Nr. 406
Pubblicato il 15/11/2025

Famiglia nel bosco: è giusto togliere la patria potestà?

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Una coppia anglosassone – lei australiana, lui britannico – ha scelto di vivere con i tre figli piccoli in un bosco dell’entroterra abruzzese, in un’ex casa colonica isolata, senza acqua corrente né elettricità. Dal settembre 2024 la vicenda è diventata un caso nazionale: in quella data l’intera famiglia finì in ospedale per un’intossicazione da funghi raccolti nel bosco. Durante i soccorsi, i Carabinieri ispezionarono l’abitazione descrivendola come un rudere fatiscente privo di servizi igienici e utenze di base. Scattò la segnalazione ai servizi sociali e, dopo vari sopralluoghi a sorpresa, emersero elementi considerati preoccupanti: i bambini (una bimba di 8 anni e due gemelli di 6) non vanno a scuola né risultano seguiti da un pediatra; la famiglia vive in condizioni “non salubri” in isolamento socioculturale, in una struttura lesionata giudicata inadeguata ad accogliere minori. I genitori praticano l’unschooling: istruzione interamente parentale, senza frequenza scolastica né programmi obbligatori, basata sull’apprendimento libero attraverso la vita quotidiana. In Italia l’istruzione parentale è legale, ma a condizione che i genitori dichiarino di avere i mezzi per istruire i figli e li sottopongano ogni anno a un esame di idoneità presso una scuola pubblica. Questo caso ha sollevato interrogativi proprio sul rispetto di tali obblighi: l’homeschooling richiede verifiche annuali formali, che l’unschooling “puro” spesso rifiuta, rischiando di configurare un’inadempienza educativa perseguibile per legge.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Per quanto giuste siano le convinzioni dei genitori, l’interesse dei minori viene prima di tutto

L’interesse superiore dei bambini deve prevalere sulle scelte dei genitori. Se salute, istruzione e sviluppo sociale sono a rischio, lo Stato deve intervenire.

02 - Va tutelata la libertà di scelta familiare e la diversità culturale

I genitori hanno il diritto di scegliere uno stile di vita alternativo ed educare i figli in casa. Punirli per una scelta non violenta e consapevole è una grave interferenza statale.

03 - La famiglia nel bosco vive in un ambiente estremo e i bimbi sono a rischio abbandono

Vivere senza acqua corrente, servizi igienici né cure mediche costanti è pericoloso. La patria potestà va sospesa quando l’ambiente familiare espone i bambini a rischi evitabili.

04 - I bambini non hanno subito abusi, sottrarli ai genitori sarebbe “violenza di Stato”

Non c’è maltrattamento né degrado morale. Sottrarre i figli sarebbe una “violenza di Stato” ingiustificata, più traumatica delle presunte carenze contestate.

05 - Lo Stato dovrebbe mantenere l’unità familiare con supporto, non punire

I bambini della “famiglia nel bosco” stanno bene e sono seguiti con amore. Allontanarli significherebbe spezzare un equilibrio senza vera necessità.

 
01

Per quanto giuste siano le convinzioni dei genitori, l’interesse dei minori viene prima di tutto

