prospettiva di dover pagare una tassa annuale su questi beni potrebbe spingere ad esempio a vendere quelli acquisiti con soldi non dichiarati (facendo emergere capitali). Insomma, da strumento statico di gettito la patrimoniale può trasformarsi in dinamico strumento di compliance fiscale e di moral suasion verso i contribuenti più ricchi, perché li costringe a mettere sul tavolo il quadro reale delle loro finanze. L’Italia già applica imposte patrimoniali settoriali (le cosiddette “patrimonialine”): dieci diverse voci, dall’IMU al bollo auto al canone RAI, generano entrate non trascurabili. Tuttavia, questi micro-tributi colpiscono anche patrimoni medio-piccoli (come la seconda casa di valore modesto) e non affrontano il cuore del problema: i grandi agglomerati di ricchezza finanziaria. Con una patrimoniale generale sui multimilionari, si potrebbe sostituire o ridurre alcune di queste micro-imposte, razionalizzando il sistema. Ad esempio, c’è chi propone di eliminare l’IMU sulla prima casa e l’imposta di bollo sui conti correnti in cambio di una patrimoniale personale sopra una certa soglia. Questo renderebbe il sistema più semplice e mirato. Infine, un elemento di correzione di distorsione riguarda le rendite parassitarie. Secondo alcuni economisti, se una persona è ricca grazie a posizioni monopolistiche o eredità, tassarne la ricchezza non provoca danni ma anzi migliora l’efficienza allocativa (riduce incentivi a mantenere asset improduttivi). La ricerca citata da Bisin e Cremonini mostra che se i super-profitti dei ricchi riflettono soprattutto rendite e non creazione di valore, una wealth tax può perfino aumentare la produttività aggregata spostando capitali verso usi più produttivi. In altri termini, se un miliardario guadagna da posizioni di rendita (affitti da grandi immobili, royalties ecc.), tassarlo lo spinge a investire meglio o a mettere in circolo quei capitali piuttosto che tenerli immobilizzati. Maurizio Landini insiste molto su questo concetto di riequilibrio strutturale: a suo dire, in Italia negli ultimi decenni è aumentata la quota di ricchezza indipendente dal lavoro, e “non si può continuare a far finta che non sia un problema centrale”. Bisogna “cambiare un sistema fiscale che favorisce questo processo”. In altre parole, per i sostenitori la patrimoniale è anche un modo per orientare l’economia verso una maggiore meritocrazia e produttività: premiare chi genera reddito con il proprio lavoro e impresa e tassare invece la ricchezza derivante da accumuli pregressi o rendite. Con effetti virtuosi anche sul piano etico-civile: un fisco percepito come più equo (dove i furbi e gli enormemente ricchi finalmente pagano la loro parte) migliora la fedeltà fiscale di tutti e rafforza il patto sociale. Perciò i pro-patrimoniale sostengono che questa imposta, lungi dall’essere uno strumento “antiricchezza”, è in realtà pro-sistema: rendendo le regole uguali per tutti, aumenta la fiducia e diminuisce quell’alone di ingiustizia che alimenta evasione e conflitto sociale.

