È giusto mantenere l’immunità di Ilaria Salis?
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Ilaria Salis, eurodeputata italiana di Alleanza Verdi e Sinistra (gruppo The Left), è al centro di un acceso dibattito politico-giuridico. La vicenda nasce dal suo arresto in Ungheria, nel febbraio 2023, durante una contro-manifestazione antifascista a Budapest. Salis è accusata di aver aggredito alcuni militanti neonazisti durante il “Giorno dell’onore”, raduno dell’estrema destra ungherese. Detenuta per oltre un anno in condizioni denunciate come degradanti – persino incatenata nelle udienze – l’attivista lombarda è stata liberata solo dopo la sua elezione al Parlamento europeo del giugno 2024, grazie all’immunità parlamentare connessa al nuovo mandato. Le immagini di Salis in tribunale, incatenata mani e piedi, hanno suscitato indignazione pubblica in Italia: perfino esponenti del governo Meloni, tradizionalmente alleato di Viktor Orbán, hanno espresso disagio, con il ministro degli Esteri Antonio Tajani che convocò l’ambasciatore ungherese definendo quel trattamento “eccessivo”.

IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
L’immunità ha protetto Salis da un processo pilotato da un regime illiberale, salvaguardando i valori democratici europei.
Essere eletti non può equivalere a un salvacondotto: chi è accusato di reati gravi deve affrontare la giustizia come qualsiasi cittadino.
Negare l’estradizione in Ungheria garantisce a Salis un giusto processo (in Italia), evitando tribunali asserviti al potere politico.
L’uso dell’immunità per fatti pre-mandato stravolge le regole e crea un precedente: domani altri potrebbero candidarsi per sfuggire ai tribunali.
Anche oltre le divisioni politiche, molti riconoscono la necessità di anteporre le garanzie fondamentali di un processo equo all’appartenenza di partito.
La Salis vanta precedenti penali e accuse concrete di violenza: salvarla in Europa umilia le vittime e scredita la credibilità delle istituzioni.
L’immunità è una garanzia contro persecuzioni autoritarie
Il mantenimento dell’immunità parlamentare per Ilaria Salis è presentato dai favorevoli come una necessaria barriera democratica di fronte a un palese caso di persecuzione politica. Secondo questa tesi, la richiesta ungherese di processare la Salis non nasce da un bisogno di giustizia, bensì dalla volontà del regime di Viktor Orbán di punire un’attivista antifascista che lo ha pubblicamente sfidato. La Commissione giuridica del Parlamento UE (JURI) ha avvalorato tale lettura: nel suo rapporto ha ravvisato “concreta evidenza” che l’azione penale mira a “minare l’attività politica” dell’eurodeputata Salis, piuttosto che ad appurare imparzialmente i fatti. Il concetto di fumus persecutionis, previsto dal regolamento comunitario proprio per evitare che l’immunità venga revocata in casi di accanimento politico, risulta per i proponenti pienamente applicabile: “In Ungheria non è possibile un processo equo nei miei confronti”, ha dichiarato la stessa Salis, parlando di “vera e propria persecuzione da parte del governo ungherese”. La deputata – e con lei esponenti di vari gruppi europei – sottolinea che Orbán ha trasformato la giustizia in un’arma contro oppositori e attivisti scomodi. Non a caso, l’intera vicenda giudiziaria della Salis è costellata da elementi anomali: 15 mesi di detenzione preventiva in condizioni durissime (celle sovraffollate, igiene precaria, persino docce negate), pubblica umiliazione in catene durante le udienze, aggravamento ex post dei capi d’accusa (le “lievi lesioni” iniziali sono state riformulate come reati da 24 anni di pena). Questi fattori dipingono uno scenario da “processo politico”.
