Discorso di Trump alla Knesset
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il 13 ottobre 2025 il presidente Donald Trump ha tenuto uno storico discorso davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, celebrando il cessate il fuoco raggiunto dopo due anni di guerra tra Israele e Hamas e il ritorno degli ultimi ostaggi israeliani. Accolto da ovazioni e definito “il miglior amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”, Trump ha proclamato “l’alba storica di un nuovo Medio Oriente” segnando “la fine di una lunga era di terrore”. Nel suo intervento di un’ora, interrotto solo brevemente dalla protesta di due deputati arabo-israeliani poi espulsi dall’aula, Trump ha ribadito lo stretto legame USA-Israele e rivendicato il merito di aver posto fine a un conflitto costato perdite immani: gli attacchi israeliani su Gaza hanno causato oltre 66.000 vittime palestinesi secondo le autorità locali, mentre l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 aveva ucciso circa 1.200 israeliani.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Il discorso di Trump ha rinsaldato come mai prima il legame USA-Israele, offrendo conforto e speranza dopo due anni di guerra.
Trump non ha mai espresso cordoglio per le enormi perdite palestinesi, né menzionato i civili di Gaza sterminati dai bombardamenti.
Trump ha delineato una visione di pace duratura. Ha richiamato gli Accordi di Abramo, suggerendo che l’alleanza tra Israele e Paesi arabi possa ora estendersi e consolidarsi.
Quella di Trump è una “pace farsa”. Non c’è alcun impegno per punire i crimini di guerra né per togliere il blocco a Gaza: così la tregua resta fragile e ingiusta.
Per la prima volta nella storia, leader arabi e musulmani di primo piano hanno applaudito gli sforzi di Trump per la pace in Medioriente.
Il piano di pace rischia di perpetuare il conflitto: senza rappresentanza né sovranità, i palestinesi restano spettatori del proprio futuro.
Trump ha distolto l’attenzione dai temi cruciali e alimentato il sospetto che mirasse soprattutto a consolidare la propria immagine.
Trump è il Peace President di Israele
L’intervento di Trump alla Knesset è stato un necessario gesto di leadership e amicizia verso Israele, che ha infuso speranza dopo due anni di guerra. Il presidente USA ha saputo parlare al cuore degli israeliani colpiti dal trauma del 7/10, offrendo solidarietà e l’impegno a “non dimenticare mai, mai più”. La platea lo ha accolto come un liberatore: introdotto come “il migliore amico che Israele abbia avuto”, Trump ha ricevuto standing ovation e applausi bipartisan, segno di un consenso raramente visto alla Knesset. In piazza, decine di migliaia di israeliani commossi hanno associato il suo arrivo alla fine dell’incubo – “Trump ha fatto tutto”, esclamano alcuni tra gli abbracci e le lacrime. Nel discorso, Trump ha elogiato il coraggio di Israele e condiviso il lutto per gli attacchi subiti, per poi proclamare l’inizio di un’era di pace per “tutti i popoli della regione”. Questo messaggio inclusivo, unito al calore umano mostrato (ha ringraziato i mediatori arabi e perfino Ivanka per la sua conversione all’ebraismo, guadagnandosi un’ovazione), ha consolidato la sua immagine di costruttore di ponti. La giornata storica del 13 ottobre ha visto gli ultimi 20 ostaggi tornare vivi a casa e la folla a Tel Aviv inneggiare a Trump come all’artefice del miracolo. Agricoltori hanno scritto “Nobel 4 Trump” nei campi e perfino esponenti politici d’opposizione lo hanno ringraziato pubblicamente. Dopo anni di tensioni tra Israele e Washington, l’evento ha segnato una riappacificazione totale: “quando Trump è stato eletto, da un giorno all’altro tutto è cambiato”, ha detto Netanyahu, riconoscendogli di aver fatto per Israele ciò che “nessun altro presidente americano” aveva mai fatto. Il discorso di Trump – coi suoi toni calorosi e il suo sincero entusiasmo – ha rinsaldato un’alleanza fondamentale, ridato fiducia a un popolo provato e incarnato il ruolo (persino scritto sui cappellini) di “Presidente della Pace”. In un Medio Oriente spesso diffidente verso interventi esterni, Trump è riuscito nell’impresa di farsi percepire come amico e protettore: un risultato politico e umano di enorme portata.
