Fermare il declino demografico con la riforma del welfare si può?
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
L’Italia sta attraversando una crisi demografica senza precedenti: le nascite sono ai minimi storici e la popolazione invecchia. Nel 2024 si sono registrati appena 369.944 nuovi nati, il 2,6% in meno dell’anno precedente. Il tasso di fecondità medio è sceso a 1,18 figli per donna, il valore più basso mai rilevato (era 1,44 nel 2010). Parallelamente, l’età media al primo figlio è salita oltre i 31 anni, la più alta in Europa. Questi dati allarmanti confermano un “inverno demografico” in corso: dal 2008 le nascite sono diminuite di oltre 200 mila unità annue e il saldo naturale (i nati meno i morti) è costantemente negativo (nel 2022 ben 322 mila decessi in più dei nati). Le proiezioni indicano un ulteriore calo nei prossimi anni, aggravato dal fatto che le generazioni di potenziali genitori sono sempre meno numerose, in un circolo vizioso difficile da invertire.
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Lo Stato deve sostenere chi desidera figli: più servizi, aiuti economici e conciliazione lavoro-famiglia possono fermare il crollo delle nascite.
Le politiche pro-natalità hanno effetti limitati: pochi incentivi non cambiano scelte culturali e trend generazionali radicati da decenni.
Nei paesi con politiche familiari robuste (Francia, Nord Europa) la fecondità è più alta. Imitare quelle misure aiuterebbe a colmare il gap demografico italiano.
Il declino va gestito anche con strategie complementari: accogliere immigrati giovani, aumentare la produttività, adattare pensioni e servizi a una società più anziana.
Natalità: bisogna potenziare il Welfare pro-famiglia per invertire la rotta
I sostenitori della riforma del welfare ritengono che un robusto pacchetto di politiche pro-famiglia sia la chiave per contrastare il declino demografico. Secondo questa visione, l’attuale crollo delle nascite in Italia non è dovuto a una scelta di vita “childfree” delle nuove generazioni, ma ai troppi ostacoli economici e sociali che impediscono alle coppie di realizzare il desiderio di avere figli. Molti studi confermano che gli italiani vorrebbero in media due figli, ma ne fanno poco più di uno. La differenza è colmabile rimuovendo gli ostacoli: offrendo maggiore sicurezza sul lavoro, sostegni finanziari e servizi, le famiglie si sentiranno più libere di avere bambini. Chiara Saraceno, ad esempio, afferma che in Italia “si parla molto di calo natalità ma si fa poco per sostenere chi i figli li ha o li vorrebbe”. La sociologa insiste sulla necessità di un pacchetto integrato di politiche sociali: orari di lavoro flessibili per genitori, congedi parentali ben pagati (anche per i padri), nidi pubblici e scuola a tempo pieno, incentivi per l’occupazione femminile. In paesi dove tali misure esistono, le donne non sono costrette a scegliere tra lavoro e maternità, e infatti lì nascono più figli. Un dato emblematico dal rapporto Save the Children è che in Italia una donna su cinque lascia il lavoro dopo il primo figlio, mentre nelle regioni con più donne occupate (ad esempio Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna) la natalità è relativamente più alta. Ciò conferma che lavoro e figli possono crescere insieme, se sostenuti dalle politiche giuste. Elena Bonetti, alla guida di una commissione parlamentare sul tema, sostiene che servono interventi su più fronti: dall’Assegno Unico universale (già attivo) ai servizi territoriali per l’infanzia, fino ad agevolazioni fiscali e aiuti per la cura degli anziani a carico delle famiglie. L’obiettivo è liberare i giovani dall’incertezza e dal peso di costi insostenibili, creando un ambiente in cui avere figli non significhi impoverirsi o rinunciare alle proprie ambizioni. Bisogna concentrarsi sulla dimensione economica di lungo periodo: più nascite oggi significano più lavoratori, consumatori e contribuenti domani, evitando il tracollo del sistema pensionistico e sanitario. Investire nel sostegno alle