La protezione accordata alla Salis è quindi vista come un atto dovuto per salvaguardare i principi di democrazia e Stato di diritto in Europa. “Difendere la mia immunità non significa sottrarmi alla giustizia, ma proteggermi dalla persecuzione politica del regime di Orbán”, ha spiegato la Salis, ribadendo di voler comunque affrontare un giudizio regolare in un paese terzo (idealmente l’Italia). La priorità, per i sostenitori, è garantire che il giudizio avvenga in un contesto indipendente: “Non si possono ottenere processi giusti in Ungheria… né contro gli antifascisti né contro alcun oppositore politico”, ha affermato la Salis dopo il voto, confortata dalla valutazione del Parlamento UE. L’argomentazione richiama anche l’importanza di proteggere i rappresentanti eletti dai tentativi di intimidazione esterna: l’immunità parlamentare europea esiste proprio per assicurare “l’indipendenza e l’integrità del Parlamento nel suo complesso”, evitando che poteri ostili (interni o esterni all’UE) possano condizionare l’operato dei deputati tramite procedimenti pretestuosi. In questo senso, negare la revoca dell’immunità è servito a difendere non solo la persona, ma l’autonomia dell’istituzione UE da un precedente pericoloso: cedere alla pressione di un governo illiberale.
I favorevoli citano inoltre precedenti comparabili. Ad esempio, nella stessa seduta il Parlamento ha respinto la revoca dell’immunità per Péter Magyar, eurodeputato ungherese del PPE e principale oppositore di Orbán, accusato (controversamente) di corruzione. Ciò dimostra che la protezione non è stata un favore “di parte” verso la Salis, ma un principio applicato trasversalmente quando vi è il dubbio di strumentalizzazione giudiziaria. Emblematico è anche il parallelismo con la vicenda dei catalani indipendentisti del 2019-21: in quel caso il Parlamento UE revocò l’immunità a deputati richiesti dalla Spagna, un paese democratico, perché confidava che avrebbero avuto un processo equo. Nel caso ungherese 2023-25, invece, larga parte dell’Eurocamera ha ritenuto che le garanzie di equità e indipendenza non fossero assicurate, giustificando così un’eccezione alla prassi (solitamente deferente verso le richieste degli Stati).
In definitiva, secondo questo punto di vista, l’Europarlamento ha agito come “scudo di legalità”: ha impedito che una cittadina europea – eletta da quasi 180 mila persone – venisse consegnata a un “processo farsa” (parole di Salis), in un sistema giudiziario già condannato per violazioni dei diritti umani. Sospendere (temporaneamente) la pretesa punitiva ungherese è stato non un privilegio corporativo, ma un atto di tutela dei valori fondanti dell’UE. “Difendendo Salis, il Parlamento difende tutte le cittadine e i cittadini europei” dagli abusi di potere – ha dichiarato Nicola Zingaretti, capodelegazione PD, applaudendo il voto. Analogamente, i co-portavoce di AVS hanno definito quella della Salis “una battaglia per lo Stato di diritto e la democrazia in Europa”, poiché riguarda il principio che nessun governo possa imprigionare a piacimento gli oppositori grazie a sistemi giudiziari compiacenti. In quest’ottica, la rappresentanza popolare incarnata dalla Salis merita una particolare protezione: fermare la giustizia ungherese di fronte al suo mandato parlamentare non è un abuso, ma un gesto estremo reso necessario per preservare il rule of law europeo.
Nina Celli, 9 ottobre 2025
La legge è uguale per tutti: l’elezione non legittima l’impunità
Gli oppositori alla scelta del Parlamento UE di non revocare l’immunità di Ilaria Salis sostengono, in primis, un principio di eguaglianza: nessun cittadino, neanche eletto, dovrebbe sottrarsi alla giustizia ordinaria. Secondo questa tesi, bloccare il procedimento penale contro la Salis per via della sua carica istituzionale equivale a creare una categoria di “intoccabili”, contravvenendo al principio cardine dello Stato di diritto per cui la legge è uguale per tutti. “Il Parlamento europeo non è il posto per scappare dalle sentenze della giustizia” ha dichiarato l’eurodeputato Nicola Procaccini (Fratelli d’Italia/ECR). In sostanza, non importa quale sia il contesto politico: se la Salis è accusata di aggressione violenta, deve affrontare un processo e – se colpevole – pagarne le conseguenze, come sarebbe per qualsiasi altro individuo. La sua rappresentanza popolare non può trasformarsi in un salvacondotto permanente.