FAVOREVOLE

I sostenitori della rimozione della potestà genitoriale affermano che, in qualsiasi circostanza, la tutela dei diritti fondamentali dei bambini debba avere la precedenza sulle libertà di scelta dei genitori. In questa vicenda le autorità ravvisano un “grave pregiudizio” per i tre minori, poiché stanno crescendo in condizioni lontane dagli standard minimi considerati essenziali per un sano sviluppo. La Costituzione italiana affida infatti ai genitori il dovere di educare i figli, ma contestualmente impone che l’istruzione inferiore sia obbligatoria e gratuita (art. 34). Chi è favorevole all’intervento dello Stato sottolinea che nessun genitore è un’isola: decidere di isolare completamente i figli dalla società li priva di opportunità e diritti che sono garantiti a tutti gli altri bambini per legge. Ad esempio, il diritto all’istruzione non significa solo imparare a leggere o far di conto, ma frequentare una comunità scolastica, confrontarsi con i coetanei, sviluppare competenze sociali e cognitive in un ambiente stimolante e controllato. Nell’esperienza di Palmoli, invece, i bambini – a detta degli stessi servizi sociali – vivono in “grave isolamento socio-culturale”, senza libera frequentazione di altri bambini né attività ricreative strutturate. Ciò lede il diritto dei minori alla socializzazione e alla crescita equilibrata. Anche se i genitori affermano di portarli al parco o al supermercato una volta a settimana, si tratta di contatti occasionali e non paragonabili a un inserimento stabile nella comunità. Inoltre, la mancanza di scuola può pregiudicare il loro futuro: senza un’istruzione certificata rischiano di essere esclusi da percorsi formativi successivi e opportunità lavorative. C’è poi l’aspetto sanitario e igienico. Vivere senza acqua corrente e senza un bagno interno non è un semplice “inconveniente moderno”, ma un potenziale pericolo per la salute dei bambini. I sopralluoghi ufficiali hanno descritto l’abitazione come priva di servizi, con i bagni all’aperto “completamente inadeguati” e condizioni giudicate “non salubri” per dei minori. Non a caso i servizi sociali avevano offerto alla famiglia un alloggio con servizi igienici adeguati e l’accesso a un centro socioeducativo, proposte tutte rifiutate. Gli interventisti ritengono che i genitori abbiano mostrato ostinazione irresponsabile: di fronte all’opportunità di migliorare le condizioni dei figli (ad esempio installando un bagno in casa), avrebbero risposto negativamente per non “snaturare” il loro stile di vita. Questo atteggiamento, dal punto di vista pro, conferma la necessità dell’intervento: se i genitori antepongono i propri principi ideologici al benessere basilare dei figli, lo Stato ha l’obbligo di agire in difesa dei minori. Un altro elemento chiave è l’assenza di controllo medico regolare. La relazione dei servizi ha evidenziato che i bambini non risultavano seguiti da un pediatra di base. Non portarli a visite pediatriche di routine e non vaccinarli (aspetto non confermato nei dettagli pubblici, ma che spesso accompagna questi casi) viene visto come una forma di trascuratezza potenzialmente grave. C’è già stato un campanello d’allarme: tutti e cinque i membri della famiglia sono finiti in ospedale per avvelenamento da funghi, un incidente che poteva avere esiti tragici. Quell’episodio fortuito ha rivelato una condizione di fondo pericolosa: se la famiglia vive tanto isolata da nutrirsi di funghi raccolti in proprio senza le necessarie conoscenze, da collassare incosciente al punto da dover chiamare i soccorsi, è segno che i bambini sono oggettivamente esposti a rischi anomali. Fortunatamente in quel caso si salvarono, ma il ruolo dei genitori nel vigilare sulla sicurezza alimentare e sanitaria è parso inadeguato. Lo Stato, pertanto, deve prevenire situazioni che possano degenerare: attendere ulteriore tempo significherebbe giocare coi diritti dei minori. Un principio cardine del diritto minorile è che lo Stato può limitare la responsabilità genitoriale se il comportamento dei genitori pregiudica il benessere dei figli. Nel caso specifico, le istituzioni non entrano nel merito delle convinzioni personali della coppia (rispetto per la natura, critica alla modernità), bensì valutano gli effetti sui bambini: istruzione lacunosa, isolamento e possibili problemi sanitari. La procedura seguita dalla Procura è quella prevista in questi casi: prima si è tentato un progetto di recupero socioeducativo, poi, vista l’irreperibilità e il rifiuto di collaborazione della famiglia, si è ricorsi al giudice. Non è una punizione ideologica, ma l’attuazione del dovere istituzionale di proteggere i minori. Infine, i sostenitori della rimozione fanno notare che lasciare i bambini con i genitori, senza condizioni, potrebbe costituire un precedente pericoloso: equivarrebbe a legittimare situazioni di elusione dell’obbligo scolastico e sanitario. Una società di diritto non può accettare che per inseguire un’utopia, per quanto sincera, si sottraggano i figli agli strumenti educativi e di cura di base. Come scrive “Fanpage”, la legge consente istruzione a casa solo se viene affiancata da controlli ed esami annuali, requisiti che l’unschooling puro “non sempre prevede”, finendo in una “zona grigia” legale. Se i genitori di Vasto non hanno adempiuto a tali obblighi (dichiarazione annuale ed esami) o intendono sottrarvisi, allora la revoca della potestà – con affidamento dei bimbi a chi garantirà scuola e cure – è non solo giusta ma doverosa. Il principio giusto è che la libertà educativa dei genitori finisce dove inizia il diritto dei figli a una crescita sana e con pari opportunità. E in questo caso, quel limite è stato ampiamente superato. I figli non possono scegliere, tocca allo Stato assicurarsi che non subiscano scelte che li privano di istruzione, socialità e condizioni di vita dignitose.