famiglie è quindi un investimento nel futuro. Questo concetto è ribadito da leader politici come Emmanuel Macron, che ha dichiarato: “la Francia sarà più forte se rilancia la natalità”, annunciando il potenziamento del congedo parentale retribuito. La Francia – spesso citata come esempio virtuoso – ha mantenuto per anni un tasso di fecondità vicino a 2 grazie a generosi benefici per chi ha figli (asili quasi gratuiti, assegni familiari, sgravi fiscali). Anche se di recente pure le nascite francesi sono calate, certo è che nessun paese senza un forte welfare familiare è riuscito a tenere alta la natalità. L’Italia, fanalino di coda in Europa (TFR ~1,2), paga decenni di politiche insufficienti e mentalità “familista” di facciata ma non nei fatti. Ora è il momento di cambiare rotta, serve uno shock di investimenti a favore delle famiglie giovani per invertire l’“avvitamento verso il basso”. In concreto, alcuni suggeriscono un piano organico: ad esempio, Gigi De Palo propone una regia unica governativa (un “commissario alla natalità”) per coordinare misure come bonus bebè potenziati, detrazioni fiscali crescenti per ogni figlio, asili nido gratis e con orari estesi, congedi parentali paritari e ben pagati, incentivi alle aziende “family friendly” e persino interventi culturali per valorizzare la genitorialità. Un insieme di azioni così ampio restituirebbe fiducia alle coppie italiane. L’alternativa è l’inazione e il declino: lasciar fare al “mercato” demografico porterebbe, secondo le proiezioni, a una società sempre più vecchia e sbilanciata, con meno lavoratori per sostenere gli anziani, e costringerebbe a scelte dolorose (pensioni più tarde e magre, tagli alla sanità). Meglio prevenire questi scenari con politiche nataliste oggi, che dover affrontare emergenze domani. Dunque, fermare il declino demografico è possibile, ma solo se lo Stato interviene con decisione per creare un ambiente socioeconomico in cui fare figli torni a essere un progetto accessibile e desiderabile per le giovani famiglie. Le risorse investite verrebbero ripagate da una società più equilibrata tra giovani e anziani e da un rinnovato circolo virtuoso di crescita economica e stabilità del welfare.
Nina Celli, 8 novembre 2025
Il welfare non basta. La natalità cala per fattori strutturali
Molti esperti sono scettici circa l’idea di fermare il declino demografico solo con la riforma del welfare, ritenendo che le cause della denatalità siano profonde e in parte irreversibili. Pertanto, le politiche sociali, pur necessarie, non garantirebbero il ritorno a una popolazione in crescita. Innanzitutto, fanno notare i critici, l’Italia è “entrata in crisi demografica nel 1984”, quando la fecondità è scesa sotto 1,5 figli per donna e non è mai più risalita. In pratica, da oltre 40 anni si fanno troppo pochi figli: ciò ha già provocato una drastica riduzione delle giovani generazioni. Alessandro Rosina parla di “crollo dei genitori”: oggi ci sono molte meno coppie in età fertile di quante ce ne fossero ai tempi del “baby boom”. Questo significa che, anche se improvvisamente ogni donna decidesse di avere 2 o 3 figli, il numero totale di nascite resterebbe modesto perché ci sono meno potenziali madri. Si cita un dato incontrovertibile: nel 2024 in Italia c’erano circa 22 milioni di persone fra 15 e 49 anni (età riproduttiva), contro oltre 30 milioni nel 1980. Con tali basi ristrette, è matematicamente impossibile tornare ai livelli di nascite di allora. Inoltre, l’età media alla maternità è salita oltre i 32 anni, ciò implica che molte donne hanno tempo al massimo per 1 figlio, difficilmente 2 o più. Su queste tendenze strutturali le politiche possono incidere solo marginalmente. Un esempio usato dai critici è quello dell’Ungheria: il governo Orbán ha investito massicciamente (circa il 5% del PIL) dal 2010 per stimolare la natalità, vantando un aumento del TFR da 1,25 a 1,6. Ma studi demografici hanno mostrato che il numero di nati l’anno è rimasto fermo intorno a 90-95mila, perché in parallelo calavano le