I critici puntano l’attenzione sui fatti contestati alla Salis, ridimensionando l’aura di “perseguitata politica”. Ricordano che l’attivista è accusata di aver partecipato a un pestaggio di persone (per quanto neonaziste) e sottolineano come lei stessa abbia un passato burrascoso con la legge: due condanne penali definitive in Italia (per occupazione e resistenza) indicano, secondo loro, una tendenza all’illegalità che non può essere giustificata dall’attivismo. “I fatti imputati sono chiari e sarà difficile per la pasionaria difendere il suo comportamento volutamente violento”, scrive polemicamente Marco Zacchera, ex deputato, evidenziando come la narrazione di “innocente perseguitata” sia fuorviante. Anche il governo ungherese insiste su questo punto: Zoltán Kovács, portavoce di Orbán, ha affermato che la Salis e i suoi compagni “sono arrivati non per discutere, ma per colpire, aggredendo passanti innocenti, alcuni quasi rimasti senza vita”. Per Budapest, dunque, la Salis è una pericolosa criminale comune che “ha trovato rifugio dietro un mandato di Bruxelles”. Se davvero la Salis avesse commesso aggressioni, il fatto di essere diventata eurodeputata dopo non dovrebbe assolverla né immunizzarla rispetto a quanto accaduto prima.
Un punto focale è l’aspetto temporale: la contestazione alla Salis riguarda eventi avvenuti prima della sua elezione. Per i critici, questo è decisivo: l’immunità parlamentare è concepita – storicamente e giuridicamente – per proteggere i parlamentari dalle conseguenze delle loro opinioni o atti nell’esercizio del mandato, non per garantire impunità riguardo a reati comuni precedenti. “I nostri consiglieri giuridici ci hanno detto che è giusto revocare l’immunità alla Salis perché il reato contestato è stato commesso prima del suo mandato”, ha spiegato Manfred Weber, capogruppo PPE, motivando la linea favorevole alla revoca. Weber ha insistito che “l’istituto dell’immunità non è nato per proteggere gli europarlamentari dalla legge o dai processi” e che invocare il fumus persecutionis in questo caso “sarebbe un precedente pericoloso”. Similmente, Adrián Vázquez (il relatore JURI che proponeva la revoca) ha sostenuto che il fumus può valere solo per atti commessi durante il mandato parlamentare, mai per fatti antecedenti. Dunque, la maggioranza dell’Eurocamera – secondo questa tesi – ha piegato le regole pur di salvare la Salis, violando una prassi consolidata e aprendo la porta a possibili abusi futuri. Ad esempio, altri attivisti o politici con guai giudiziari potrebbero candidarsi al Parlamento UE solo per sfuggire ai processi: diventerebbe un “porto franco” per ricercati. Lo stesso Orbán ora potrebbe dire: “basta fuggire a Bruxelles e non si paga il conto”. Non a caso, il mantra di Salvini dopo il voto JURI è stato: “Chi sbaglia, non paga… vergogna”, accompagnato dal meme “Poltrona salva, dignità persa”. Per il ministro italiano, l’Europarlamento ha lanciato un pessimo segnale ai cittadini: esiste un doppio binario della giustizia, uno per i politici “amici di certa UE” e uno per la gente comune.
I critici contestano anche l’argomento che in Ungheria la Salis non avrebbe un processo equo. Pur riconoscendo le criticità del sistema ungherese, essi ritengono che non spetti al Parlamento europeo sostituirsi ai tribunali nel valutare anticipatamente se un processo sarà giusto o meno. Il diritto UE si basa sul mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie tra Stati membri: mettere in dubbio la magistratura ungherese significa minare quel principio e creare un precedente destabilizzante nei rapporti tra Paesi. “So bene che l’Ungheria non rispetta lo Stato di diritto, ma sono convinto che si deve contrastare Orbán solo rispettando le regole, non violandole come fa lui”, ha affermato provocatoriamente Adrián Vázquez. Questo paradosso è centrale: se l’UE inizia a decidere caso per caso quali sistemi giudiziari nazionali sono abbastanza affidabili e quali no, si scivola su un terreno politico pericoloso che può compromettere la cooperazione giudiziaria UE (ad esempio, mandati d’arresto europei, estradizioni). Per i contrari, era compito eventualmente della Corte di Giustizia UE valutare – in sede di ricorso formale – se ci fossero gli estremi per rifiutare l’estradizione (in base al principio del fair trial). Ma il Parlamento ha agito politicamente, sospettano, più che giuridicamente, facendosi guidare dal bias anti-Orbán. Tanto che lo stesso Vázquez prevede un ricorso ungherese alla Corte di Giustizia contro la decisione di Strasburgo, con la speranza che il tribunale UE corregga quella che reputano una forzatura.