Per la prima volta in due anni, le armi tacciono e gli ostaggi sono liberi: questo risultato tangibile porta la firma di Donald Trump. Nel suo discorso egli ha potuto proclamare – con enfasi ma a ragion veduta – “questa lunga e difficile guerra è finita”. Le sue parole sanciscono un fatto senza precedenti: Hamas ha deposto le armi e liberato tutti gli ostaggi superstiti, evento a cui nessuno, nei momenti più bui, osava sperare. Trump ha illustrato davanti alla Knesset i termini concreti della vittoria: 20 israeliani strappati alla prigionia, 250 detenuti palestinesi di lungo corso e 1.700 arrestati dopo il 7/10 rilasciati, un’“alba storica” per una Terra Santa finalmente in pace. Ha ricordato che l’incubo di due anni – sirene, bombe, coprifuoco – ora è terminato. Questo traguardo, ottenuto con la forza ma anche con la diplomazia, è stato riconosciuto persino da voci inizialmente critiche: la sinistra israeliana e gli osservatori internazionali ammettono che Trump è riuscito dove altri hanno fallito. Il “Forward” sottolinea come la tregua di Trump realizzi ciò che gli ebrei americani auspicavano dal 2023: “il ritorno degli ostaggi, la fine delle sofferenze dei palestinesi e la rimozione di Hamas come minaccia”. Anche esponenti liberal, pur poco inclini a lodarlo, hanno dovuto “prendere atto” che il suo approccio risoluto ha funzionato. Netanyahu, che pure aveva promesso di distruggere Hamas militarmente, ha riconosciuto che l’accordo di Trump “ha conseguito tutti gli obiettivi” e porta a casa risultati concreti. L’elemento umanitario è cruciale: le immagini degli abbracci tra ostaggi e famiglie – definite “potentemente emozionanti” anche da media non teneri con Trump – testimoniano che questo accordo ha salvato vite dall’incubo. Trump stesso, incontrando in privato alcuni ostaggi liberati, è apparso toccato e consapevole della portata storica del momento. Si può discutere su chi ne tragga vantaggio politico, ma è indubbio che il cessate il fuoco made in Trump abbia “cambiato tutto”: ha messo fine a due anni di sangue, prevenendo ulteriore distruzione e gettando le basi per un nuovo capitolo. Anche critici interni come Bernie Sanders hanno dovuto riconoscere nei fatti il valore del ritorno a casa degli ostaggi, pur “esitando a dare credito a Trump” secondo “Fox News”. In sintesi, il discorso di Trump alla Knesset ha celebrato – a ragione – una vittoria umanitaria e strategica: lo stop alle ostilità e lo scambio di prigionieri segnano il punto di svolta che la comunità internazionale invocava, e Trump ne è stato il catalizzatore.