donne in età fertile e si posticipava meno la gravidanza (gonfiando il TFR temporaneamente). Anche in Italia, se oggi varassimo tutti gli incentivi possibili, non vedremmo un boom demografico: al più un rimbalzo modesto da 1,2 a 1,4 figli per donna nei prossimi 10 anni. Questo sarebbe un miglioramento benvenuto ma non sufficiente a evitare lo squilibrio generazionale. Come ammettono anche fonti pro-natalità, servirebbe tornare stabilmente sopra 2 figli per donna per assicurare il ricambio generazionale – un livello che non si registra da metà anni ’70. Neanche la Francia o la Svezia oggi raggiungono 2,1. Dunque, secondo i critici, promettere di “fermare il declino demografico” è illusorio, perché implica far crescere di molto la popolazione giovanile, cosa fuori portata con le sole nascite interne. Alcuni avanzano un parallelo storico: il fascismo negli anni ’20-’30 tentò con vigore di aumentare la popolazione (target 60 milioni di italiani) ma fallì. Anzi, il tasso di natalità continuò a diminuire durante il regime. Non bastarono premi in denaro alle madri prolifiche né la retorica della “Donna madre e moglie”, le dinamiche socioeconomiche (urbanizzazione, transizione culturale) erano più forti della propaganda. Questo esempio storico (analizzato da Roberto Volpi) indica che forzare la mano sulla natalità può non dare i frutti sperati. Non si vuol certo sostenere che le riforme sul welfare siano inutili, ma vuole mettere in guardia sulle attese eccessive. Anche i paesi virtuosi oggi sono in difficoltà: la Francia stessa ha visto un forte calo di nascite nel 2022-2023, nonostante il suo famoso welfare. Ciò suggerisce che fattori culturali e globali (insicurezza economica, individualismo, cambio di valori) stanno spingendo in basso la natalità ovunque nel mondo sviluppato. L’Italia, poi, soffre di un aggravante: ha accumulato un notevole ritardo. Negli anni ’90-2000 avrebbe potuto investire di più sulle famiglie (come fece la Francia o la stessa Germania nei 2000), ma non l’ha fatto, e nel frattempo la struttura demografica è peggiorata. Oggi si cerca di recuperare, ma “il momento è ora arrivato”, in cui le generazioni numerose del passato sono anziane e quelle ridotte entrano nell’età fertile, consolidando il circolo vizioso. Dal 2020 in poi si nota un ulteriore calo di fecondità in Italia, persino tra le immigrate (tradizionalmente più prolifiche). Ciò indica che c’è qualcosa di più profondo di una semplice mancanza di aiuti: è cambiata la società. Alcuni giovani adulti vedono il futuro incerto (clima, lavoro, guerre) e scelgono consapevolmente di non avere figli o di farne solo uno, per preferenze personali o timori per la qualità della vita dei figli stessi. Questo fenomeno, difficile da quantificare, è però emerso in sondaggi e studi qualitativi: l’idea di famiglia numerosa è molto meno comune che in passato. In Giappone si parla di “sindrome del nido vuoto” volontaria; in Italia qualcosa di analogo potrebbe radicarsi. Amy Kazmin sul “Financial Times” sottolinea l’indifferenza o l’inerzia di molti attori: persino istituzioni che potrebbero facilitare la vita dei genitori (come l’ospedale di Padova che rifiuta l’asilo aziendale) non colgono l’urgenza. È un problema di mentalità diffusa, non solo di fondi. Infine, alcuni avvertono che anche qualora le politiche avessero effetto, i risultati sarebbero lenti: un bambino nato oggi entrerà nel mondo del lavoro tra 20-25 anni; nell’immediato quel bambino è un “costo” (per la famiglia e per lo Stato in termini di servizi). Quindi c’è un paradosso: si investe oggi in maggior spesa pubblica (asili, bonus, congedi) e in più a breve termine i giovani produttivi saranno ancora meno (perché molte donne potrebbero uscire temporaneamente dal lavoro per i nuovi figli), mentre i pensionati aumentano. La fase di transizione sarebbe comunque critica per il welfare state, e richiede volontà politica di sostenere costi subito per benefici molto differiti. Non tutti i governi, però, riescono a pensare su orizzonti di decenni.