Un altro argomento a cui adducono i contrari alla revoca dell’immunità è l’ipocrisia e il doppio standard insito nella difesa della Salis. L’espressione “garantismo a targhe alterne” usata da Simona Musco – sebbene riferita criticamente alla destra – può essere letta anche al contrario: molte forze di sinistra hanno adottato un garantismo “di comodo” per proteggere una propria esponente, quando in casi analoghi (es. l’eurodeputata greca Eva Kaili del caso Qatargate o altri parlamentari coinvolti in scandali) furono inflessibili nel togliere l’immunità. In quell’occasione non preoccuparono le condizioni detentive dure o il “fumus” di accanimento, perché la persona era divenuta scomoda (accusata di corruzione). Ora, invece, la stessa coalizione progressista parla di Stato di diritto e giusto processo solo perché in ballo c’è un’attivista vicina alle loro idee. Questo mina la credibilità dell’Europarlamento: appare, dall’esterno, che le decisioni sulle immunità vengano prese non su basi oggettive, ma su simpatie politiche. Il quotidiano “Il Giornale” e altre testate di destra hanno infatti accusato la sinistra di aver “scoperto l’immunità parlamentare” quando conviene, dopo anni a predicarne la limitazione. Ad esempio, nel Parlamento italiano dal 1993 le autorizzazioni a procedere sono state fortemente ridotte, anche per pressione dell’opinione pubblica progressista. Vedere oggi la sinistra difendere lo “scudo” per la Salis suscita perplessità in chi sta dall’altra parte. Questa linea argomentativa ha un fine: sottolineare che la decisione pro-Salis non è stata presa per nobile principio, ma per “tifoseria” politica. A riprova, citano il commento amaro dell’ex ministro PD Andrea Orlando: “L’immunità a Salis è uno schiaffo forte del Parlamento UE a Orbán” – percependo quindi la mossa come principalmente punitiva verso Orbán e di conseguenza partigiana, più che imparziale applicazione del diritto.
Il fronte dei contrari mette in guardia contro l’effetto boomerang di quanto accaduto. In Ungheria, Orbán userà il caso per alimentare la retorica anti-Ue, presentando l’Europa come complice di “delinquenti di sinistra”, immuni alla legge nazionale. In Italia, già Salvini e altri leader di destra hanno insinuato che “se la sinistra difende Salis, allora vuol dire che approva la sua violenza” – spostando così il discorso dal piano del diritto a quello morale-politico. Il PPE, inoltre, esce spaccato e indebolito: la vicenda evidenzia la “maggioranza ambigua” denunciata nel titolo da Zacchera, dove i popolari appaiono ondivaghi e inaffidabili agli occhi dei partner conservatori. Il rischio sistemico è che in futuro la cooperazione sulla giustizia europea si inceppi, perché i governi – vedendo preludere considerazioni politiche – saranno più restii a fidarsi dell’Europarlamento e magari a eseguire mandati d’arresto UE. In altre parole, un precedente per cui lo Stato A (Ungheria) viene delegittimato potrebbe portare lo Stato B (per esempio la Polonia o altri) a pretendere lo stesso trattamento per i propri rappresentanti o, viceversa, a boicottare richieste provenienti da Stati “avversi”.