Nina Celli, 21 ottobre 2025
Trump ha tenuto un discorso senza empatia né riconoscimento dei palestinesi
Il discorso di Trump alla Knesset è stato pesantemente criticato per la sua ottica unilaterale: l’ex presidente ha evocato solo il dolore israeliano, ignorando del tutto la catastrofe umanitaria palestinese causata dalla guerra. Inoltre, un’ora di intervento, Trump non ha mai pronunciato parole di cordoglio per i civili di Gaza – oltre 66.000 uccisi, fra cui migliaia di bambini– né ha riconosciuto le sofferenze patite dai palestinesi sotto le bombe e l’assedio. La parola “palestinesi” è apparsa appena due volte, per giunta in frasi di circostanza: una volta nel contesto generico di “l’incubo è finito non solo per Israele ma anche per i palestinesi” e un’altra per ammonire che d’ora in poi sta a loro scegliere la via giusta (abbandonare il terrorismo). Nulla invece sulle loro perdite e sul loro diritto al lutto. Il “Middle East Monitor” sottolinea che ai palestinesi Trump ha concesso solo “un cenno vago, come fossero una nota a pie’ di pagina nella guerra altrui”. Non ha menzionato i massacri a Gaza, le città rase al suolo, le famiglie annientate. Ha parlato di “trauma di Israele”, ma non del trauma di un’intera popolazione palestinese sotto assedio. Emblematica la scena dei due parlamentari (Ayman Odeh e Ofer Cassif) che durante il discorso hanno innalzato un cartello con scritto “genocide” per richiamare l’attenzione sul dramma di Gaza: la reazione è stata una loro immediata espulsione dall’aula, accolta da risate e commenti sarcastici di Trump (“molto efficiente”). In quel momento, osserva “Al Jazeera”, si è visto chiaramente cosa “Trump non ha detto alla Knesset”: tutto ciò che riguardava i palestinesi in quanto vittime è stato semplicemente rimosso dal discorso pubblico. Perfino quando ha ricordato i dati della guerra, Trump ha citato solo i caduti israeliani e i loro familiari, giurando “mai dimenticare, mai più”, ma non ha dedicato analogo pensiero alle decine di migliaia di palestinesi sterminati (per lui, l’unico numero che contava era “20 ostaggi tornati a casa”). Questa asimmetria morale è stata definita scioccante: come evidenzia Belén Fernández su “Al Jazeera”, Trump ha esaltato la vittoria militare israeliana, spingendosi a vantare che gli USA forniscono “le migliori armi, e voi [israeliani] le avete usate bene” – un’affermazione vista come un sinistro tributo all’annientamento di Gaza. Nei territori palestinesi molti hanno percepito il discorso come l’ennesima conferma che per Trump le vite palestinesi contano meno: nessuna parola su intere famiglie cancellate, sui bambini rimasti orfani, sul milione e mezzo di sfollati. Questa mancanza di empatia alimenta rabbia e frustrazione. Le organizzazioni umanitarie hanno deplorato il silenzio sulle responsabilità: Human Rights Watch ha ricordato che a Gaza i civili hanno affrontato “uccisioni illegali, fame, evacuazioni forzate” per due anni e ha chiesto di non normalizzare queste atrocità sotto il tappeto di una pace “imposta”. Trump, al contrario, ha fatto finta che quel contesto non esistesse. Anche sul piano lessicale, egli ha accuratamente evitato termini come “occupazione”, “blocco”, “crimini di guerra” – centrali per definire la realtà palestinese – sostituendoli con concetti vaghi di “terrorismo vs pace”. In definitiva, il discorso è apparso sordo alla tragedia palestinese: un monologo per gli israeliani, davanti agli israeliani, in cui i palestinesi comparivano solo come ex nemici da redimere, non come esseri umani da compiangere. Questa impostazione ha sollevato critiche diffuse: come può un discorso di “pace” ignorare metà del dolore in gioco? Secondo i detrattori, l’assenza di riconoscimento del dolore palestinese non è solo immorale ma anche politicamente deleteria, perché trasmette ai palestinesi il messaggio di essere invisibili e irrilevanti agli occhi di chi media – un terreno poco fertile per qualsiasi riconciliazione autentica.