La riforma del welfare da sola, dunque, non potrà fermare il declino demografico. Può al massimo mitigarlo leggermente, ritardando l’inevitabile riduzione della popolazione. La struttura demografica italiana (piramide rovesciata) è il risultato di decenni di bassa natalità che non si correggono in pochi anni di politiche, per quanto buone. Bisogna essere realisti sulla portata delle misure: nessun paese ha “riportato indietro l’orologio demografico”. Questo non significa rinunciare a migliorare il welfare, ma riconoscere che esso inciderà in misura limitata sui trend di lungo periodo. Una frase emblematica è quella dei demografi Lutz, Sobotka e Zeman: la spesa enorme dell’Ungheria ha prodotto “un terzo di figlio in più per donna” in dieci anni, ma quasi zero nascite aggiuntive in termini assoluti. Per l’Italia, nel migliore dei casi, i critici prevedono scenari simili: qualche decimo di punto di TFR guadagnato, che però non eviterà un calo della popolazione (solo lo attenuerà leggermente). Il declino demografico è dunque da considerarsi in gran parte inevitabile e le politiche dovrebbero concentrarsi anche sull’adattamento a questa realtà.
Nina Celli, 8 novembre 2025
Il modello Francia dimostra che le riforme del welfare funzionano
I fautori delle riforme del welfare si basano spesso sul confronto internazionale: perché in alcuni paesi europei nascono più bambini che in Italia? La risposta, secondo loro, risiede nelle politiche pubbliche a sostegno della famiglia. La Francia viene citata come caso emblematico: fino a pochi anni fa registrava quasi 2 figli per donna, il valore più alto in UE, mentre l’Italia era ferma attorno a 1,3. Il segreto francese, riconosciuto anche dagli demografi, è una tradizione di interventi statali a favore della natalità risalente al dopoguerra: congedi di maternità e paternità retribuiti, assegni familiari generosi, agevolazioni fiscali (il famoso quotient familial che riduce le tasse in proporzione ai figli) e un sistema di nidi e scuole materne capillare ed economico. Queste misure hanno creato un ambiente in cui avere un terzo figlio non è un lusso insostenibile ma una scelta supportata dalla collettività. In Francia, inoltre, la cultura sociale normalizza il fatto che entrambi i genitori lavorino: lo Stato fornisce servizi per i bambini (dagli asili nido alle attività extrascolastiche) e incoraggia la condivisione dei carichi in famiglia. Il risultato è che, nonostante le crisi economiche, la Francia ha evitato il collasso delle nascite che ha colpito Italia, Spagna e Germania. I proponenti citano anche i Paesi nordici: Svezia, Norvegia, Danimarca hanno per decenni mantenuto TFR attorno a 1,7–1,9 grazie a una combinazione di welfare generoso e parità di genere avanzata. In Svezia esiste dagli anni ’70 un congedo parentale lungo e flessibile (di cui una quota riservata obbligatoriamente ai padri), nidi pubblici estesi e politiche del lavoro che tutelano le madri (il part-time ad esempio è diffuso e socialmente accettato). Non a caso, Svezia e Francia sono rimaste in cima alla classifica di fecondità europea, indicando che “welfare = più figli”. I sostenitori di questa idea osservano che persino la Germania, tradizionalmente piuttosto avara in politiche familiari, ha cambiato rotta nell’ultimo decennio (ha introdotto un Elterngeld, stipendio per i genitori in congedo, potenziato i nidi, incentivi per madri lavoratrici) e ha visto il suo TFR risalire da 1,3 a 1,6 intorno al 2016-17. L’Italia invece è rimasta indietro su questo fronte: un tempo ci si affidava alla famiglia estesa e al welfare “informale” (nonni, parenti) per gestire i figli, ma con i cambiamenti sociali (mobilità geografica, donne più istruite) quel modello non regge più. Servono quindi politiche moderne, come quelle dei paesi vicini. Un esempio