Madeleine Maresca, 15 novembre 2025

 
02

Va tutelata la libertà di scelta familiare e la diversità culturale

CONTRARIO

Chi si oppone fermamente alla sottrazione dei figli vede in questa vicenda un pericoloso attacco alla libertà individuale e alla diversità di modelli familiari. La tesi contro la rimozione della potestà genitoriale parte dal principio che lo Stato non può e non deve imporre un unico modo di vivere e di educare. In una società libera, i genitori hanno il diritto costituzionale di allevare i figli secondo i propri valori e visioni del mondo (entro limiti molto ampi), e i bambini hanno il diritto di crescere nella propria famiglia salvo situazioni gravissime (maltrattamenti, abusi). Nel caso di Palmoli, non c’è stata alcuna violenza, abuso o sfruttamento: i bambini non risultano affamati, né picchiati, né coinvolti in attività criminali. Al contrario, appaiono accuditi con amore, liberi e felici nella loro quotidianità semplice a contatto con la natura. Punire questa famiglia togliendole i figli equivarrebbe a punire una “colpa” che non è tale: vivere in modo non convenzionale e fuori dal consumismo. Si tratterebbe di un’ingerenza inaccettabile dello Stato nella sfera privata, una violazione di quel pluralismo di stili di vita che una democrazia deve invece tutelare. Gli oppositori citano casi analoghi in cui le autorità hanno rispettato scelte educative non mainstream: ad esempio le comunità che praticano homeschooling e pedagogie alternative (Montessori, Steiner ecc.), o famiglie nomadi che seguono carriere circensi. Finché i bambini non subiscono danni oggettivi, lo Stato dovrebbe mantenere un atteggiamento di vigilanza passiva, non repressiva. Nel dibattito, l’editorialista Elisabetta Ambrosi ha sostenuto esplicitamente di “stare dalla parte” della famiglia del bosco proprio perché vede attorno a loro “pregiudizi sociali” verso scelte di vita sostenibili e fuori dagli schemi. Secondo questa prospettiva, le istituzioni – condizionate da stereotipi – starebbero trattando come “famiglia problematica” quella che è invece una famiglia consapevole, colpevole solo di mettere in discussione la normalità consumistica. In altre parole, si rischia una deriva paternalista o addirittura autoritaria: lo Stato che decide al posto tuo come devi crescere i figli. Questo è molto più pericoloso di qualche lezione scolastica persa. Un argomento cardine è che i bambini stanno bene e non sono affatto “abbandonati”. Le relazioni stesse dei servizi sociali non riportano segni di malnutrizione, malattie non curate o disagio psicologico nei minori. Anzi, il legale ha riferito che i piccoli “sono in perfette condizioni psico-fisiche, godono di ottima salute”. Vengono seguiti da una pediatra di fiducia e assegnati al SSN, contrariamente a quanto si pensava inizialmente. La stessa Procura, nel disporre il monitoraggio, ha lasciato i bambini con i genitori, riconoscendo implicitamente che non c’era un pericolo imminente per la loro incolumità. Se davvero i genitori ledessero i diritti dei figli, il Tribunale avrebbe tolto subito i minori, invece sono ancora lì. Ciò dimostra che siamo lontani da situazioni di abuso o incuria conclamata che richiedono interventi d’emergenza. Un’altra linea di difesa è l’effettiva cura educativa che i genitori stanno fornendo: i detrattori dell’intervento ricordano che la figlia maggiore ha superato un esame di idoneità scolastica (per la terza elementare), segno che l’istruzione parentale sta dando risultati concreti. La famiglia produce di anno in anno la documentazione necessaria (come i certificati di esame e i piani di studio), quindi non sta violando consapevolmente la legge: al più, c’è un dibattito su quanto unschooling facciano e quanto homeschooling formale integrino. Inoltre, i genitori sostengono – e le fonti giornalistiche lo confermano – che i bambini socializzano: giocano all’aperto, conoscono altri bambini (ad esempio figli di vicini o di amici quando capita) e non sono prigionieri in casa. “Open” ha riportato che usano i telefoni dei genitori per sentire i parenti all’estero e che fanno lezioni settimanali con una maestra dal Molise. Questi elementi indicano che, contrariamente all’immagine di “bimbi selvaggi e isolati” dipinta da alcuni, in realtà i piccoli hanno contatti col mondo esterno e figure educative supplementari. I contrari all’affido fuori famiglia chiedono: perché strappare dei bambini felici dal loro ambiente familiare, che magari è rustico ma è l’unico che conoscono e amano? Secondo loro, trasferirli altrove sarebbe un trauma ingiustificato. Le testimonianze dei genitori – per quanto di parte – ritraggono bimbi sereni che corrono nei boschi, conoscono piante e animali, imparano in modo esperienziale e vivono lontani da schermi e stress. Non è forse questo un ambiente sano? – chiedono i sostenitori. Dal loro punto di vista, la società moderna è spesso tossica (inquinamento, alienazione digitale, bullismo scolastico, cibo spazzatura) e dunque crescere “come una volta” può avere molti benefici. L’avvocato difensore ha parlato di “gentiluomini della natura” riferendosi ai bambini, e i contrari concordano sul fatto che questi piccoli non sono affatto poveri disadattati, ma “bimbi liberi, compassionevoli, connessi, creativi e intelligenti” proprio perché non repressi dal sistema. Un aspetto su cui battono i sostenitori di questo diverso modello di famiglia è quello della disparità di trattamento e ipocrisia istituzionale. Monica Macchioni su “Il Graffio” ha polemicamente chiesto come mai lo Stato se la prenda con questa famiglia “senza violenza né droghe” e non invece con le situazioni ben peggiori di minori in mano alla malavita