Nina Celli, 21 ottobre 2025
Grazie a Trump, in Medioriente può esserci pace, sviluppo e normalizzazione
Trump non si è limitato a chiudere la guerra: nel suo discorso ha delineato un’ambiziosa visione di pace duratura e prosperità regionale. Ha più volte richiamato il paradigma degli Accordi di Abramo, suggerendo che l’ampia alleanza tra Israele e Paesi arabi possa ora estendersi e consolidarsi grazie alla fine del conflitto. Davanti alla Knesset, Trump ha enfatizzato come Israele potrà finalmente “godere dei frutti del proprio lavoro” e “fare cose mai ritenute possibili” grazie alla pace, segno che immagina un Medio Oriente in cui l’energia finora spesa in guerra si tradurrà in crescita economica e stabilità. Non ha escluso i palestinesi da questa prospettiva: pur non indugiando su retoriche emotive, ha lanciato un chiaro appello affinché colgano “la loro occasione di voltare pagina”. “Ora è il momento di costruire il vostro popolo, invece di cercare di distruggere Israele” ha dichiarato, offrendo implicitamente il sostegno americano a un percorso di sviluppo palestinese slegato dal terrorismo. Questa linea di pensiero – tipica della diplomazia USA – sposa l’idea che i palestinesi possano ottenere benessere e autonomia graduali attraverso istituzioni efficienti e investimenti, anziché tramite lotta armata. Nel suo discorso, Trump ha promesso di essere “partner” della crescita economica palestinese, e difatti il suo piano prevede un massiccio programma di ricostruzione di Gaza con fondi arabi e supervisione internazionale. Ciò risponde a un’esigenza reale: Gaza è devastata e la priorità assoluta è far ripartire la vita civile (case, infrastrutture, servizi). Trump, da imprenditore, ha saputo dare centralità a questo aspetto, parlando di “bellissimo futuro più luminoso” per la regione trasformata. La sua enfasi su progetti concreti – come la creazione di un “Board of Peace” con esperti internazionali e regionali per guidare la ricostruzione – indica una strategia che prevede prima di dare ai palestinesi di Gaza sicurezza, lavoro e servizi, poi affrontare le questioni politiche di lungo termine. Sebbene alcuni critici vedano in ciò un paternalismo, altri riconoscono che senza migliorare le condizioni di vita a Gaza qualunque accordo di pace sarebbe fragile. Trump ha insistito sul fatto che “il mondo non permetterà più” che Israele sia attaccato e isolato, e che ora “il mondo vince” – un richiamo al concetto che la prosperità condivisa è una vittoria per tutti, israeliani e palestinesi compresi.
La visione di Trump espressa alla Knesset va oltre la mera cessazione delle ostilità: è un piano di pace positiva, che ambisce a trasformare il Medio Oriente in una zona di cooperazione economica, investimenti (ha citato gli ingenti profitti già realizzati dai Paesi firmatari degli Accordi di Abramo) e stabilità. Questa impostazione ricorda precedenti storici come il Piano Marshall: prima ricostruire e far prosperare, poi risolvere le dispute politiche. Per molti osservatori favorevoli, si tratta di un approccio pragmatico e lungimirante: dare un futuro migliore ai palestinesi (scuole, ospedali, lavoro) è il modo più solido per integrare Gaza nella pace e spegnere l’estremismo.
