Nr. 401
Pubblicato il 28/10/2025

I dati personali sono strategici per il potere geopolitico?

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

Negli ultimi anni i dati personali sono stati definiti da molti come il “nuovo petrolio” della società digitale. Parliamo di informazioni su individui raccolte da smartphone, social network, acquisti online, sensori e altri dispositivi. L’idea è che chi possiede e controlla grandi quantità di dati personali ottenga un vantaggio strategico in ambito economico e geopolitico. Questa visione ha preso piede intorno alla metà degli anni 2010, quando “The Economist” proclamò che “il bene più prezioso del mondo non è più il petrolio, ma i dati” (maggio 2017). Da allora, il dibattito si è intensificato: le potenze mondiali considerano sempre più i flussi di dati come una questione di sicurezza nazionale e sovranità, mentre studiosi e attivisti mettono in guardia dai rischi di una “corsa all’oro digitale” che può comprimere diritti e libertà.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - I dati personali sono la nuova ricchezza strategica globale

I dati personali alimentano economia e sicurezza: chi ne controlla di più guadagna vantaggi competitivi, militari e politici senza precedenti.

02 - I dati non sono il nuovo petrolio: abbondanza, replicabilità e contesto ridimensionano questo mito

A differenza del petrolio, i dati sono replicabili e utili solo se elaborati. L’ossessione di possederli porta inefficienze, costi e minori benefici.

03 - I dati personali sono un bene nazionale da proteggere

Stati e blocchi (USA, Cina, UE) trattano i dati come beni sovrani: li proteggono con leggi e li sfruttano per influenza geopolitica e sviluppo tecnologico.

04 - La corsa ai dati personali minaccia la privacy e i diritti

La corsa al dato globale minaccia privacy, diritti umani e favorisce i regimi nel monitorare e reprimere.

05 - I dati personali sono una risorsa chiave nella competizione geopolitica

Nell’era dell’IA la quantità di dati fa la differenza: Stati con dataset enormi possono addestrare algoritmi migliori, dominando settori chiave.

06 - Il Data nationalism è un boomerang economico

La data sovereignty estrema danneggia l’economia globale. Meno scambi di dati, meno conoscenza condivisa, ricerca scientifica frenata e frizioni commerciali.

07 - I dati sono un moltiplicatore delle capacità statali

Un governo che controlla efficacemente i dati dei cittadini può governare meglio, incrementando così il proprio hard power in modo indiretto.

08 - Il valore strategico dei dati è relativo e non sostituisce altri fattori di potere

I dati sono solo una delle componenti del potere. Senza capacità tecnologiche, capitale umano e visione politica, non garantiscono leadership geopolitica.

09 - Servono cooperazione e regole comuni: i dati personali vanno gestiti come bene globale

I dati dovrebbero essere trattati come una materia dove cooperazione e governance globale portano benefici maggiori per tutti, minimizzando i rischi.

 
01

I dati personali sono la nuova ricchezza strategica globale

FAVOREVOLE

Nell’economia digitale i dati personali hanno assunto un ruolo equiparabile (se non superiore) a quello delle risorse naturali tradizionali per determinare la ricchezza e la potenza di uno Stato. Con la frase “data is the new oil” si indica che l’accumulo di enormi moli di dati conferisce un vantaggio competitivo in termini di innovazione, crescita e controllo dei mercati. Le grandi piattaforme tecnologiche (quasi tutte statunitensi o cinesi) valgono trilioni di dollari grazie alla capacità di estrarre valore dai dati degli utenti (pubblicità mirata, servizi personalizzati, sviluppo di algoritmi). Questo soft power economico delle Big Tech si traduce de facto in influenza geopolitica dei Paesi che le ospitano. Ad esempio, gli Stati Uniti, patria di Google, Amazon, Facebook, hanno potuto espandere il proprio modello culturale e normativo nel mondo interconnesso, mentre la Cina, con campioni come Alibaba e Tencent, esporta sistemi di pagamento e infrastrutture digitali conformi ai propri standard. Inoltre, il possesso di dati alimenta il settore dell’intelligenza artificiale e delle tecnologie emergenti. Nella competizione globale sull’IA (considerata decisiva per la supremazia militare ed economica), disporre di più dati per addestrare gli algoritmi significa ottenere migliori risultati: basti pensare al vantaggio della Cina, con la sua popolazione digitalizzata e minori vincoli di privacy, che offre ai propri sviluppatori un bacino immenso di informazioni per il machine learning. Esperti di strategia evidenziano che l’IA può esacerbare la disparità: “il vulnerabile accesso ai dati di massa sta esacerbando i timori di sorpasso tecnologico”, poiché i Paesi autocratici possono combinare set di dati differenti per svelare segreti di governi stranieri e migliorare i propri sistemi bellici. Dunque, chi possiede dati abbondanti e di qualità domina i settori più innovativi (dall’e-commerce alla biotecnologia), accumulando ricchezza e capacità di proiezione globale. Per questo le potenze considerano i dati personali come “infrastrutture strategiche” da sviluppare: l’India, ad esempio, con il progetto Digital India, ha definito i dati “nuovo oro” e intende sfruttare il suo enorme mercato internet come leva per diventare hub tecnologico mondiale. La geopolitica del XXI secolo sarà, quindi, sempre più determinata dal possesso e dal controllo dei dati, una ricchezza intangibile che però muove industrie, mercati finanziari e innovazione, proprio come il petrolio muoveva le economie industriali del ’900.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
02