concreto è quello del congedo parentale: in Italia il congedo di maternità obbligatorio è di 5 mesi (pagato all’80%–100% dello stipendio), quello di paternità solo 10 giorni; il congedo facoltativo è pagato al 30% per pochi mesi, e di fatto poco usato. In Francia, oltre al congedo maternità di 16 settimane, esiste un congedo parentale facoltativo di diversi mesi che – pur poco remunerato – è spesso preso da uno dei due genitori, mentre Macron ora propone di pagarlo di più per incentivarne l’uso. In Svezia il congedo totale arriva a 480 giorni (circa 16 mesi) da suddividere, con indennità circa all’80%: questo significa che nel primo anno di vita del bambino i genitori possono occuparsi di lui senza sacrifici economici enormi. I proponenti delle riforme sostengono che misure così decise cambiano davvero i comportamenti: se una coppia sa di poter contare su un sostegno stabile (soldi e servizi) per crescere 2 o 3 figli, sarà più propensa a farli. I dati regionali italiani sembrano confermare l’importanza del contesto: la Provincia di Bolzano, tradizionalmente dotata di politiche familiari più generose (anche grazie all’autonomia locale e a un welfare “austriaco”), ha il tasso di natalità più alto d’Italia. Al contrario, le regioni meridionali con welfare debole, come Basilicata, Campania o Sicilia, sono “fanalino di coda” per opportunità alle madri e registrano i tassi più bassi. Ciò sfata anche il luogo comune che le donne al Sud facciano più figli: un tempo era vero, oggi, senza supporto, le giovani meridionali rimandano la maternità tanto quanto (o più) delle settentrionali. Dunque, chi investe in welfare ne raccoglie i frutti anche demografici. Questo vale anche per misure economiche dirette: l’Assegno Unico Universale, introdotto in Italia nel 2022, ha unito vari bonus preesistenti semplificando l’aiuto mensile per figlio. Elena Bonetti afferma che “ha evidenze positive” nel sostenere la natalità. Certo, 175 euro al mese (importo base per figlio) non sono risolutivi, ma per molte famiglie aiutano, e l’assegno è modulato per dare di più a chi ha più figli o redditi bassi. In molti suggeriscono di potenziare ulteriormente questo strumento – ad esempio aumentando l’importo per il secondo e terzo figlio, come fatto in Francia – e di integrarlo con un trattamento fiscale agevolato (no tax area più ampia per famiglie numerose, IVA ridotta su prodotti per l’infanzia ecc.). Giancarlo Giorgetti, da tecnico d’area conservatrice, ha riconosciuto che “il Paese è di fronte a un’emergenza demografica” e ha proposto di cambiare le regole del fisco per favorire chi ha figli, anche a costo di ridurre i benefici per chi non ne ha, poiché – in prospettiva – chi fa figli contribuisce alla sostenibilità collettiva. È certo che senza un deciso intervento pubblico sarà impossibile evitare che l’Italia “invecchi senza rigenerarsi”. Non si nega certo che il problema abbia radici profonde, ma è evidente che le politiche contano. Emancipazione femminile e sostegno statale hanno permesso a paesi simili al nostro di fare meglio: gli esempi esteri lo dimostrano. L’Italia deve recuperare terreno, adottando “il meglio” di quei modelli. Dunque, fermare il declino demografico si può, seguendo l’esempio dei paesi che hanno investito sulle famiglie. Non sarà un ritorno ai baby-boom del passato, ma si può puntare ad aumentare gradualmente la natalità, magari tornando sopra 1,5 figli per donna (livello che assicurerebbe maggiore stabilità), come ancora accade in Francia. Ogni decimale di TFR guadagnato grazie al welfare significa migliaia di nascite in più l’anno e un’inversione di tendenza. Come ha detto il demografo Rosina, “ci restano 13 anni per invertire il trend” prima che diventi irreversibile. Le riforme del welfare sono la leva principale per raggiungere questo obiettivo.