o al degrado urbano. Secondo i contrari, è più facile per i servizi sociali e la magistratura intervenire in un caso eclatante mediaticamente – ma di fatto composto da persone perbene e cooperative – che affrontare problemi endemici come i bambini di camorra o quelli sfruttati per accattonaggio. Questa critica vuole evidenziare un accanimento ingiusto: si rischia di punire chi non ha fatto del male a nessuno, mentre altrove veri orrori proseguono indisturbati. Inoltre, molti commentatori sottolineano che i genitori di Vasto hanno risorse economiche e culturali: sono persone adulte e responsabili, non “borderline” né incapaci di intendere, come ha ribadito anche il loro legale. Dunque, insinuare che non sappiano cosa è bene per i propri figli è quasi offensivo. Hanno scelto l’Italia come luogo dove vivere e ora vengono trattati come criminali. Un utente sul web ha scritto indignato che “portare via i bambini sarebbe un atto di violenza dello Stato” peggiore di quella inflitta dai peggiori clan. I contro spingono molto su questo: sottrarre i figli a genitori amorevoli è un atto traumatico e innaturale che solo situazioni estreme giustificano. Farlo in questo caso provocherebbe ai bambini un danno psicologico enorme: perderebbero di colpo mamma e papà, la loro casa (per quanto modesta) e tutto ciò che conoscono, finendo magari in comunità o famiglie affidatarie estranee. La retorica utilizzata è forte: si parla di “rapimento legalizzato”, di “spezzare un nucleo familiare” senza un vero motivo. I contrari ricordano che i bambini sono felici e sorridenti con i genitori, come testimoniato anche dalle immagini mandate in onda da trasmissioni televisive (es. La Vita in Diretta ha intervistato la famiglia mostrando la loro quotidianità serena). Non c’è niente da “salvare”: separarli costituirebbe l’unica vera violenza in questa storia. Quanto all’istruzione e alla socialità, i contro ribattono che ci sono tante esperienze di educazione parentale di successo: la provincia autonoma di Bolzano, per esempio, ha un consolidato sistema di “classi nei boschi” e homeschooling diffuso, senza che nessuno si opponga. Ogni anno migliaia di famiglie in Italia praticano l’istruzione parentale (triplicate durante la pandemia), e non per questo lo Stato toglie loro i figli. Perché allora accanirsi su questa famiglia? Probabilmente – insinuano – perché sono “stranieri” e non ben inseriti nel tessuto sociale, quindi facili da prendere di mira. C’è anche chi vede in questa vicenda un riflesso di intolleranza verso gli stili di vita ecologisti: Catherine e Nathan stanno dimostrando che si può vivere con poco, senza consumismo, e questo è scomodo in una società costruita sui consumi. La stessa Ambrosi evidenzia il tema della scelta di vita sostenibile: pannelli solari, autoproduzione, niente smartphone – invece di essere apprezzati come pionieri “green”, vengono guardati con sospetto e puniti. Per i contrari, la famiglia del bosco è quasi un simbolo di libertà contro omologazione. Se li costringiamo a rientrare nei ranghi, quale messaggio diamo? – chiedono retoricamente. Un altro elemento portato in difesa dei genitori è la loro buona fede e cooperatività su molti fronti: non hanno mai maltrattato i funzionari né fatto resistenza violenta, hanno solo paura di perdere i figli e per questo si sono chiusi. Ma quando è stato necessario hanno fornito certificati medici e perizie per attestare di stare adempiendo ai loro doveri. Hanno anche istituito un trust privato per proteggere la prole da interventi esterni – gesto estremo che però denota quanto tengano ai loro figli. I detrattori dell’intervento suggeriscono che lo Stato, anziché puntare subito alla soluzione drastica, avrebbe potuto accompagnare la famiglia con un approccio rispettoso: fornire sostegno pedagogico leggero, magari un educatore che andasse a trovarli periodicamente per aiutare i bambini in qualche materia, o un mediatore che li aiutasse a interagire con altri homeschooler. Invece si è scelta la via giudiziaria, percepita come aggressiva. Lo Stato dovrebbe garantire pluralismo e tolleranza: se una famiglia sceglie un cammino educativo diverso ma non nocivo, andrebbe semmai monitorata e, se possibile, supportata, non demolita. Il concetto di “superiore interesse del minore” viene letto diversamente dai contrari: per loro l’interesse dei bambini è rimanere con i propri genitori, crescere nell’amore familiare che già hanno, evitando traumi di separazione che li segnerebbero a vita. Quale pregiudizio può mai essere più grave di essere tolti a mamma e papà senza aver subito alcun abuso? – domandano. Molti citano casi di errori giudiziari (affidi illeciti) che hanno devastato famiglie innocenti; c’è il timore di un nuovo “caso Bibbiano”, dove un eccesso di zelo si traduca in ingiustizia. La famiglia del bosco dovrebbe essere lasciata in pace, eventualmente concordando qualche compromesso ragionevole (ad esempio controlli sanitari periodici, iscrizione formale a una scuola per gli esami annuali) ma senza misure coercitive. Intervenire brutalmente violerebbe i diritti umani fondamentali: quello dei genitori di educare i figli e quello dei bambini di non essere strappati dalla propria famiglia. In definitiva, il caso Palmoli non ha nulla che giustifichi una punizione così severa. La frase ricorrente è “non stiamo parlando di genitori orchi”, ma di madre e padre che amano i loro figli e vogliono il meglio per loro, pur con idee controcorrente. In una democrazia matura, c’è spazio anche per questa diversità. Togliere i bambini equivarrebbe a dire che lo Stato non tollera chi non si conforma, instaurando un precedente allarmante per la libertà di tutti.