I dati non sono il nuovo petrolio: abbondanza, replicabilità e contesto ridimensionano questo mito

CONTRARIO

La metafora petrolifera è fuorviante. Molti contestano l’analogia secondo cui i dati personali sarebbero la nuova risorsa strategica, paragonabile alle materie prime del passato. Critici ed esperti evidenziano che i dati differiscono radicalmente dal petrolio in almeno tre aspetti: la non scarsità, la riusabilità infinita e la dipendenza dal contesto. Mentre il petrolio è un bene finito e la sua rarità ne determina il valore (più controllo di pozzi = più ricchezza), i dati sono generati continuamente in quantità astronomiche. Un rapporto del World Economic Forum ricorda che “nei prossimi due anni verranno creati 40 zettabyte di dati”, una quantità quasi inconcepibile. Questo implica che il valore dei dati non risiede nell’accumulazione passiva, poiché non esiste una “riserva limitata” da contendersi: tutti i Paesi e le aziende possono in teoria raccogliere dati in abbondanza (anche perché la digitalizzazione si espande ovunque). Ciò che conta è saperli filtrare e utilizzare. Come afferma Adam Schlosser (WEF), “il valore dei dati non cresce semplicemente accumulandone di più. Sono gli insight generati tramite l’analisi e la combinazione di dataset diversi che creano valore reale”. Un dataset grezzo, per quanto voluminoso, è inutile se non viene elaborato, anzi, accumulare dati senza criterio aumenta solo i costi di archiviazione e i rischi di furto. Questo porta al secondo punto: diversamente dal petrolio, che si brucia una volta e basta, i dati non si esauriscono con l’uso. Possono essere copiati e condivisi all’infinito senza perdere l’originale. Dunque, il controllo esclusivo non è sempre possibile né necessariamente desiderabile: “aggiungere altro petrolio non migliora la qualità del petrolio, mentre combinare dati da fonti diverse può generare nuove conoscenze”, scrive Schlosser. Ciò significa che la cooperazione nel campo dei dati spesso produce più valore della competizione. Ad esempio, mettere in comune dati sanitari tra Paesi può far progredire la ricerca medica (lo si è visto nella collaborazione internazionale durante la pandemia Covid-19), mentre tenerli isolati per gelosia di sovranità può rallentare le scoperte. I governi dovrebbero perseguire il data sharing sicuro, non il data hoarding. Il terzo aspetto è il contesto e la qualità: non tutti i dati hanno uguale utilità. Avere tanti dati rumorosi o ridondanti potrebbe non dare alcun vantaggio, se non si hanno le competenze per estrarne informazione di qualità. Studi come quelli di ITIF (Daniel Castro) sostengono che c’è una false promise nel data nationalism: localizzare e trattenere dati entro i confini non garantisce affatto innovazione o sicurezza, se mancano investimenti in capitale umano, infrastrutture digitali e una cultura del dato. In altri termini, la potenza dei dati è relativa: serve un ecosistema di analisi e tecnologie per valorizzarli. Paesi piccoli ma avanzati (ad esempio Estonia o Israele) riescono a sfruttare bene i dati senza averne enormi quantità, grazie a know-how e strategie mirate; mentre Paesi con popolazioni vaste (quindi tanti dati generati) ma meno capacità tecnologiche non riescono a tradurre quel potenziale in potere concreto. Un esempio è il fenomeno dei “data rich but information poor”: nazioni che raccolgono enormi dati (magari tramite videosorveglianza di massa) ma non li utilizzano efficacemente per migliorare governance o competitività. Pertanto, la narrativa “chi ha più dati vince” è una semplificazione: conta come li usi, non solo quanti ne hai. Per di più, enfatizzare i dati come nuova moneta può portare a distorsioni di policy: vari governi hanno lanciato progetti costosi di data center nazionali pensando risolvessero ogni problema, salvo poi scoprire che senza talenti e innovazione quei data center restavano sottoutilizzati (ad esempio alcuni paesi del Golfo hanno costruito enormi hub cloud rimasti semivuoti). Dunque, il mito del paragone con il petrolio ha spinto a sopravvalutare il valore intrinseco dei dati: in realtà il valore è estrinseco, dipende dallo scenario. In molti casi la cooperazione internazionale e la standardizzazione potrebbero apportare benefici comuni maggiori di una visione mercantilista, in cui ogni Stato accumula dati per sé. In campo commerciale, ad esempio, restringere i flussi di dati può danneggiare le proprie imprese (che perdono accesso a mercati globali e servizi cloud globali). Un’analisi del MIT e di Leviathan Security Group stima che le misure di data localization possono far aumentare i costi di IT delle imprese nazionali dal 30% al 60%, frenandone la competitività. Insomma, secondo molti critici i dati personali non sono una nuova valuta universale che automaticamente rende potente chi la possiede; il loro valore è condizionato.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
03