La giustizia non deve fermarsi di fronte alla rappresentanza popolare, perché farla fermare in nome di considerazioni politiche – ancorché comprensibili – mina la certezza del diritto. Se Ilaria Salis è innocente o vittima di persecuzione, dev’esserlo stabilito in un tribunale, non in un voto parlamentare. Qualsiasi deviazione da questo percorso apre a zone grigie pericolose. Come recita un commento critico: “L’Europa non può avere due pesi e due misure sullo Stato di diritto: se condanna Orbán per le sue violazioni, non deve cadere essa stessa nella tentazione di violare le proprie regole”. Un eurodeputato accusato di violenze pre-elezione va consegnato ai giudici competenti, indipendentemente dal colore politico.
Nina Celli, 9 ottobre 2025
Tutti hanno diritto a un giusto processo
I sostenitori del mantenimento dell’immunità per la Salis argomentano che “giustizia” non significa semplicemente celebrare un processo ovunque e comunque, ma garantire un processo equo, imparziale e rispettoso dei diritti dell’imputato. Nel caso di Ilaria Salis, ciò non sarebbe stato possibile in Ungheria, dato il contesto di pesante interferenza politica sul potere giudiziario. La protezione dell’immunità diventa allora uno strumento per riallocare la giurisdizione verso un tribunale che offra quelle garanzie minime. Salis stessa ha sempre dichiarato: “Il rigetto della revoca ungherese non implica affatto che io voglia sottrarmi alla giustizia. Chiedo a gran voce di essere processata in Italia, con tutte le garanzie dello Stato di diritto”. Questa frase chiede di fermare il procedimento ungherese per trasferirlo a casa propria, dove giudici indipendenti possano valutare i fatti senza pressioni. L’Italia, secondo i favorevoli, ha anzi il dovere di farsi carico del caso: la legge italiana prevede la possibilità di giudicare un cittadino per reati commessi all’estero, su impulso del ministro della Giustizia. Dunque, la “rappresentanza popolare” di Salis non implica impunità: semmai sposta il foro competente a un sistema giudiziario affidabile e terzo. “Le autorità italiane restano libere di aprire un procedimento a mio carico, come io stessa auspico”, ha ribadito la Salis in più sedi, invitando il ministro Nordio ad attivarsi.
Questa posizione richiama il principio del fair trial sancito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: se esistono seri dubbi sull’equità di un processo in uno Stato, gli altri Paesi (e l’UE) hanno la responsabilità di non collaborare a un potenziale miscarriage of justice. L’Ungheria di Orbán, ricordano i sostenitori di questo punto di vista, è soggetta dal 2018 a una procedura ex art. 7 TUE proprio per violazioni sistemiche dell’indipendenza giudiziaria. Organismi come l’Hungarian Helsinki Committee e la stessa Commissione UE hanno documentato un tasso abnorme di custodia cautelare e di sovraffollamento carcerario in Ungheria, segno di un sistema punitivo poco garantista. Nel caso in esame, il trattamento riservato alla Salis – incatenata in aula, senza traduzione degli atti, con prove non condivise alla difesa – ha alimentato il convincimento che “in Ungheria non è possibile un processo equo nei [suoi] confronti”. Perfino alcuni deputati moderati del PPE, in privato, si sono detti “sinceramente preoccupati” per cosa sarebbe accaduto alla Salis consegnandola alla giustizia magiara, scegliendo dunque di votare in coscienza per proteggerla.
Dal punto di vista giuridico, l’immunità non cancella i reati, ma li congela fintanto che sussistono condizioni di rischio. “La mia immunità europea non impedisce l’apertura di un procedimento a mio carico in Italia” – ha spiegato la Salis – “È fondamentale conservarla solo per difendermi dalla vendetta di Orbán”. L’immunità parlamentare, quindi, fungerebbe da ponte verso una giurisdizione più sicura, non da scudo definitivo. In effetti, con l’immunità confermata, spetta al governo italiano valutare se chiedere formalmente di processare la propria cittadina in patria. La Decisione Quadro 2009/829/GAI, infatti, consente di trasferire le misure cautelari tra Stati UE (ad esempio, concedendo i domiciliari nel Paese d’origine anziché tenere in carcere un imputato all’estero). Nel caso della Salis, però, l’Italia si è mossa tardi e timidamente (nessuna iniziativa concreta di transfer del procedimento è stata presa inizialmente, nonostante gli appelli della famiglia). I favorevoli ritengono quindi che il Parlamento europeo, negando la revoca, abbia indirettamente sollecitato Roma ad assumersi le proprie responsabilità.