Nina Celli, 8 novembre 2025
Serve un approccio più ampio: non solo culle, anche immigrazione e riforme socioeconomiche
Secondo il parere di alcuni esperti, focalizzarsi unicamente sull’aumento delle nascite rischia di distogliere l’attenzione da altre leve demografiche e strategie complementari necessarie ad affrontare il problema. Per stabilizzare la popolazione e l’economia l’Italia si deve guardare oltre la sola natalità, integrando politiche migratorie, riforme del lavoro e innovazione tecnologica. In primo luogo, si evidenzia il ruolo cruciale dell’immigrazione. Negli ultimi vent’anni, l’unica ragione per cui la popolazione italiana non è già crollata è stato il saldo migratorio positivo: abbiamo compensato i pochi nati con l’arrivo di giovani dall’estero. Un’analisi del Pew Research citata da “Avvenire” stima che dal 2000 al 2020 gli immigrati abbiano contribuito per +2,7 milioni di residenti, evitando un declino più marcato. Chi minimizza l’immigrazione sbaglia bersaglio: invece di considerarla un’invasione, bisognerebbe governarla attivamente come risorsa demografica. L’articolo de “Il Fatto Quotidiano” del 23 ottobre 2025 riporta che “per l’Italia, dove il deficit riproduttivo è acuto, l’unico fattore che contrasta il declino totale è il saldo migratorio netto”. Senza immigrati, il calo di popolazione sarebbe ancora più drammatico (in Italia anche le seconde generazioni adottano presto i bassi livelli di fecondità locali). Dunque, affermano i critici, non si può fare a meno di una politica migratoria lungimirante. Ciò significa facilitare l’ingresso e l’integrazione di giovani lavoratori stranieri, magari puntando ad attrarre famiglie intere (come suggerisce Gigi De Palo con l’idea di “ius familiae”). Immigrati con famiglia sono più propensi a stabilirsi a lungo termine, contribuendo sia come forza lavoro sia con i propri figli (attuali o futuri) alla demografia italiana. Eppure, finora l’approccio è stato emergenziale o ideologico: si è discusso di ius soli o ius scholae per i figli di immigrati in termini di diritti civili, ma raramente l’immigrazione è stata integrata in una strategia demografica. I contrari vedono questo come un grave errore: l’Italia ha bisogno di stranieri per compensare i vuoti generazionali e servono politiche attive per selezionare, formare e trattenere questi nuovi italiani. Un recente studio dell’Osservatorio CPI ha stimato che, per mantenere stabile la popolazione in età lavorativa, l’Italia dovrebbe portare a circa 300-500 mila ingressi netti annui di immigrati per molti anni. Numeri politicamente delicati, ma che danno l’idea della dimensione. Ovviamente, l’immigrazione da sola “non è la soluzione miracolosa” – come titola l’intervista a Blangiardo – perché anch’essa ha limiti (non puoi importare milioni di persone ogni anno senza problemi di integrazione). Tuttavia, è comunque una parte della soluzione. Gian Carlo Blangiardo, pur essendo favorevole alle politiche nataliste, ammette che bisogna “agire su una componente migratoria adeguata, opportunamente governata, per frenare la diminuzione della popolazione”. In parallelo, c’è il tema dell’emigrazione giovanile: ogni anno decine di migliaia di italiani, spesso qualificati, emigrano all’estero (191 mila espatri totali nel 2024, di cui 156 mila cittadini italiani). Questo è un doppio danno: riduce i potenziali genitori e disperde investimenti formativi. I contrari alzano quindi lo sguardo: per loro il dibattito non va confinato a “come far fare più figli alle coppie italiane”, ma esteso a “come rendere l’Italia un paese dove i giovani vogliono vivere e mettere su famiglia”. Ciò chiama in causa riforme socioeconomiche ampie: creare lavoro qualificato al Sud per frenare la “fuga di cervelli”, alzare i salari d’ingresso (il governo è criticato per aver ignorato misure come il salario minimo), migliorare i servizi pubblici (scuola, sanità) su tutto il territorio. In assenza