Madeleine Maresca, 15 novembre 2025

 
03

La famiglia nel bosco vive in un ambiente estremo e i bimbi sono a rischio abbandono

FAVOREVOLE

Chi sostiene la necessità di togliere temporaneamente i figli ai genitori di Palmoli insiste sul fatto che la situazione concreta in cui vivono i minori è talmente estrema da configurare quasi uno stato di abbandono materiale ed educativo. Pur riconoscendo che i genitori non commettono violenze, equiparano certi effetti negativi del vivere isolati ai danni di un maltrattamento omissivo. Ad esempio, la mancanza di un’abitazione idonea con servizi igienici e riscaldamento adeguato viene assimilata a una forma di trascuratezza fisica grave, perché espone i bambini a malattie e incidenti. In Italia, rammentano, sono stati allontanati minori anche per carenze igieniche e abitative persistenti, quando i genitori non volevano o non potevano porvi rimedio. Nel caso in questione, la famiglia vive in un rudere che gli stessi Carabinieri definiscono “fatiscente, con pareti lesionate e danni strutturali”. I servizi hanno trovato giacigli per terra, stanze senza luce né acqua e una roulotte minuscola dove dormono tutti e cinque. Queste condizioni – argomentano i pro – non possono essere considerate accettabili per dei bambini in età prescolare e scolare. L’avvocato difensore parla di “stile di vita alternativo”, ma per la legge la casa dev’essere un luogo sicuro: qui siamo quasi di fronte a un contesto da emergenza umanitaria, seppur autoimposto. Si enfatizza anche il rischio sanitario immediato: l’episodio dei funghi è un campanello d’allarme di possibili future emergenze. Cosa sarebbe accaduto se uno dei bambini avesse avuto bisogno di aiuto urgente durante il periodo in cui la famiglia si era resa irreperibile ai servizi sociali? I pro-removal segnalano che, secondo gli atti, i genitori a un certo punto “si resero irreperibili” sentendosi “braccati” e saltando i colloqui. Questo comportamento viene letto come un segnale di scarsa cooperazione e potenzialmente pericoloso: in caso di bisogno, avrebbero evitato di ricorrere ai servizi medici? Una genitorialità responsabile – affermano – non può prescindere dall’accesso alla sanità e dall’interlocuzione con le istituzioni. I difensori della misura drastica fanno inoltre leva sul concetto di “educational neglect” (trascuratezza educativa): un genitore che non scolarizza i figli e li priva di un orizzonte culturale, anche se li nutre e li ama, sta mancando a un dovere fondamentale. Il fatto che i figli risultino puliti e sorridenti non basta, affermano: la “buona salute” rivendicata dai genitori va provata con check-up medici regolari e vaccinazioni, e l’“apprendimento spontaneo” andrebbe misurato con verifiche oggettive, altrimenti si tratta solo di parole. Finora – rilevano – non c’è evidenza pubblica che i due gemelli di 6 anni abbiano sostenuto esami (solo la figlia maggiore ha un certificato di idoneità alla terza elementare). Dunque, per i pro-removal, questi bambini potrebbero accumulare lacune educative enormi, difficili poi da colmare. Anche il richiamo ai princìpi di Rousseau da parte del legale viene criticato: “il mito del buon selvaggio” è appunto un mito, superato dal riconoscimento che i bambini hanno bisogno di socializzazione e guida educativa, non di essere isolati in una bolla antimoderna. Sul piano normativo, i pro tengono a evidenziare che non esiste più la “patria potestà” come diritto assoluto dei genitori, ma la “responsabilità genitoriale”, concetto che implica anche doveri verso la società e i figli stessi. In rete, qualcuno ha fatto notare con sarcasmo: “Non esiste più la patria potestà, si chiama responsabilità genitoriale, abbi pazienza”. Questo per dire che la legge è già chiara: se i genitori non assumono comportamenti responsabili (come mandare i figli a scuola o garantire condizioni igieniche decenti), allora decadono dal loro ruolo e interviene il tribunale. La famiglia del bosco, per quanto animata da buone intenzioni, sta tradendo alcune responsabilità di base. Sotto il profilo psicologico, i pro-removal temono anche i possibili danni a lungo termine di una crescita così atipica: i bambini potrebbero sviluppare difficoltà di adattamento sociale, traumi nel confrontarsi poi con il mondo esterno o addirittura idealizzazioni eccessive/fobie verso la società moderne inculcate dai genitori. Un domani potrebbero accusare i genitori di averli privati di un’infanzia “normale”. L’allontanamento in tenera età presso strutture protette o famiglie affidatarie, per quanto doloroso nell’immediato, potrebbe offrire loro maggiori chance educative e relazionali, prevenendo problemi futuri. Il tribunale, se decidesse per l’affidamento altrove, cercherebbe soluzioni il più possibile adatte ai minori, magari tenendo insieme i fratellini. Non si tratterebbe di “rapirli” per sempre: l’obiettivo sarebbe piuttosto integrarli gradualmente nella società tutelandone la crescita. C’è infine un argomento di principio spesso menzionato: la parità di trattamento e la tutela universale dei bambini. Consentire a questa famiglia di restare isolata con i figli manderebbe un messaggio sbagliato: perché allora lo Stato persegue genitori che non mandano i figli a scuola o non li vaccinano? Perché interviene nei casi di famiglie nomadi in cui i minori non studiano? Non agire in questo caso potrebbe sollevare accuse di doppi standard. La direttrice del “Graffio” lamentava che lo Stato spesso “non porta via i figli ai mafiosi o ai mendicanti che li sfruttano”, ma i pro-removal ribaltano la critica: proprio per questo bisogna intervenire ovunque si riscontrino situazioni pregiudizievoli, senza eccezioni. Chi ama veramente i propri figli deve accettare di buon grado le regole minime poste a loro garanzia, non sfuggirvi. Pertanto, togliere la responsabilità ai genitori di Palmoli non è un abuso, ma un atto dovuto di un ordinamento che pone al centro i bambini come soggetti di diritti e non proprietà dei genitori. In conclusione, i fautori della linea dura affermano che lo Stato non punisce un’idea o uno stile di vita in sé, ma interviene perché in questo stile di vita intravede pericoli concreti e violazioni di legge.