Nina Celli, 21 ottobre 2025
Senza giustizia né cambiamenti reali la pace è illusoria
Critici e analisti avvertono che la “pace” celebrata da Trump è per ora poco più che una facciata, mancando di contenuti sostanziali come la giustizia per i crimini commessi e un vero mutamento dello status quo. “Middle East Monitor” ha definito l’operazione una “sfilata di pace vuota”: una tregua travestita da accordo storico, mentre le vere richieste dei palestinesi – stato, diritti, ritorno dei profughi – sono state sepolte sotto i festeggiamenti. Trump e Netanyahu hanno ripetuto instancabilmente la parola “pace”, senza mai pronunciare “cessate il fuoco” o “trattativa”: termini che avrebbero implicato compromessi e responsabilità reciproche. Parlare genericamente di “pace” – notano i critici – è comodo perché non vincola a nulla: nella retorica trumpiana la pace sembra coincidere con una resa incondizionata di Hamas e un congelamento della situazione a vantaggio di Israele. “Al Jazeera” evidenzia come questa retorica evanescente serva a coprire la realtà: Trump ha annunciato “la fine di un’era di terrore e l’alba di un’età di fede e speranza”, parole altisonanti che però non affrontano concretamente i nodi politici. Che succederà di Gaza tra 6 mesi o un anno? Il discorso non lo chiarisce: “dietro le parole, di sostanziale non è emerso molto”, scrive “Il Manifesto”. In effetti l’unica misura concreta menzionata è una futura conferenza sulla ricostruzione. Nessun accenno invece alla rimozione del blocco di Gaza (definito “illegale” da ONU e ONG), all’apertura di corridoi umanitari stabili, o alla sorte di Gerusalemme Est e Cisgiordania. Human Rights Watch ammonisce che il piano in 20 punti “non affronta direttamente questioni di diritti umani né l’accountability per i crimini gravi commessi”. Questo vuoto di giustizia è per molti inaccettabile: come può esserci pace senza riconoscere e punire i massacri di civili, sia quelli di Hamas il 7 ottobre sia quelli dell’esercito israeliano a Gaza? HRW esorta la comunità internazionale a “non aspettare il piano USA” ma agire subito per prevenire nuove violazioni, ad esempio imponendo un embargo sulle armi a Israele e sostenendo le indagini della Corte Penale Internazionale sui crimini contro l’umanità e atti di genocidio commessi a Gaza. Trump, invece, nel suo discorso non ha fatto alcun riferimento a “giustizia” o “tribunali”: ha enfatizzato “non dimenticare mai” per gli israeliani, ma non ha parlato di processi o verità per i palestinesi. Il rischio, segnalano molti osservatori, è quello di una pace “groviera” (per citare “MEMO”) – piena di buchi – dove tutto rimane com’era tranne la fine momentanea delle armi. “Il Manifesto” parla esplicitamente di “vertice del colpo di spugna”: secondo Michele Giorgio, la pace di Trump è costruita sull’impunità totale di Netanyahu (che non dovrà rispondere di alcun crimine di guerra) e sulla “riabilitazione” di Hamas come interlocutore di ordine pubblico, il tutto mentre gli attori internazionali fanno finta di nulla rispetto al dramma vissuto dai civili. La critica chiave è che questa pace non corregge le ingiustizie, le normalizza: Gaza resta sotto blocco, i suoi abitanti restano profughi nella loro terra distrutta, Hamas viene paradossalmente legittimata (da terrorista a poliziotto) per evitare il caos e Israele non paga nessun prezzo (anzi incassa nuovi accordi e garanzie). Una pace così sbilanciata e priva di giustizia rischia di non reggere: vari commentatori avvertono che “questa tregua, come le precedenti, non terrà” se non sarà accompagnata da cambiamenti reali. “MEMO” prevede addirittura un imminente collasso, con Trump e Netanyahu pronti a scambiarsi colpe appena un razzo volerà di nuovo. Il discorso di Trump, dunque, ha venduto come “pace storica” quella che in realtà è una pausa fragile e cosmetica, dove nessuna questione di fondo è stata risolta. Senza affrontare nodi come lo status di Gaza e Cisgiordania, il diritto all’autodeterminazione palestinese, la rimozione del blocco e il disarmo vigilato di tutte le parti, la “pace” di Trump rischia di essere un castello di carte pronto a crollare alla prima folata.