I dati personali sono un bene nazionale da proteggere

FAVOREVOLE

I sostenitori del valore strategico dei dati sottolineano che i dati personali, oltre al valore economico, abbiano una valenza sovrana: per lo Stato rappresentano sia una fonte di potere sia una potenziale vulnerabilità. Vanno quindi trattati alla stregua di beni nazionali strategici. Tale prospettiva è evidente nelle politiche di data sovereignty adottate da un numero crescente di Paesi. La Cina è l’esempio più citato: già dal 2015 ha promulgato leggi per localizzare i dati nel territorio e impedire accessi esteri non autorizzati. Nel 2021, con la Legge sulla sicurezza dei dati, Pechino ha formalizzato che qualunque informazione riguardante la sicurezza nazionale, l’economia o gli interessi pubblici cinesi non deve uscire dal Paese. Subito dopo, ha introdotto revisioni severe per le aziende tech che vogliono quotarsi all’estero: se gestiscono dati su più di un milione di utenti, devono ottenere un nullaosta governativo per evitare fughe di informazioni strategiche. L’approccio cinese è netto: i dati dei cittadini cinesi appartengono alla Cina e nessuno – né multinazionali straniere né altre nazioni – può disporne a piacimento. Questo garantisce a Pechino un duplice vantaggio: da un lato tutela la sicurezza nazionale (evitando che enti di intelligence stranieri sfruttino dati cinesi), dall’altro crea le condizioni per far crescere i campioni tecnologici domestici (che possono accedere a tanti dati protetti da concorrenza esterna). Anche la Russia, sebbene con un’industria digitale meno sviluppata, dal 2015 ha imposto per legge che tutti i dati personali dei cittadini russi siano conservati su server localizzati in Russia, pena pesanti sanzioni: una mossa che riflette sia il timore della sorveglianza occidentale sia la volontà di stimolare investimenti in data center locali. Allo stesso modo, l’Unione Europea, pur partendo da premesse legate ai diritti fondamentali, ha finito per rivendicare il principio dell’“autonomia strategica” sui dati. Casi come lo scandalo NSA (con intercettazioni di leader UE) e la sentenza Schrems II hanno convinto Bruxelles che dipendere giuridicamente dagli USA per la protezione dei dati dei propri cittadini era inaccettabile. Il GDPR è stato il primo passo – definito non a caso “scudo invisibile” o “argine strategico” – per impedire la dispersione incontrollata all’estero dei dati europei; successivamente, l’UE ha varato un arsenale di norme (Data Governance Act, proposta di Regolamento sull’AI ecc.) e lanciato progetti come Gaia-X per promuovere un ecosistema cloud europeo sovrano. I sostenitori di questa linea affermano che controllare i dati significa preservare la propria libertà d’azione geopolitica. Un Paese privo di controllo sui dati dei suoi cittadini rischia infatti di subire interferenze su vasta scala (pensiamo a come l’accesso straniero a dati sanitari, finanziari o energetici potrebbe essere usato per pressioni e ricatti economici). Al contrario, erigere muri di protezione consente di costruire un potere negoziale: l’UE, con il GDPR, è riuscita a imporre le proprie regole alle Big Tech mondiali, dimostrando che l’extraterritorialità normativa è possibile. Anche il recente divieto di TikTok sui dispositivi governativi in molti Paesi (USA, UE, India) si basa sul concetto che i dati raccolti dall’app non devono finire sotto l’egida del Partito Comunista Cinese. La sovranità sui dati personali è divenuta un pilastro del potere statuale moderno, proteggerli equivale a difendere confini virtuali e a garantirsi una quota di potere nell’arena globale.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
04