Madeleine Maresca, 15 novembre 2025

 
04

I bambini non hanno subito abusi, sottrarli ai genitori sarebbe “violenza di Stato”

CONTRARIO

I critici del provvedimento parlano di “violenza di Stato” nel caso in cui i bambini venissero sottratti ai loro genitori. Tale espressione riflette l’idea che l’intervento forzoso dello Stato, in assenza di maltrattamenti, costituirebbe un abuso di potere peggiore del presunto problema che vorrebbe risolvere. Secondo questa tesi, può lo Stato arrogarsi il diritto di decidere come dev’essere la vita familiare di cittadini che non infrangono alcuna legge penale e non fanno del male a nessuno? La risposta dei contrari è no, non può. Si fa notare che il reato di “abuso dei mezzi di correzione” o di “maltrattamento in famiglia” qui non sussiste affatto: non c’è correzione violenta, non c’è crudeltà, non c’è sfruttamento minorile. Allora su che base giuridica concreta si pretende di intervenire? I contro fanno riferimento all’art. 30 della Costituzione, che afferma: “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”. Lo Stato può intervenire “quando i genitori non ne siano capaci”. Ebbene, in cosa questi genitori sarebbero “incapaci”? Hanno alimentato e cresciuto tre bambini sani, insegnando loro a leggere, fornendo un tetto (per quanto modesto) e protezione. Non li hanno abbandonati in un bosco a loro stessi. La Procura parla di “preziose carenze di socializzazione e igiene”, ma i contrari replicano che tali concetti sono valutazioni soggettive: chi stabilisce quale grado di socializzazione sia “giusto”? Ci sono bambini cittadini iperconnessi ma soli e depressi; viceversa, bambini cresciuti in comunità alternative molto coese che diventano adulti equilibrati. Allo stesso modo, vivere in una casa senza comfort non equivale automaticamente a ledere i diritti dei figli, se quei figli vengono comunque mantenuti puliti e accuditi. Ci sono milioni di persone nel mondo che vivono senza elettricità o acqua corrente: i loro genitori dovrebbero perdere per questo la patria potestà? Si ravvede un sottofondo di classismo e di etnocentrismo culturale nell’atteggiamento istituzionale: sembra che si dica “o vivi come la classe media occidentale con scuola, pediatra e bagno piastrellato, oppure sei un genitore indegno”. Ma la diversità culturale e socioeconomica non può essere di per sé motivo di rimozione dei figli. Per rafforzare il punto, i contrari citano i casi di minoranze come i nomadi sinti o certe comunità rurali isolate: “lo Stato porta via i figli a tutti i pastori che vivono in montagna senza internet?”. Ovviamente no. Allora perché accanirsi su questa famiglia? Ritengono ci sia una componente di pregiudizio verso l’ignoto: l’idea di bambini fuori dal controllo delle istituzioni spaventa e si reagisce con misure punitive a prescindere dai reali bisogni di quei bambini. Molti commentatori sostengono che i servizi sociali e i giudici minorili, una volta entrati in gioco, abbiano un bias istituzionale: tendono, cioè, a ipotizzare problemi anche dove forse non ce ne sono, pur di giustificare il proprio intervento. Un’ulteriore linea argomentativa dei contrari è il concetto di “danno minore”: supponendo anche che qualche carenza in quella vita nel bosco ci sia, la soluzione proposta (allontanare i bimbi) causerebbe un danno enormemente maggiore. Varie ricerche mostrano che i traumi da separazione familiare possono lasciare cicatrici per tutta la vita sui minori (ansia di abbandono, insicurezze, depressione). Allora, si chiedono i contrari, vale la pena strappare questi tre bambini dal loro mondo per dar loro in cambio luce elettrica e scuola, ma al prezzo di perdere la famiglia? La risposta è no: sarebbe una cura peggiore del male. Anche dal lato educativo, separare i fratellini e inserirli di colpo in un contesto istituzionale potrebbe rivelarsi disastroso: bambini che non hanno mai vissuto in città, che parlano forse inglese in casa come prima lingua, buttati in un collegio o affido, rischierebbero choc culturali e regressioni emotive. I