Un ulteriore argomento a tutela dell’immunità è che, in prospettiva, la scelta di non sacrificare la giustizia alla “ragion di Stato” rafforza la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Cedere a Orbán una deputata italiana – eletta democraticamente – per farne un capro espiatorio avrebbe creato sconforto e allarme: “Hanno capito cosa potrebbe accadermi… Hanno scelto di far prevalere le garanzie democratiche sulla appartenenza politica”, ha detto la Salis dei colleghi che l’hanno sostenuta. Ciò indica che, per molti, il principio del processo giusto è preminente sul rigore astratto. Anche nel dibattito italiano la domanda è stata posta: “Salvini vorrebbe la giustizia illiberale anche in Italia?” – ha provocatoriamente chiesto la Salis, replicando alle critiche leghiste. Consegnarla a Budapest avrebbe significato avallare, di fatto, un modello di giustizia vendicativa che l’UE stessa condanna. Al contrario, garantendole un processo in un contesto affidabile (Italia), si attua un equilibrio tra l’esigenza di punire eventuali reati e quella di assicurare che la punizione non sia frutto di un abuso.
In questo caso, quindi, la giustizia non si “ferma” davanti alla rappresentanza popolare, bensì cambia sede per poter realmente funzionare. L’immunità della Salis è stata lo strumento tecnico per impedire un processo ingiusto e incanalare la vicenda verso una soluzione conforme allo Stato di diritto. Come ha commentato un eurodeputato verde, “hanno capito perfettamente lo stato di salute della democrazia in Ungheria” e hanno agito di conseguenza. Resta ora aperta la sfida: l’Italia dovrà attivarsi affinché la Salis venga giudicata da un tribunale indipendente, soddisfacendo sia la richiesta di giustizia sia quella di equità.
Nina Celli, 9 ottobre 2025
L’immunità per reati pregressi è un precedente istituzionale rischioso
La scelta di non revocare l’immunità per fatti pre-mandato altera l’architettura delle immunità parlamentari europee e mina la cooperazione giudiziaria tra Stati membri. La prassi dell’Eurocamera è stata storicamente deferente verso le richieste nazionali (si veda il caso degli indipendentisti catalani, in cui il Parlamento tolse l’immunità lasciando poi a giudici nazionali ed europei l’eventuale vaglio di garanzie e diritti). Qui, invece, l’assemblea ha “giudicato” ex ante l’affidabilità di un sistema giudiziario nazionale, sostituendosi nei fatti al controllo giurisdizionale (Corti nazionali, CEDU, CGUE) e politicizzando un istituto pensato per proteggere l’indipendenza funzionale del mandato, non per schermare reati comuni anteriori all’elezione.
Si teme un effetto emulativo: soggetti con procedimenti pendenti potrebbero candidarsi strategicamente per ottenere uno scudo politico, trasformando il Parlamento europeo in una sorta di “porto franco”. Inoltre, far dipendere l’esito di revoche dall’appartenenza a famiglie politiche o dall’impopolarità di un governo nazionale (qui l’Ungheria) alimenta la percezione di doppio standard e logora la fiducia reciproca necessaria al mutuo riconoscimento di decisioni e mandati d’arresto europei. In prospettiva, altri esecutivi potrebbero rispondere specularmente, rifiutando cooperazione quando l’imputato appartiene al “fronte politico avverso”, con un boomerang sull’intero spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’UE.
La sede corretta per verificare un sospetto fumus persecutionis non è l’aula parlamentare, ma giudici terzi e meccanismi di salvaguardia (ad es. rifiuto mirato dell’estradizione, garanzie diplomatiche, misure alternative transfrontaliere). Diversamente, si crea un precedente che confonde ruoli politici e giurisdizionali e indebolisce il principio — basilare — secondo cui l’eguaglianza davanti alla legge precede e sorregge la rappresentanza.