La corsa ai dati personali minaccia la privacy e i diritti

CONTRARIO

Trattare i dati personali come risorsa strategica può avere un impatto negativo sulle libertà civili, sulla democrazia e sui diritti umani. I contrari sostengono che elevare i dati ad asset di potere incentiva governi e aziende a raccoglierne in modo invasivo, giustificando pratiche di sorveglianza di massa in nome della sicurezza o della competitività economica. Il risultato potrebbe essere una deriva verso società orwelliane, in cui privacy e autonomia individuale vengono sacrificate sull’altare della “ragion di Stato digitale”. Questo timore è fondato su tendenze reali: in diversi Paesi si osserva che, quando la narrazione “i dati sono fondamentali per la nazione”, prende piede, si assiste a un ampliamento dei poteri di raccolta dati delle autorità e a una compressione delle tutele. Un esempio estremo è la Cina, dove lo Stato – ritenendo i dati un elemento chiave della governance – ha implementato negli ultimi anni un sistema di monitoraggio capillare: dalle telecamere di riconoscimento facciale (oltre mezzo miliardo nel Paese) ai sistemi di punteggio sociale che integrano dati finanziari, giudiziari e persino comportamentali dei cittadini. Per i detrattori, questo mostra come considerare i dati strategici porti con sé la tentazione per i governi di “possedere” tutta la vita digitale dei cittadini, con il pretesto del bene comune. Carlo Impalà, in un articolo, rileva proprio come dietro frasi fatte tipo “la privacy non esiste più, ce lo chiede la concorrenza globale” si celi un pericoloso scivolamento culturale: i diritti vengono degradati a ostacoli e si afferma una mentalità di emergenza permanente che normalizza la sorveglianza. Egli avverte che questa “apparente ragionevolezza” di mettere i dati al servizio di priorità superiori nasconde un “rischio di regressione democratica” ben noto in Europa. In effetti, storicamente i momenti di crisi (guerre, terrorismo) portano i governi a espandere i poteri di controllo, ma il rischio è che la trasformazione digitale stia creando uno stato di eccezione permanente: la competizione geopolitica viene usata per giustificare misure straordinarie anche in tempi di pace. Pensiamo agli USA: dopo l’11 settembre 2001 attuarono programmi di sorveglianza di massa (Prism, XKeyscore ecc.) in nome della sicurezza nazionale; oggi, in piena rivalità con Cina, il Justice Department lancia un programma per monitorare e limitare le transazioni di dati personali, definendo l’accesso straniero ai dati degli americani una “minaccia straordinaria e urgente”. Se pure un Paese democratico arriva a misure così invasive (vietare la vendita di interi dataset a stranieri, controllare aziende tech nelle loro operazioni sui dati), figuriamoci regimi autoritari con meno contrappesi. Nanjala Nyabola chiama tutto ciò “promessa di sfruttamento”: i governi presentano l’estrazione dati come progresso, ma poi la utilizzano per consolidare il potere e mantenere uno status quo di disuguaglianze. Nei suoi esempi dal Kenya, i sistemi di ID digitale e schedatura biometrica – venduti come modernizzazione – finiscono per escludere minoranze e privarle di servizi, mentre lo Stato ottiene strumenti per sorvegliare e commercializzare i dati dei cittadini senza garanzie. La European Data Protection Supervisor (autorità UE) ha a sua volta messo in guardia: in un contesto geopolitico segnato dal “potere degli algoritmi”, bisogna ridisegnare i confini del possibile tenendo al centro la dignità umana, altrimenti la domanda crescente di sicurezza alimenta spirali autoritarie. In sostanza, i contrari dicono che, anche se i dati personali sono diventati strategici, considerarli una risorsa sfruttabile comporta costi altissimi in termini di diritti. Si rischia di legittimare un modello di sorveglianza permanente (il “modello Pechino”) o un capitalismo della sorveglianza in cui i cittadini perdono ogni controllo sulle proprie informazioni, col pretesto che “serve al progresso o alla sicurezza”. Gli sviluppi già osservati – dalle leggi antiterrorismo che espandono la raccolta di dati finanziari e di viaggio, ai software di polizia predittiva che profilano minoranze – indicano una deriva reale. I critici propongono invece un modello alternativo: “governare i dati, non sorvegliarli” (riprendendo le parole di Impalà). Ovvero, riconoscere sì l’importanza strategica, ma porre limiti chiari e trasparenza: i dati devono servire all’empowerment dei cittadini e al miglioramento dei servizi, non a costruire uno Stato di polizia digitale. La data-mania geopolitica, dunque, può condurre a società meno libere e aperte e, in definitiva, a minare proprio quei valori e quelle basi democratiche che costituiscono la forza morale e politica di un attore sulla scena mondiale. Un paradosso auto-lesionista, da evitare bilanciando attentamente innovazione, sicurezza e diritti.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
05

I dati personali sono una risorsa chiave nella competizione geopolitica

FAVOREVOLE

Con l’avvento di Internet e dei social media, la quantità di dati su preferenze, opinioni, abitudini dei cittadini (anche di Paesi esteri) è esplosa. Questi dati sono diventati un bottino ambito nei conflitti non convenzionali. I sostenitori notano che siamo entrati nell’era della cosiddetta “cognitive warfare” (guerra cognitiva), in cui l’obiettivo è conquistare “i cuori e le menti” dell’opinione pubblica avversaria manipolando l’informazione. In questo contesto, i dati personali fungono da munizioni per operazioni di persuasione di massa. Il caso emblematico già citato è quello di Cambridge Analytica. L’uso non autorizzato dei dati di milioni di utenti Facebook per condizionare elettori negli Stati Uniti, nel referendum Brexit e in vari Paesi ha mostrato come dati apparentemente innocui (i “mi piace”, i profili psicologici dedotti) possano essere sfruttati per alterare processi democratici sovrani. Ma lo scenario va oltre: Russia e Cina sono accusate di condurre campagne sistematiche di disinformazione online, micro-targettizzando specifici segmenti in Europa o America grazie a dati profilati (ad esempio, attraverso account fake e strumenti di social listening). Nel 2016 l’intelligence USA ha denunciato l’ingerenza russa nelle elezioni presidenziali non solo tramite gli hack di e-mail, ma anche con un massiccio uso di dati social per diffondere propaganda e fake news calibrate sui gruppi sociali identificati come decisivi. Anas Ammar, in un’analisi per l’FNF, elenca tra i “meccanismi critici” del potere dei dati proprio le “influence operations”. Ad esempio, cita come la Cina abbia sfruttato l’analisi dei dati sui social media durante le proteste di Hong Kong per indirizzare campagne di contro-narrazione propagandistica. I dati personali diventano quindi “arma di soft power”: uno Stato può raccogliere enormi dataset su cittadini stranieri (magari attraverso app molto diffuse come TikTok, o attraverso violazioni mirate, come l’attacco cinese a Equifax nel 2017, che compromise i dati finanziari di 145 milioni di americani) e usare quelle informazioni per identificare punti deboli, manipolare l’opinione, reclutare informatori o screditare figure pubbliche. Sul fronte interno, poi, regimi autoritari come la Cina usano i dati personali per il controllo sociale (famoso il sistema di credit score che combina dati finanziari, di geolocalizzazione e facciali per premiare o punire comportamenti) e questa capacità di monitorare ogni aspetto della vita dei cittadini viene considerata una nuova dimensione del potere statale. Chi padroneggia i big data avrà un vantaggio sia in fase di prevenzione (intelligence predittiva: anticipare minacce terroristiche o moti popolari analizzando trend nei dati) sia in fase offensiva (colpire il morale e il consenso di un Paese nemico con operazioni psicologiche mirate). L’uso militare dei dati si estende anche ai campi tradizionali: ad esempio, l’esercito USA utilizza analisi di dati commerciali (geolocalizzazione da smartphone, immagini da social) per integrare le informazioni di spionaggio classiche, mentre la NATO ha riconosciuto il cyberspazio (dove i dati circolano) come quinto dominio bellico, accanto a terra, aria, mare e spazio. Insomma, i dati personali sono divenuti “il nervo dell’informazione globale”: controllarli permette di influenzare comportamenti e decisioni su scala vasta, facendo pendere la bilancia geopolitica a proprio favore senza violenza. Ciò li rende a tutti gli effetti uno strumento strategico di potere, soprattutto in un’epoca in cui conflitti ibridi e competizione sottosoglia (non dichiarata apertamente) sono sempre più frequenti.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
06