contrari suggeriscono che, se davvero l’obiettivo è il benessere dei minori, lo Stato dovrebbe semmai fornire aiuti “sul posto”, ad esempio inviando insegnanti itineranti o portando la famiglia in comunità resilienti simili (ci sono progetti di “outdoor education” che potrebbero fare al caso loro). Ma mai recidere il legame genitoriale. Il sentimento di fondo, espresso vividamente da molti sui social, è che si stia punendo questa famiglia solo perché “diversa” e ciò appare come intolleranza istituzionale. Non a caso la vicenda ha sollevato un’ondata di solidarietà: la “famiglia nel bosco” è diventata virale. A loro sostegno, è stata lanciata una petizione su charge.org: una raccolta firme per tutelare la libera scelta della famiglia di Vasto. Sono, dunque, assurti a simbolo di resistenza al conformismo. Tanti commenti elogiano il loro coraggio e contestano allo Stato di volerli punire perché “non sopporta chi esce dagli schemi”. Questa cornice narrativa è significativa: viene presentata come una sorta di “lotta di Davide contro Golia”, del singolo contro l’apparato. Catherine e Nathan sono due persone pacifiche che vogliono solo vivere la loro vita isolata: se la modernità li “stanca” e li “avvelena”, come hanno dichiarato, è un loro diritto rifugiarsi altrove. Chi può impedirglielo? E perché costringere i loro figli a rientrare in quella società che i genitori percepiscono ostile? Non hanno forse anche i minori il diritto a un ambiente sano, aria pulita e cibo genuino? I contrari ribaltano così la retorica: invece di pensare ai possibili svantaggi (niente scuola convenzionale), guardiamo i vantaggi: quei bambini sono lontani da inquinamento, droghe, violenza urbana, pornografia online, consumismo. Giocano con animali veri invece che con tablet. Qualcuno li paragona ai protagonisti di Captain Fantastic, film citato anche da “Il Centro”, in cui un padre cresce i figli nei boschi come filosofi-guerrieri in armonia con la natura. È davvero così sbagliato? – chiedono. Non potrebbero anzi rappresentare un modello alternativo di successo? In Alto Adige, ad esempio, l’homeschooling e le “classi nel bosco” sono quasi un vanto locale. I contrari all’intervento sottolineano inoltre l’ipocrisia del sistema: per decenni lo Stato non è riuscito a evitare situazioni di degrado vero, a partire dagli orfanotrofi lager o dagli affidi illeciti (vedi il caso di Bibbiano). Adesso, con questa famiglia, sembra voler dimostrare efficienza calando la mannaia su persone che non hanno lobby o protezioni. È un accanimento facile, a scapito dei bambini. Monica Macchioni, ad esempio, insinua che “lo Stato lascia i bimbi nelle ’ndrine” (in famiglie mafiose) e vuole portarli via ai “naturalisti”: assurdo. Questo argomento moralmente colpisce l’opinione pubblica, perché dipinge lo Stato come forte coi deboli e debole coi forti. I contrari sostengono che i servizi sociali dovrebbero occuparsi di bimbi maltrattati veri (e ce ne sono purtroppo tanti) invece di “perseguitare” un nucleo amorevole e indipendente. C’è infine un aspetto giuridico sollevato: la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia prevede il diritto del bambino a non essere separato dai genitori contro la sua volontà, salvo necessità assolute. Chi può dire che questi bambini desiderino essere “salvati” dalla loro vita nel bosco? Probabilmente ne sarebbero terrorizzati e distrutti. Pertanto, i contrari concludono che l’intervento statale non è solo inutile ma dannoso. Invece di aiutare, creerebbe un problema dove non c’era: famiglie distrutte, bambini traumatizzati, genitori disperati. Tutto ciò per imporre standard che, seppur raccomandabili, non possono essere assoluti. “Libertà significa anche tollerare ciò che non comprendiamo appieno” – dicono. E se per qualcuno libertà vuol dire vivere senza luce elettrica in un bosco, lo Stato dovrebbe accettarlo, purché non vi siano violazioni evidenti di legge (e qui non ce ne sono). Per tutte queste ragioni, togliere la patria potestà ai genitori del bosco sarebbe profondamente sbagliato.