Nina Celli, 9 ottobre 2025
L’immunità della Salis salvaguarda i valori antifascisti e l’onore del Parlamento UE
Per la corrente che difende l’immunità, il caso Salis assume una valenza simbolica: la difesa dei valori antifascisti e democratici su cui si fonda l’Unione Europea. Ilaria Salis non è un parlamentare qualunque, ma una militante impegnata a contrastare movimenti neonazisti. La vicenda nasce da una contro-manifestazione antifascista e la reazione ungherese viene letta come ritorsione contro tale impegno. Tutelare lei significa, in questa prospettiva, lanciare un messaggio chiaro: l’Europarlamento “fa scudo” attorno a chi difende i valori europei contro derive estreme. Nel discorso incriminato tenuto in Aula di fronte a Orbán, Salis ricordò che l’Europa è nata “sulle ceneri della sconfitta del nazifascismo” e accusò Orbán di smantellare l’UE in nome di un nazionalismo autoritario. I favorevoli notano come la reazione veemente di Orbán (che l’ha definita una “terrorista Antifa” da sbattere in prigione) confermi la natura ideologica dello scontro: da un lato un governo che equipara l’antifascismo al terrorismo, dall’altro le istituzioni europee chiamate a prendere posizione. Salvando la Salis, la maggioranza progressista dell’Eurocamera ha voluto ribadire l’adesione ai valori antifascisti: emblematico che Salis, dopo il voto, abbia dichiarato “siamo tutti antifascisti” in un post celebrativo. Questo slogan, sostenuto pubblicamente anche dai colleghi, sottintende che proteggere lei equivale a proteggere la libertà di opposizione all’estrema destra.
C’è anche un elemento di dignità dell’istituzione parlamentare: molti deputati hanno vissuto come un affronto le immagini di una loro collega trascinata in catene e trattata come una criminale comune, per di più per fatti legati a proteste politiche. Il Parlamento europeo, in quanto custode ultimo dei valori UE, non poteva – secondo questa tesi – tollerare tale umiliazione senza reagire. “Questo voto è una vittoria… dell’antifascismo” ha esultato Salis a Strasburgo, collegando direttamente il proprio caso alla più ampia battaglia di civiltà contro i rigurgiti neofascisti. Fonti favorevoli sottolineano che in Ungheria, negli ultimi anni, “i neonazisti sono considerati patrioti e gli antifascisti nemici dello Stato”. Quindi, consegnare la Salis alla giustizia di Orbán avrebbe significato avallare questo capovolgimento dei valori. Viceversa, confermarne l’immunità è servito a marcare una linea rossa: l’Europa non equipara chi lotta contro il neofascismo a un criminale qualsiasi.
Alcuni commentatori aggiungono che la sinistra italiana, storicamente critica verso le immunità, in questa occasione ha sposato la causa della Salis proprio in nome dell’antifascismo militante. Ciò spiega perché partiti come PD e AVS, solitamente garantisti solo in linea di principio, abbiano fatto quadrato: “stavolta la difesa dell’immunità valeva come riaffermazione dei principi fondamentali di un giusto processo, pene proporzionate e giustizia indipendente”, ha dichiarato l’eurodeputata Pina Picierno, collegando il caso ai metodi repressivi “da Putin” di Orbán. In altre parole, il Parlamento UE – salvando Salis – avrebbe riaffermato i suoi principi costitutivi: rispetto dei diritti umani, opposizione a ogni forma di autoritarismo e condanna del fascismo storico e contemporaneo.