Il Data nationalism è un boomerang economico

CONTRARIO

Esistono conseguenze negative, soprattutto sul piano economico e tecnologico, a un approccio geopolitico troppo incentrato sui dati come risorsa strategica. In particolare, il “data nationalism” (nazionalismo dei dati) e la “balcanizzazione di Internet” (la tendenza degli Stati a erigere confini digitali attorno ai dati nazionali, per motivi di sovranità e sicurezza), rischiano di spezzare la rete globale e di impoverire tutti sul lungo termine. Questo argomento mette in rilievo che la libera circolazione dei dati è stata finora un volano fondamentale per l’innovazione e la crescita mondiale. Politiche protezionistiche come la localizzazione obbligatoria dei dati, i divieti di trasferimento e la duplicazione di infrastrutture (cloud nazionali isolati) generano inefficienze e costi che poi si ripercuotono su consumatori e imprese. Ad esempio, se ogni Paese pretende di conservare tutti i dati entro i propri confini, aziende globali come Microsoft o Amazon dovranno costruire data center ovunque, rinunciando alle economie di scala, e i servizi digitali diventano più costosi e meno performanti. Bernard Marr e altri esperti aziendali sostengono che l’idea di monetizzare i dati nazionali come fosse petrolio attraverso dazi o restrizioni potrebbe soffocare l’ecosistema digitale più di quanto lo arricchisca. Si citano rapporti (es. Leviathan Security 2015) che stimavano aumenti di costi dal 30% in su per servizi cloud in Brasile e UE se si vietasse del tutto la gestione transfrontaliera. Non a caso, associazioni industriali e ONG hanno criticato normative come quelle russe o cinesi come meri strumenti di protezionismo economico travestiti da sicurezza. Anche sul fronte innovazione, blindare i dati entro confini nazionali priva i ricercatori dell’accesso a dataset internazionali cruciali (si pensi alla ricerca medica che necessita di basi di dati globali per trovare correlazioni significative su malattie rare). Adam Schlosser (WEF) nota che quando i governi accumulano dati in silos nazionali e li “chiudono a chiave”, si perdono opportunità: ad esempio, grazie ai dati globali si sono sviluppati sistemi per avvisare i familiari in caso di disastri (safety check di Facebook) e progetti per oceani sostenibili; se i dati fossero stati isolati per sovranismo, tali progressi non sarebbero stati possibili. Un caso concreto di boomerang economico è la vicenda del Vietnam, che nel 2018 ha introdotto una legge che impone alle aziende straniere di localizzare i dati degli utenti vietnamiti su server domestici e di aprire uffici in loco. Il risultato, secondo analisi di “Business”, è stato un calo degli investimenti tech esteri in Vietnam, perché per molte startup internazionali i costi aggiuntivi (infrastrutture, compliance) non valevano il mercato vietnamita. Ciò significa meno concorrenza e innovazione per i consumatori locali. Un discorso simile vale per la UE. Sebbene il GDPR abbia dato benefici in termini di fiducia, alcuni critici interni notano che l’eccessiva rigidità europea su privacy potrebbe aver frenato lo sviluppo di servizi AI e big data in Europa, costringendo molte aziende innovative a spostarsi dove l’uso dei dati è più facile (USA). Francesco Giorgianni (citato da Alverone) ha detto che il GDPR “ha contenuto la dispersione dei dati europei nel mondo”, ma la sfida operativa è tradurlo in innovazione. In UE grandi dataset anonimizzati per la ricerca AI spesso non si possono utilizzare per via di regole stringenti; ciò spinge talenti e aziende verso l’estero. Dunque, un eccesso di zelo sovranista rischia di trasformarsi in auto-limitazione competitiva. E poi, la frammentazione per Stati indebolisce la sicurezza collettiva: l’approccio globale (ad esempio, accordi internazionali su cybersecurity, standard comuni su privacy) potrebbe creare un ambiente più sicuro per tutti, mentre ogni Paese che va per conto proprio genera incompatibilità che possono essere sfruttate da attori malintenzionati (ad esempio, hacker che trovano rifugio in giurisdizioni “protette” dalla cooperazione). La spinta USA a bloccare i flussi verso la Cina è comprensibile geopoliticamente, ma se estremizzata potrebbe portare a un Internet biforcato (splinternet) con due ecosistemi non comunicanti. Ciò ridurrebbe la scala dei mercati per le imprese e impedirebbe la libera circolazione della conoscenza. Anche l’utente finale ne soffrirebbe, dovendo rinunciare a servizi o interfacciarsi con versioni separate (ad esempio, già oggi alcuni software e app non possono operare in Cina per via delle restrizioni sui dati e, viceversa, prodotti cinesi sono banditi in Occidente).
Trattare i dati personali unicamente come “patrimonio geopolitico” porta a politiche miopi di chiusura e nazionalismo digitale che nell’immediato possono dare l’illusione di proteggere, ma nel lungo termine impoveriscono l’ecosistema digitale e quindi lo stesso potenziale innovativo e di crescita del Paese. La vera sfida sarebbe invece trovare un equilibrio tra i due approcci: garantire sicurezza e sovranità senza rinunciare ai benefici dei flussi di dati globali. In pratica, il concetto di “Free Flow of Data with Trust” proposto dal G20 (Osaka Track), che però finora stenta a decollare per via delle diffidenze diffuse.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
07