Madeleine Maresca, 15 novembre 2025

 
05

Lo Stato dovrebbe mantenere l’unità familiare con supporto, non punire

CONTRARIO

Qualora lo Stato ravvisasse realmente dei problemi, la risposta giusta non è punire i genitori togliendo loro i figli, ma aiutare la famiglia a colmare eventuali lacune. Non si vuole negare che si possa discutere su scuola o igiene, ma è necessario un approccio collaborativo invece che repressivo. I servizi sociali, dopo qualche tentativo burocratico andato a vuoto, hanno rapidamente imboccato la via legale conflittuale, “militarizzando” la questione (con sopralluoghi a sorpresa e Carabinieri al seguito). Questo ha esasperato la diffidenza dei genitori, innescando un circolo vizioso di incomunicabilità. La prof.ssa Bertotti evidenzia proprio il rischio di polarizzare le questioni in termini rigidi di giusto/sbagliato, creando il problema invece di risolverlo. Si sarebbe dovuto costruire un dialogo con Catherine e Nathan, per trovare compromessi rispettosi della loro filosofia di vita ma anche dei diritti dei bambini. E in effetti un accenno di compromesso c’è stato: la curatrice minorile avrebbe suggerito loro di ripristinare i bagni interni come condizione per lasciarli continuare il loro percorso. Questa proposta, pur rifiutata dalla madre, indica una via conciliativa: perché non insistere su soluzioni del genere? Magari con un mediatore o un educatore familiare che spieghi l’importanza di certe misure (come migliorare i servizi igienici per motivi sanitari) e allo stesso tempo rassicuri i genitori che non si vuole snaturare la loro libertà. Da questo punto di vista, l’affidamento coatto è l’ultimissima risorsa, da usare solo se i genitori si dimostrano totalmente negligenti o pericolosi – cosa che qui non è. Invece, affiancare la famiglia con competenze esterne potrebbe portare benefici concreti senza disgregare nulla. Per esempio, si poteva coinvolgere un’associazione di homeschooling/homesteading (come LAIF o simili) che conosce realtà analoghe e poteva mediare tra famiglia e istituzioni, certificando il percorso istruttivo dei bambini in modo alternativo ma conforme alla legge. I contrari ricordano anche che nessuno ha interpellato i bambini: che ne pensano? Come vivono loro questa situazione? Una valutazione psicologica indipendente dello stato emotivo dei minori sarebbe stata opportuna prima di arrivare a decidere del loro allontanamento. Se i bambini risultassero sereni, attaccati ai genitori e non impauriti dalla loro vita, separare una famiglia del genere appare crudele. Lo Stato esiste per aiutare i cittadini, non per perseguitarli. Quindi, se davvero l’obiettivo è il bene dei bambini, perché non portare acqua corrente al casolare, invece di portare via i bimbi? Perché non offrire alla famiglia supporto logistico (es. pannelli solari aggiuntivi, consulenze sanitarie periodiche) invece di smantellarla? Queste domande retoriche sottolineano che c’erano vie alternative all’azione punitiva. Si cita spesso il tema del “minore come ultima ratio”: i servizi dovevano lavorare con i genitori, non contro di loro, per migliorare la situazione. Si poteva prevedere un affiancamento temporaneo (ad esempio un tutore che supervisionasse l’educazione dei bambini restando però in famiglia). L’intervento deciso – l’affido esterno – appare invece come una soluzione “di testa”, burocratica, non “di cuore”. Un aspetto giuridico su cui i contrari fanno leva è che la sospensione/decadenza della responsabilità genitoriale non è una punizione per i genitori, ma una misura a favore del minore. Dunque, deve dimostrare di apportare un beneficio reale al minore. In questo caso, non c’è evidenza che allontanare i bambini migliori la loro condizione, anzi è probabile il contrario. Perciò la misura sarebbe giuridicamente inappropriata: non soddisfa il requisito del “superiore interesse” del minore, poiché quell’interesse coincide col restare con genitori amorevoli. Infine, i contrari spesso ampliano la riflessione a una dimensione politica e filosofica: che tipo di Stato vogliamo? Uno Stato etico che uniforma tutti, o uno Stato liberale che accetta anche le scelte minoritarie? La storia è piena di minoranze perseguitate in nome del bene dei bambini (si pensi ai figli degli indigeni nativi americani o australiani, strappati alle famiglie per “civilizzarli” in collegi – oggi quelle politiche sono riconosciute come errori atroci). I contrari invitano a non ripetere, in scala minore, quell’approccio: anche i genitori di Palmoli potrebbero dire di voler “civilizzare” i loro figli a modo loro, lontano dalla modernità corrotta. È un conflitto di visioni del mondo. Ma non può essere un giudice a decidere quale visione sia giusta. La famiglia nel bosco non va smembrata, va eventualmente accompagnata. Nessuno nega l’importanza della scuola e dell’igiene, ma si può lavorare per inserirle gradualmente nella vita della famiglia senza distruggerla. Togliere i figli sarebbe un rimedio sproporzionato e contrario ai diritti sia dei genitori che dei bambini. Meglio un compromesso sensato, come del resto auspicato dagli stessi giudici minorili più accorti, che spesso preferiscono soluzioni di sostegno familiare anziché affidi traumatici.

Madeleine Maresca, 15 novembre 2025

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