Nina Celli, 21 ottobre 2025
Trump ha espresso realismo politico
Il discorso di Trump ha consolidato attorno al suo piano di pace un consenso internazionale trasversale, segno che la sua strategia gode di fiducia ben oltre la cerchia dei suoi tradizionali alleati. Mentre in passato le iniziative di Trump sul Medio Oriente (ad es. il Deal of the Century del 2020) erano state accolte con freddezza o rifiutate dai partner arabi e dall’Autorità Palestinese, questa volta la risposta è stata diversa. Leader arabi e musulmani di primo piano hanno applaudito gli sforzi di Trump: in un fatto quasi senza precedenti, i ministri degli Esteri di Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Emirati, Turchia, Indonesia e Pakistan hanno emesso una dichiarazione congiunta di sostegno, elogiando la “leadership” di Trump nel fermare la guerra. Hanno sottolineato elementi fondamentali del suo piano (stop agli sfollamenti forzati, no annessioni, ricostruzione di Gaza) e si sono detti pronti a collaborare attivamente con gli USA per attuarlo. Questo è indice di realismo politico: Paesi che spesso faticano a trovare un’intesa comune (pensiamo alle tensioni Turchia-Egitto o Arabia Saudita-Qatar) si sono allineati attorno alla proposta americana, riconoscendo in Trump un mediatore efficace. Lo stesso presidente turco Erdoğan, non certo amico personale di Trump in passato, lo ha pubblicamente lodato per la “leadership volta a fermare il conflitto”. Ma l’elemento più sorprendente è la posizione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP): tradizionalmente scettica verso Trump (dopo il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme nel 2018), l’ANP ha invece “accolto con favore gli sforzi sinceri e determinati del presidente Trump per porre fine alla guerra”. In un comunicato diffuso dall’agenzia WAFA, l’ANP ha addirittura affermato di avere “fiducia nella sua capacità di trovare una via per la pace”, rinnovando l’impegno congiunto con Washington a lavorare per un accordo comprensivo. L’ANP si è premurata di ribadire i parametri per una pace giusta (aiuti a Gaza, protezione del popolo palestinese, fine di annessioni e azioni unilaterali, prospettiva Due Stati), ma il tono generale è stato di apertura. Ciò segnala che Trump è riuscito a coinvolgere anche la controparte palestinese moderata, evitando l’errore di isolarla completamente. Contestualmente, esponenti di spicco della comunità internazionale, come il presidente francese Macron e il Segretario Generale ONU Guterres, hanno partecipato attivamente al summit di Sharm el-Sheikh che ha ratificato l’accordo, testimoniando una legittimazione multilaterale del processo voluto da Trump. Anche in Occidente critico, molti hanno messo da parte le riserve per sostenere l’unica via concreta verso la pace: se quasi tutto il mondo appoggia la proposta Trump, come ha notato il presidente della Knesset, ciò riflette la solidità e praticabilità del piano. Va inoltre ricordato che Trump ha dimostrato abilità nel “parlare la lingua” dei suoi interlocutori: con i Paesi arabi ha insistito sulla tutela dei palestinesi (promettendo “niente trasferimenti forzati” e “niente annessioni”), guadagnandosi così la loro fiducia; con Israele ha garantito sicurezza e vittoria. Questo equilibrio comunicativo ha convinto le parti a convergere. In un Medio Oriente spesso diviso, l’iniziativa di Trump ha avuto il merito di creare un raro fronte diplomatico unito: un prerequisito essenziale perché la pace possa durare.
Nina Celli, 21 ottobre 2025
I palestinesi sono politicamente esclusi, non c’è alcun vero cambiamento