I dati sono un moltiplicatore delle capacità statali

FAVOREVOLE

L’ampia disponibilità di dati personali consente a uno Stato di migliorare significativamente le proprie capacità amministrative, economiche e scientifiche, incrementando così il proprio hard power in modo indiretto. Un governo che controlla efficacemente i dati dei cittadini può governare meglio. Ad esempio, può pianificare politiche pubbliche basate su analisi dettagliate (dalla mobilità urbana ai trend sanitari emergenti), aumentando l’efficienza e la resilienza della società. Modi e altri leader di Paesi emergenti affermano che sfruttare i dati permetterà di “fare il salto” in settori come l’istruzione e la sanità, analogamente a come il petrolio arricchì rapidamente nazioni arretrate. Chi riesce a estrarre conoscenza dai big data interni può anticipare crisi (ad esempio rilevando segnali di epidemie tramite ricerche online, come hanno tentato con Google Flu Trends), contrastare meglio la criminalità (incrociando banche dati diverse per individuare reti terroristiche o mafiose) e ottimizzare l’allocazione di risorse. Tutto ciò rende il Paese più competitivo e stabile, dunque più influente.
Sul piano economico, uno Stato che protegge i dati dei propri cittadini può anche trarne profitto o valore aggiunto internamente: la Russia, ad esempio, con le leggi di localizzazione del 2015, non solo puntava alla sicurezza ma anche a “costringere” le multinazionali a investire in data center russi, generando occupazione e know-how locale. Esiste una sorta di “nazionalismo dei dati” analogo a quello industriale: come avere industrie manifatturiere forti contribuiva al potere di una nazione nel ’900, oggi avere un ecosistema digitale autosufficiente e trattenere il valore dei dati nel proprio territorio è considerato strategico. Ciò si collega anche al concetto di “data colonialism”: finora i dati personali di miliardi di persone (in Africa, Sud America, Asia) sono stati raccolti e sfruttati quasi esclusivamente da aziende di pochi Paesi (USA/Cina), generando un flusso di ricchezza unidirezionale. Paesi come il Brasile, l’India o l’Indonesia sostengono in sede ONU e G20 che questa dinamica vada corretta e stanno implementando normative per “liberarsi da un nuovo colonialismo digitale”. Ad esempio, l’India ha resistito alla dichiarazione di Osaka sul libero flusso dei dati (DFFT) nel 2019, dichiarando prioritario poter costruire prima la propria capacità digitale nazionale. L’Unione Africana ha anch’essa prodotto linee guida che combinano cybersecurity e protezione dati come pilastri per lo sviluppo sovrano. Questi Stati sostengono che controllare i dati interni consenta loro di sviluppare industrie locali (dal fintech all’e-commerce) senza venire schiacciati dai monopoli esteri, e di proteggere la popolazione da sfruttamenti (si pensi alle polemiche sull’uso di dati di africani da parte di organizzazioni internazionali senza adeguato ritorno). In sostanza, il possesso di dati personali diventa un moltiplicatore di potenza su vari fronti: potenzia l’azione di governo, alimenta lo sviluppo economico interno e riduce la dipendenza tecnologica dall’esterno. Chi accumula questi benefici migliora la propria posizione geopolitica relativa. Rebecca Arcesati (MERICS) nota che la Cina, ad esempio, definisce i dati “fattore di produzione” economico al pari di terra e capitale e ne massimizza il valore all’interno, credendo che il mercato da solo non ne ottimizzi l’uso senza intervento statale. Dall’altro lato, gli Stati Uniti – forti di un vantaggio iniziale – hanno interesse a mantenere liberi flussi globali (che di fatto favoriscono le proprie aziende), ma al contempo riconoscono che per restare leader devono impedire agli avversari di colmare il gap accedendo ai dati americani: da qui i divieti recenti di vendere dati sensibili a società cinesi o russe. C’è, dunque, una logica di realpolitik molto concreta: più dati personali (ben gestiti) significano uno Stato più forte internamente e più capace di influenzare l’esterno. Trascurare questa risorsa vorrebbe dire lasciare vantaggi altrui sul tavolo, con possibili conseguenze sul benessere e sulla sicurezza nazionale.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
08