di queste condizioni, anche generosi bonus figli rischiano di avere poco effetto: se un giovane vede prospettive grigie in Italia, sarà tentato di andare all’estero prima di pensare a procreare. Alcuni commentatori definiscono il calo nascite come sintomo di un malessere più ampio: stagnazione economica, precarietà, sfiducia nel futuro. Chiara Saraceno nota, ad esempio, che l’Italia è ossessionata da dibattiti sulla natalità ma non affronta realmente il nodo del benessere delle famiglie giovani. Da qui la provocazione: prima creiamo un paese migliore per i giovani (lavoro stabile, case accessibili, welfare degno di un paese avanzato), poi i figli arriveranno. In sostanza, i contrari non negano l’utilità di riformare il welfare, ma ritengono limitante farne l’unica leva. Inoltre, mettono in guardia da derive moralistiche: una politica demografica deve rispettare le libertà individuali. Non si può (né si deve) “convincere” le donne ad avere più figli tornando a modelli tradizionali. Alcune proposte di esponenti governativi – come incentivi alle mamme casalinghe o campagne retoriche sulla “gioia della maternità” – sono viste come passi falsi: il “Financial Times” evidenzia che il governo Meloni tende a incentivare le donne a stare a casa invece di facilitare la conciliazione. Questo approccio, secondo i contrari, è controproducente: rischia di alienare ancora di più le donne moderne, che percepiscono la spinta a procreare come un attacco alla propria emancipazione. Jennifer Guerra e altre commentatrici femministe hanno accusato certa retorica natalista di strumentalizzare il corpo femminile, invocando piuttosto politiche che rendano la scelta dei figli davvero libera e non penalizzante. Dunque, fermarsi alla riforma del welfare per stimolare le nascite è una strategia monca. Servono una visione complessiva e interventi su più fronti: un piano demografico a 360 gradi in cui la natalità è solo uno dei pilastri, accanto a immigrazione, mercato del lavoro, innovazione. Ad esempio, si parla anche di soluzioni “tecnologiche”: in prospettiva, la carenza di giovani lavoratori potrebbe in parte essere compensata da robotica e intelligenza artificiale (già oggi in Giappone sperano che i robot aiutino a prendersi cura degli anziani e a mantenere la produttività). Non che le macchine possano risolvere il problema umano, ma l’economia potrebbe adattarsi con l’aumento della produttività e l’automazione, riducendo l’impatto negativo della popolazione in calo. Del resto, notano alcuni, una popolazione leggermente più bassa non è di per sé una tragedia: in un pianeta con risorse limitate, molti studiosi mondiali discutono di “crescita zero” come obiettivo di sostenibilità. L’Italia sta andando in quella direzione per dinamiche interne; la sfida è gestire la transizione demografica minimizzando i danni. Se, con le riforme del welfare, tornassimo a 450 mila nati l’anno (scenario ottimistico), avremmo comunque più morti che nati per decenni, quindi il declino numerico proseguirebbe. Dobbiamo allora puntare a tenere viva l’economia e la società con meno persone, attraverso innovazioni di sistema. Quindi, il welfare pro-natalità va sì migliorato (nessuno nega che servano più nidi o sostegni alle famiglie), ma non va venduto come la panacea demografica. Occorre parallelamente aprire canali migratori, integrare gli stranieri (anche concedendo cittadinanze più rapide ai loro figli per trattenerli), e adattare il nostro modello di sviluppo. Fermare il declino demografico è probabilmente impossibile, ma possiamo governarlo con un mix di misure: un po’ più di nascite grazie al welfare (senza aspettarsi miracoli), molta più apertura all’immigrazione e incisive riforme interne per rendere l’Italia attrattiva per giovani di ogni provenienza. Solo così l’impatto dell’inverno demografico potrà essere mitigato e l’Italia potrà trovare un nuovo equilibrio sostenibile.
Nina Celli, 8 novembre 2025