Oltre all’aspetto umano, il discorso di Trump ha manifestato un grave limite di visione politica inclusiva: è apparso come un monologo rivolto solo a Israele, in cui i palestinesi non avevano ruolo se non come destinatari passivi di condizioni. Nei festeggiamenti della Knesset, l’idea di uno Stato palestinese indipendente – cuore di qualsiasi pace giusta – è stata totalmente assente. Anzi, quando due parlamentari arabi hanno sollevato il cartello “Recognize Palestine”, invocando il riconoscimento della Palestina, sono stati cacciati sotto gli applausi beffardi. Ciò simboleggia l’approccio: la questione palestinese come identità nazionale e diritto all’autodeterminazione è stata deliberatamente esclusa dal discorso. “InsideOver” nota che Trump, pur parlando di futuro di pace, ha chiarito che “nessuno Stato palestinese è all’orizzonte” – i palestinesi di Gaza potranno avere un “parco giochi” ricostruito con soldi arabi e management americano, ma non uno Stato sovrano. In effetti, la struttura di governance proposta (un Board of Peace a guida USA e un comitato palestinese tecnocratico) sembra ricalcare uno schema di amministrazione esterna di Gaza, marginalizzando sia Hamas sia l’ANP a favore di figure nominate dall’esterno. Questo modello è visto da molti come paternalistico e antidemocratico: il destino dei palestinesi di Gaza viene deciso da Trump, Blair e soci, senza alcun mandato popolare. “Al Jazeera” (Fernández) spinge la critica oltre, parlando di “colonial overlordship” – dominazione coloniale – mascherata da Board of Peace. Anche in Cisgiordania nulla cambia: Trump non ha menzionato gli insediamenti illegali né l’annessione strisciante del territorio. Ha ringraziato persino Abu Mazen per il suo supporto al processo, ma non ha speso una parola sulle aspettative politiche dei palestinesi moderati che da decenni chiedono la fine dell’occupazione. Così, ai palestinesi viene concesso solo di “gestire meglio” la loro subordinazione: Gaza avrà un “governo tecnico” ma sempre sotto tutela, in prospettiva (forse), l’ANP tornerà a governare Gaza accanto a Israele che però rimarrà dominus della sicurezza. Questa separazione totale della pace regionale dalla causa palestinese è ciò che molti criticano: Trump prosegue la linea di estromettere i palestinesi dal tavolo negoziale. Come osserva “Mondoweiss”, il suo discorso ha “evitato accuratamente di collegare la fine dell’occupazione israeliana con la normalizzazione araba”, proseguendo un obiettivo di lunga data di Israele: fare pace con gli arabi bypassando i palestinesi. A breve termine può funzionare (gli Accordi di Abramo ne sono un esempio), ma a lungo termine questa esclusione politica è una bomba a orologeria. Human Rights Watch e altre ONG insistono che bisogna affrontare le radici del conflitto, “inclusi i crimini di apartheid e persecuzione” contro i palestinesi – temi completamente assenti nel discorso di Trump. Inoltre, l’aver trattato Hamas come controparte legittima per l’accordo (pur non nominandola esplicitamente nel discorso, era implicito) e l’ANP come attore secondario rischia di delegittimare ulteriormente la leadership palestinese moderata, già debole. In Cisgiordania la gente vede che a ottenere risultati è stata la forza (Hamas ottiene prigionieri liberi e forse ruoli futuri), mentre la via diplomatica di Abu Mazen continua a portare promesse vaghe. Questo potrebbe radicalizzare ulteriormente la società palestinese.
La “pace” di Trump non offre alcuna soluzione politica ai palestinesi: nessun percorso verso l’indipendenza, nessuna Gerusalemme Est capitale, nessun diritto al ritorno discusso. Solo la richiesta unilaterale che i palestinesi si accontentino di qualche investimento e di un ruolo minore in un sistema deciso da altri. Una pace così è difficilmente sostenibile, perché un conflitto politico di settant’anni non si risolve riducendolo a un problema amministrativo. I detrattori ritengono dunque che il discorso di Trump abbia sancito la continuazione dell’esclusione politica dei palestinesi, congelando uno status quo ingiusto dietro la facciata del “nuovo Medio Oriente” – e ciò potrebbe minare irreparabilmente la credibilità di questo processo di pace.