Il valore strategico dei dati è relativo e non sostituisce altri fattori di potere

CONTRARIO

Per quanto utili, i dati non rimpiazzano altri elementi classici del potere geopolitico né garantiscono automaticamente dominio o influenza. In breve: i dati sono importanti, ma non onnipotenti. Nella storia, molte “nuove risorse” sono state inizialmente considerate decisive, per poi rivelarsi solo una componente di un puzzle più grande. Ad esempio, negli anni ’70 si parlava del “potere del petrolio” delle petrol-monarchie, e certamente quel fattore dava loro peso; ma non ha reso quei Paesi superpotenze complete, perché mancano di altri attributi (popolazione, forza militare diversificata, alleanze, innovazione tecnologica in altri campi). Analogamente, oggi si vede la Cina come colosso dei dati e dell’AI; tuttavia, la sua influenza globale dipende anche da fattori tradizionali (capacità economica manifatturiera, spesa militare, diplomazia) e soffre dei limiti di un sistema politico poco attraente per molte nazioni (soft power culturale limitato). Dall’altra parte, la Russia in teoria ha accesso a molti dati (anche grazie a hacking e intelligence aggressiva) e li usa per disinformazione, eppure il suo potere geopolitico è eroso dalle sanzioni economiche e da fattori demografici. I dati non le hanno evitato problemi strategici seri, come mostrato dal conflitto in Ucraina. Dunque, nessun singolo fattore garantisce il potere. Sul fronte economico, avere tanti dati non basta se non si ha un apparato industriale e formativo adeguato: l’Europa possiede dati di alta qualità (per esempio nel settore manifatturiero, automobilistico, scientifico) ma finora non è riuscita a tradurli in giganti digitali propri. Ciò dimostra che contano l’ecosistema imprenditoriale, l’accesso ai capitali di rischio, la cultura dell’innovazione, non solo la materia prima dei dati. Un governo può accumulare montagne di dati sulla propria popolazione, ma se non c’è buon governo quei dati restano inutili: paesi altamente corrotti o instabili politicamente non trarranno benefici strategici dai dati perché mancherà loro la fiducia per usarli efficacemente (si pensi all’India, che pur avendo enormi set di dati biometrici e digitali, fatica ancora a tradurre questo potenziale in servizi pubblici efficienti e influenza tecnologica globale, anche a causa di problemi di governance e privacy). Inoltre, il potere geopolitico rimane multidimensionale: le alleanze internazionali, il prestigio diplomatico, la coesione interna, la disponibilità di risorse energetiche reali, perfino la superiorità militare convenzionale sono fattori che i dati da soli non possono compensare. L’Iran ha accumulato grandi capacità cyber e raccoglie dati per sorvegliare la propria popolazione, ma il suo isolamento economico e militare limita la sua proiezione all’esterno. Viceversa, piccole democrazie come la Svizzera o la Nuova Zelanda hanno poca rilevanza in termini di big data, eppure esercitano un soft power e un’influenza diplomatica in virtù di altri attributi (reputazione, stabilità, competenze di nicchia). Sminuire questi aspetti e concentrarsi ossessivamente sui dati può portare a investimenti pubblici mal calibrati. Diversi analisti notano il rischio che la “febbre dei dati” provochi un dispendio di risorse in megaprogetti digitali poco fruttuosi: data center costruiti solo per ragioni politiche, piattaforme nazionali ridondanti rispetto a soluzioni globali migliori ecc., togliendo fondi magari all’istruzione o alla sanità. Un esempio citato è l’ambizione europea di totale autonomia cloud: una nobile idea per la sovranità, ma c’è chi teme che replicare da zero infrastrutture già offerte da aziende USA possa costare moltissimo e risultare inferiore, finendo per penalizzare l’innovazione locale. Un quadro di Henry Kissinger (che ha iniziato a occuparsi di IA) suggerisce che la potenza di una nazione nel futuro dipenderà da una combinazione di fattori: chi integrerà meglio dati e intelligenza artificiale nel tessuto economico-militare, ma sempre insieme a leadership politica, organizzazione sociale e valori condivisi. Se una società sacrifica troppi valori per i dati potrebbe perdere legittimità o coesione – indebolendo il suo potere “morale” (su cui insiste l’Occidente). Pertanto, i dati personali non vanno mitizzati come “arma finale”: sono un fattore importante, sì, ma servono strategie equilibrate. Un policymaker deve guardarsi dall’“illusione tecnologica” di risolvere ogni problema accumulando dati. Anche con tanti dati, se la politica estera è sbagliata o l’economia non è sana, il potere declina comunque. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno una posizione di forza anche sui dati (grazie alle Big Tech), ma riconoscono che il vantaggio non è garantito per sempre: investono in chip, in formazione STEM, in alleanze (Quad, IPEF), segno che considerano i dati una componente di un insieme più vasto di leve geopolitiche. Dunque, il potere geopolitico è il risultato di più fattori sinergici. Focalizzarsi eccessivamente sui dati personali come “il” fattore strategico potrebbe far perdere di vista altre priorità e indebolire, paradossalmente, la posizione generale di uno Stato.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