Nina Celli, 20 novembre 2025

 
08

La pressione fiscale è già elevata, una doppia imposizione sarebbe ingiusta

CONTRARIO

Un ultimo filone argomentativo contrario enfatizza il contesto italiano di tassazione già molto alta e la questione del principio di evitare una doppia imposizione. L’Italia è notoriamente tra i Paesi europei con pressione fiscale più elevata, attorno al 43% del PIL. Secondo gli oppositori, introdurre un nuovo tributo patrimoniale equivarrebbe a dare un segnale di “tassazione senza fine”, alimentando un sentimento di esasperazione in contribuenti che già versano una quota consistente del proprio reddito allo Stato. Questo potrebbe minare ulteriormente la fiducia nel fisco e incentivare comportamenti elusivi o emigratori. La patrimoniale sarebbe percepita come l’ennesimo balzello in un “inferno fiscale” dove chi produce ricchezza è costantemente tartassato: narrazione su cui la destra fa leva definendola una “tassa ideologica” di una sinistra che sa solo aumentare le tasse. Un concetto chiave espresso ad esempio da Carlo Cottarelli è quello della doppia imposizione: “la ricchezza è frutto di un risparmio, che è frutto di un reddito già tassato una volta. Quindi si tasserebbe due volte lo stesso reddito”. Chi oggi possiede un patrimonio (case, azioni, liquidità) in larga parte lo ha accumulato tramite redditi che nel corso degli anni hanno scontato IRPEF, IRES, IVA ecc. Una patrimoniale andrebbe quindi a colpire risorse post-fisco, e ciò è considerato da molti intrinsecamente iniquo. Questo punisce indirettamente il comportamento virtuoso del risparmio. Il risparmio privato in Italia ha inoltre una valenza culturale e costituzionale: l’art.47 della Costituzione incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme. Serena Sileoni richiama proprio questo per sostenere che una patrimoniale, specie su immobili (spesso frutto di risparmi di una vita), rischia di violare lo spirito costituzionale e rompere un patto implicito con i cittadini. La casa e il conto in banca sono percepiti come un cuscinetto di sicurezza per il futuro: tassarli straordinariamente appare, agli occhi di molti italiani, come atto ostile e predatorio da parte dello Stato, quasi un esproprio. Questo ricordo è vivido dal 1992: il prelievo forzoso di Amato (6 per mille notturno) fu vissuto come un tradimento e ancora oggi il solo termine “patrimoniale” evoca quella ferita. “Panorama” ha definito quell’episodio “una rapina storica” e rileva come ancora oggi rimanga in parte segreto (verbali secretati) alimentando la diffidenza. Dunque, la resistenza psicologica e politica a una nuova patrimoniale è fortissima: significherebbe, per molti italiani, che i loro risparmi non sono mai al sicuro dall’ingerenza del fisco. Per questo anche partiti di sinistra moderata rifuggono dal termine: come notato, la segreteria PD preferisce parlare di tasse sulle rendite o “contributo europeo sui miliardari”, proprio perché “guai a parlare di patrimoniale”. C’è il timore di alienarsi il voto del ceto medio e di riproporre l’incubo degli anni ’90. I critici sottolineano che, per quanto oggi si prometta che colpirebbe solo l’1% super-ricco, una patrimoniale rischia nel tempo di scendere come soglia o comunque di avere effetti a cascata sul valore degli asset posseduti anche dal ceto medio (ad esempio, se una patrimoniale fa calare i valori immobiliari, a rimetterci è anche la famiglia media proprietaria di casa). Inoltre, c’è il timore che sia l’inizio di una “china tassatoria”: oggi 1% sui ricchissimi, domani magari 2% su un po’ meno ricchi ecc. Chi possiede un patrimonio di qualche milione, magari frutto della vendita di un’attività dopo una vita di lavoro, si chiede se diverrebbe il prossimo bersaglio. Questi dubbi alimentano un sentimento di insicurezza che mal si concilia con la stabilità economica: Matilde Siracusano (Forza Italia) ha detto che “sentir parlare di patrimoniale mi fa venire i brividi. In Italia la pressione fiscale è già opprimente”, evidenziando come l’azione del governo invece punti all’opposto: flat tax e riduzione del carico su famiglie, lavoratori e imprese. Se un contribuente percepisce di essere già tartassato, la minaccia di un’ulteriore tassa sul patrimonio può portarlo all’esasperazione fiscale: maggiore evasione (cercare di occultare patrimoni anticipatamente), disinvestire dall’Italia, o nel caso di imprese ridurre attività e occupazione per accumulare meno (per evitare di essere tassato sul capitale). Giuseppe Conte, pur leader progressista, ha detto chiaramente: “non è all’ordine del giorno”, dando da intendere che parlare di patrimoniale è un suicidio politico oltre che inutile economicamente. Un’altra critica spesso mossa è che la patrimoniale colpisce indiscriminatamente il valore del patrimonio lordo, e ciò può generare ingiustizie perché non tiene conto delle passività. Ad esempio, una casa vale 500k euro, ma il proprietario ha ancora un mutuo di 300k: il suo patrimonio netto reale è 200k, però formalmente potrebbe ricadere in una fascia tassabile. Oppure, un imprenditore può avere beni aziendali ingenti ma anche debiti correlati. Una patrimoniale mal calibrata rischierebbe di colpire il “frutto dei risparmi” senza considerare eventuali indebitamenti e oneri in essere. Già l’IMU sulla seconda casa è percepita come ingiusta da molti piccoli proprietari, figurarsi una tassa aggiuntiva su tutto il patrimonio mobiliare e immobiliare. Non c’è giustificazione sufficiente per introdurre una nuova tassa generale in un Paese che ha pressione fiscale altissima e un sistema che già strappa oltre 40 centesimi di ogni euro prodotto. Servirebbe semmai una riforma per razionalizzare le tasse, non per aggiungerne. L’appello è piuttosto a tagliare gli sprechi e riformare la spesa pubblica: Nicola Rossi sostiene che qualunque governo dovrebbe prima “aggredire la spesa” e fare scelte difficili su tagli, invece di trovare la scorciatoia di prendere altri soldi dai cittadini. Senza questo lavoro a monte, la patrimoniale apparirebbe solo come “mettere nuove tasse per non toccare la spesa”, un segnale di resa della politica di fronte ai veri problemi. Come dice Rossi, “il regno dell’irresponsabilità della politica” è fissare il livello di spesa e poi definire le tasse per coprirla; lui propone il contrario: decidere quante tasse complessivamente i cittadini possono sopportare (in Italia già tante) e su quella base limitare la spesa. Inserirsi con un’ennesima imposta romperebbe questa logica, scaricando ancora sul contribuente finale. Spesso chi invoca la patrimoniale dice che colpirà “i super ricchi”, ma poi finisce per tartassare quello che la Lega chiama il “ceto medio risparmiatore”. Non a caso, persino un esponente di sinistra come Piero De Luca (PD) ha tenuto a specificare: “il PD non ha presentato nessuna proposta di patrimoniale”, sottolineando invece che le vere patrimoniali sono state quelle del governo di destra con la sua pressione fiscale record. Questo riflette il timore che la narrazione anti-patrimoniale abbia presa sull’elettorato medio, convincendo che la sinistra voglia “mettere le mani nei conti” degli italiani onesti. Un rischio politico enorme che inficia la praticabilità della misura.

Nina Celli, 20 novembre 2025

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