Nina Celli, 21 ottobre 2025
Nel suo discorso, Trump ha fatto retorica personalistica
Molti critici leggono nel discorso di Trump un eccesso di autocelebrazione e di propaganda politica personale, elementi che gettano ombre sulle sue reali motivazioni e sulla solidità dell’accordo. “Middle East Monitor” l’ha definito esplicitamente un “spettacolo narcisistico – una sfilata di auto-congratulazioni spacciata per statismo”. Invece di un discorso di pace equilibrato, Trump ha messo in scena un monologo in cui si è attribuito tutti i meriti, ha lodato a lungo i membri del suo entourage (Witkoff, Kushner) ed è perfino scivolato in digressioni egocentriche fuori contesto. Questa tendenza a “parlare di sé” è stata notata anche da fonti neutrali: il “Guardian” riporta che l’attenzione del pubblico durante il discorso “ha iniziato a calare” quando Trump è entrato nei suoi “vari rabbit holes”, come criticare Biden o ringraziare la sua donatrice Miriam Adelson, o glissare sull’Ucraina. Questi elementi danno l’impressione che Trump abbia sfruttato il palco della Knesset anche per fini interni – elettorali e di immagine – più che per una genuina riflessione di pace. Lo conferma l’episodio singolare della richiesta di grazia per Netanyahu: Trump, quasi improvvisando, ha pubblicamente chiesto al presidente israeliano di perdonare Bibi dai processi per corruzione, “perché mi piace quest’uomo”, e ciò ha scatenato l’applauso entusiasta dei deputati Likud. Questo gesto, definito dallo stesso Trump “non era nel discorso, come saprete”, appare come un favor politico personale – una mano tesa a un alleato (Netanyahu) in difficoltà legali – piuttosto che parte di un accordo di pace. La mescolanza di tali istanze personali nel contesto di una cerimonia ufficiale ha destato perplessità e critiche: dimostra come Trump abbia “approfittato” dell’occasione per consolidare alleanze personali e consensi (il blocco di potere filotrumpiano in Israele), spostando il focus dalla sostanza all’adulazione. “Fox News” ha ammesso che nel discorso egli “non ha saputo trattenersi dal lanciare frecciate di parte contro Biden e Obama”, con ciò politicizzando un contesto che avrebbe dovuto essere super partes. Questo rivela la sua priorità: rivendicare la vittoria su rivali politici domestici (suggerendo che lui può fare ciò che Biden non ha fatto, persino insinuando che Obama odiava Israele). I detrattori sostengono che questa personalizzazione estrema di un processo di pace è pericolosa perché, se la pace diventa “di Trump”, con cappellini e slogan personalistici, cosa accadrà se Trump dovesse uscire di scena o perdere interesse? Legare tutto a un uomo non è garanzia di stabilità a lungo termine. Inoltre, c’è l’elemento fretta/trionfalismo: Trump ha dichiarato missione compiuta con forse troppo entusiasmo. Già in passato la sua amministrazione aveva celebrato prematuramente intese poi fallite (come la “denuclearizzazione” della Corea del Nord). In questo caso, analisti prudenti fanno notare che la tregua è a fasi e condizionata e che solo il tempo dirà se terrà davvero. “ABC News” ricorda che un precedente cessate il fuoco con scambio ostaggi-prigionieri, mediato a gennaio, era collassato dopo sei settimane. “Fox News” titola esplicitamente che Trump è stato “troppo svelto nel dichiarare finita la guerra”, usando come paragone ironico il famoso “Mission Accomplished” di George W. Bush nel 2003. Questo sottolinea il rischio che il discorso di Trump passi alla storia come prematuro trionfalismo: se la violenza riprende, allora tutte le parole su “pace per l’eternità” risuoneranno vuote o addirittura grottesche. “MEMO” prevede proprio questo scenario: “quando la tregua crollerà – come quasi certamente accadrà – inizierà il gioco delle colpe”, con Trump e Bibi a puntarsi il dito e i palestinesi a farne le spese. In tal caso la grande parata di Gerusalemme sarà ricordata come una vanagloria (o, come la chiama “MEMO”, una “diplomazia groviera”). Insomma, il discorso di Trump, anziché essere un solenne momento di riconciliazione storica, è stato in buona parte un evento autopromozionale – utile a Trump per la candidatura, utile a Netanyahu per ricostruirsi un’immagine (Trump l’ha definito “grande” e ne ha chiesto la grazia), ma che potrebbe rivelarsi fumo negli occhi per la pace concreta. Una volta spente le luci dello show, restano i problemi veri: e su quelli, un discorso centrato sull’ego e sul marketing politico non incide.
Nina Celli, 21 ottobre 2025