 
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Servono cooperazione e regole comuni: i dati personali vanno gestiti come bene globale

CONTRARIO

Invece di accettare la premessa che i dati personali siano oggetti su cui costruire potere geopolitico in senso conflittuale, dovrebbero essere trattati come una materia dove cooperazione e governance globale portano benefici maggiori per tutti, minimizzando i rischi. L’approccio realpolitik ai dati (ognuno per sé, con logica di potenza) è pericoloso e inefficiente, si dovrebbe invece sviluppare un regime internazionale di regole, simile a quanto fatto per altri beni comuni (spazio, mari, clima). Ad oggi, manca un vero trattato globale sui dati e senza regole condivise, prevale la legge del più forte (o del più spregiudicato) che giustifica abusi. Per esempio, Access Now e altre ONG hanno chiesto alle Nazioni Unite una moratoria globale sulla sorveglianza biometrica di massa, per evitare una corsa tecnologica tra Stati che porti all’adozione generalizzata di strumenti invasivi (telecamere intelligenti, spyware di Stato) e al conseguente calo mondiale della privacy. Altri esperti propongono una “Digital Geneva Convention” che proibisca certi cyber-attacchi a infrastrutture civili e la raccolta di dati sanitari a fini bellici. In campo commerciale, l’OMC discute da anni della liberalizzazione degli e-commerce data flows, ma i negoziati sono complicati. Un accordo multilaterale darebbe certezze a tutti gli attori economici, mentre l’attuale mosaico di leggi nazionali crea costi e incertezze. Un’iniziativa come la proposta giapponese del G20 sul Data Free Flow with Trust va in questa direzione: incoraggiare interoperabilità normativa e fiducia reciproca, cosicché i dati possano circolare per scopi legittimi (commercio, ricerca) ma con garanzie di protezione. Paesi come l’India o il Sudafrica hanno tuttavia bloccato tale dichiarazione temendo di avvantaggiare le Big Tech straniere. Ma la strada migliore non è il ritiro autarchico, bensì negoziare condizioni eque. Ad esempio, l’idea di un data sharing for development auspica che i giganti privati condividano anonimamente parte dei loro dati con organizzazioni internazionali per il bene pubblico (come mobilità, clima, salute globale), secondo regole fissate da accordi. Questo trasformerebbe i dati da oggetto di contesa a risorsa condivisa, riducendo la spinta ad accaparrarseli unilateralmente. Inoltre, i contrari notano che uno scenario di guerra dei dati non conviene davvero a nessuno a lungo termine: se ogni fazione blocca i dati altrui, anche la ricerca scientifica e la lotta alle sfide comuni (pandemie, cambiamento climatico, criminalità transnazionale) ne risentono. La cooperazione investigativa internazionale, ad esempio, dipende dallo scambio di dati (si pensi all’Interpol o ai trattati sul trasferimento di dati finanziari per tracciare il terrorismo). Chiudere i rubinetti per sfiducia reciproca potrebbe ostacolare anche la sicurezza anziché rafforzarla. Va inoltre considerato che molti attori che detengono dati non sono Stati nazionali ma entità private: nessuno Stato da solo può controllare tutti i dati, perché gran parte è in mano a Facebook, Google, Amazon, Tencent ecc. Un approccio cooperativo includerebbe anche regole globali per le aziende (standard comuni antitrust, requisiti di trasparenza algoritmica) onde evitare che la competizione tra Stati lasci carta bianca ai monopolisti privati, che poi sfruttano i vuoti normativi a scapito degli utenti. Amnesty International ha definito Facebook e Google “sorveglianza capitalistica” incompatibile coi diritti umani e ha invocato normative globali per limitarne la raccolta dati.
Vedere i dati personali solo come strumenti di potere geopolitico è una profezia che si auto-avvera pericolosamente: innesca una corsa agli armamenti digitali che porta tutti a investire in sorveglianza e a blindare dati, distruggendo la fiducia globale. Invece, andrebbero istituiti meccanismi di fiducia reciproca: accordi sul rispetto della privacy (magari integrati nei trattati commerciali), cooperazione giudiziaria più forte (per consentire accessi legali ai dati senza conflitti giuridici) e iniziative ONU per dichiarare certi dati (come quelli sanitari o genetici) “off-limits” da uso militare. Dunque, l’enfasi su “dati strategici = potere” è non solo esagerata nei fatti, ma pure dannosa. È preferibile parlare di responsabilità condivisa sui dati, promuovendo standard globali che limitino l’uso malevolo e permettano la circolazione in modo sicuro. Questo approccio toglierebbe ai dati quell’aura di “ambito di competizione feroce” e li riporterebbe a essere uno strumento importante, ma di cui l’umanità nel complesso può beneficiare cooperando anziché confliggendo.

Madeleine Maresca, 28 ottobre 2025

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