Va notato inoltre che il voto favorevole all’immunità della Salis ha richiesto coraggio anche nel PPE: i due misteriosi deputati popolari che in Commissione JURI si sono schierati con la sinistra hanno “messo i valori prima della disciplina di partito”. Questo è visto come un segnale positivo: “diversi colleghi di centrodestra mi hanno mostrato solidarietà… hanno fatto prevalere le garanzie democratiche sull’appartenenza politica”, ha rivelato Salis. La sua salvezza per un voto ha fatto emergere quindi un filone trasversale di coscienza antifascista e democratica che attraversa gli schieramenti, quando in gioco c’è la coerenza con i principi UE. In quest’ottica, la rappresentanza popolare di Salis non è un privilegio personale, ma il veicolo attraverso cui decine di migliaia di cittadini hanno portato in Parlamento le istanze antifasciste. Far valere la sua immunità è servito a onorare il mandato popolare: i suoi elettori l’avevano scelta anche per denunciare Orbán e consegnarla proprio a Orbán avrebbe tradito quel mandato.
La decisione dell’Eurocamera ha rafforzato l’immagine morale dell’istituzione. Dopo scandali come il Qatargate, in cui il Parlamento tolse immunità a deputati (Eva Kaili e altri) accusati di corruzione senza indugi, qui l’assemblea ha dimostrato di saper distinguere: non tutti i casi sono uguali, e c’è spazio per la clemenza intelligente quando i valori supremi lo richiedono. Questa selettività è stata oggetto di critiche, ma i sostenitori rispondono che non si tratta di doppi standard opportunistici, bensì di valutare il merito: “Chi combatte per la democrazia non può essere trattato come chi è corrotto”. Il salvataggio della Salis è quindi anche un atto di solidarietà istituzionale: il Parlamento protegge un proprio membro che ha agito – a suo dire – in difesa dei valori comuni, pur respingendo l’idea che tale protezione valga per qualunque crimine.
Dunque, “fermare la giustizia” ungherese di fronte alla rappresentanza popolare di Salis è un gesto di fedeltà ai principi ispiratori dell’UE. L’immunità parlamentare, spesso considerata un privilegio arcaico, qui è stata riscoperta come strumento per impedire che un’istituzione democratica (il Parlamento) venisse umiliata e che una lotta antifascista venisse soffocata.
Nina Celli, 9 ottobre 2025
Il mandato non nobilita la violenza. L’eletto resta responsabile delle sue azioni
La violenza fisica non è espressione politica tutelabile dall’immunità. Anche ammesso il contesto “militante” o “antifascista”, resta centrale la tutela delle vittime e dell’ordine pubblico: se vi sono elementi di fatto (lesioni, concorso, aggravanti), essi vanno vagliati da un tribunale competente, senza che l’elezione sopravvenuta riscriva la gerarchia dei diritti. L’idea che un seggio possa “spostare” la sede naturale del processo a piacimento viene giudicata scivolosa: il giudice naturale non è quello preferito dall’imputato o politicamente più vicino, ma quello determinato per legge.
Si contesta inoltre la narrazione simbolica che lega la protezione dell’immunità alla difesa dell’antifascismo o dell’onore del Parlamento: il rischio è confondere il valore delle idee con la valutazione di condotte penalmente rilevanti. Per i contrari, attribuire alla militanza un surplus di tutela processuale crea un differenziale ingiustificato rispetto al cittadino comune, minando il principio di neutralità penale rispetto alle opinioni politiche. Anche il richiamo alla situazione ungherese, pur riconoscendone le criticità, non giustifica secondo questa tesi uno scudo preventivo: esistono rimedi meno invasivi (garanzie procedurali specifiche, monitoraggi, ricorsi sovranazionali) che non incidono sull’eguaglianza dei soggetti davanti alla giurisdizione.
Infine, questa posizione sottolinea un profilo etico-istituzionale: l’eurodeputato è funzionario pubblico della rappresentanza e deve essere il primo a rifiutare scorciatoie percepite come “immunità di casta”. Difendere l’onore del Parlamento significa evitare che l’assemblea appaia un rifugio per chiunque abbia pendenze penali pregresse, altrimenti si alimenta l’idea corrosiva che la politica serva a sottrarsi alla giustizia ordinaria. In breve: la rappresentanza popolare non può diventare super-diritto capace di schiacciare pretese punitive legittime; il controllo sul fair trial va esercitato ex post e per via giurisdizionale, non ex ante per via politica.
Nina Celli, 9 ottobre 2025