Il Piano di pace Usa per Gaza è una buona soluzione?
FAVOREVOLE O CONTRARIO?
Il 29 settembre 2025, alla Casa Bianca, Donald Trump e Benjamin Netanyahu presentano un piano in 20 punti per fermare la guerra a Gaza, cominciata dopo l’attacco del 7 ottobre 2023. Il racconto ufficiale è semplice e incisivo: tregua immediata, rilascio di tutti gli ostaggi entro 72 ore dall’adesione israeliana, e uno scambio che prevede la liberazione di 1.700 detenuti arrestati durante il conflitto e 250 ergastolani palestinesi; per ogni ostaggio israeliano deceduto, la restituzione di 15 salme palestinesi. Le operazioni offensive si arrestano durante lo scambio, le linee restano congelate e l’IDF si ritira per fasi, mantenendo inizialmente un “perimetro di sicurezza”. L’architettura è completata dall’esclusione di Hamas dalla futura governance, dalla smilitarizzazione con distruzione di tunnel e arsenali e da incentivi individuali (amnistia e passaggio sicuro per chi depone le armi).
IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:
Nel piano vi è un accenno, seppur condizionato, a un percorso di autodeterminazione. Si può ipotizzare un orizzonte politico oltre la pura gestione di sicurezza in Palestina.
Cessate il fuoco immediato e rilascio degli ostaggi: l’effetto più rapido è il salvataggio di vite e lo stop alla spirale di violenza.
Si ipotizzano ritiro e smilitarizzazione senza metriche e arbitri terzi. Così ci sono troppi margini per rinvii indefiniti e accuse reciproche.
Dichiarazione congiunta di paesi arabi e endorsement UE/UK/Francia: la massa critica internazionale rende l’accordo più implementabile.
Nella proposta vi è un piano economico dedicato e zona speciale, con incentivi a investimenti, lavoro e servizi, per uscire dall’emergenza permanente.
Nel piano di pace non vi è nessun meccanismo di accountability o fine esplicita dell’assedio: le cause profonde restano, con il rischio di una nuova escalation.
Ultradestra israeliana è pronta a far cadere il governo: la politica interna può distorcere o sabotare l’attuazione del piano di pace.
Un orizzonte politico che riapre la strada ai due Stati
Pur concentrato sulla fine immediata della guerra, il piano affronta anche la dimensione politica. Nella sua formulazione finale include un riferimento, seppur condizionato, a un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la sovranità palestinese. Non è una garanzia, ma è un’apertura che riconosce l’aspirazione palestinese e allinea le aspettative della comunità internazionale. Il riferimento ai due Stati, sostenuto con forza da partner arabi e dall’Unione Europea, riporta al centro un obiettivo che molti ritenevano ormai svanito. L’idea è di costruire, passo dopo passo, le condizioni politiche attraverso la ricostruzione economica e le riforme istituzionali dell’ANP, collegando i progressi sul terreno a benefici concreti per la popolazione.
Sul piano regionale, una tregua stabile a Gaza ridurrebbe il rischio di escalation nei paesi vicini, come Egitto e Libano, e consentirebbe di rilanciare percorsi di normalizzazione economica. Energia, infrastrutture e commercio potrebbero diventare strumenti di integrazione, con dividendi per israeliani e palestinesi. In questo senso, la tregua non è solo un modo per fermare le bombe, ma un ponte verso una prospettiva politica. Se consolidata, può trasformare Gaza da epicentro di conflitto a terreno di sperimentazione di una convivenza negoziata. È un inizio, non una soluzione definitiva, ma segna il ritorno di un linguaggio politico che sembrava cancellato: quello della coesistenza e della statualità.
Nina Celli, 1° ottobre 2025
Cessate il fuoco e scambio ostaggi: i benefici sono immediati
Il principale punto di forza del piano statunitense resta la capacità di produrre benefici immediati e tangibili. Le condizioni operative, scandite da tempi precisi e responsabilità definite, riducono la discrezionalità politica e trasformano l’accordo in una sequenza di azioni verificabili. La tregua è entrata in vigore il 10 ottobre 2025, dopo l’approvazione formale del governo israeliano, segnando il primo risultato concreto del piano.
L’attuazione della “fase 1” ha consentito l’avvio delle procedure di scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi: sono già stati predisposti gli elenchi di circa 1.700 detenuti e 250 ergastolani, mentre le prime liberazioni sono calendarizzate entro 72 ore dal ritiro delle truppe.
Questo dispositivo riduce la zona grigia dei rinvii tattici: o gli scambi avvengono nei tempi previsti, oppure le parti vengono immediatamente esposte alla pressione internazionale. La precisione dei passaggi operativi e la loro visibilità pubblica rendono la tregua un banco di prova concreto per la credibilità di entrambe le leadership. La sospensione delle operazioni mentre avviene lo scambio riduce inoltre il rischio di incidenti e crea finestre sicure per i convogli umanitari, garantendo che aiuti vitali possano raggiungere la popolazione senza essere colpiti da raid o interruzioni.
Sul piano sociale, l’impatto sarebbe dirompente. In Israele la richiesta “tutti a casa subito” è diventata il simbolo delle proteste delle famiglie degli ostaggi. In parallelo, la liberazione su larga scala di prigionieri palestinesi, comprese donne e minori, sarebbe percepita come un gesto di riequilibrio dopo anni di detenzioni. È un punto di contatto raro: entrambe le società vedrebbero soddisfatte richieste fondamentali, con un sollievo emotivo collettivo che aprirebbe spazi a nuovi negoziati.
Oltre alla sospensione delle ostilità, la “fase 1” produce un impatto umanitario già misurabile. Secondo WFP e UNICEF, i corridoi aperti dal 10 ottobre hanno consentito il passaggio di circa 600 camion di aiuti al giorno, con 145 punti di distribuzione e una rete di 30 panifici comunitari riattivati. In meno di tre giorni oltre 1,2 milioni di persone hanno ricevuto generi alimentari, acqua potabile e beni essenziali.
Questa espansione logistica, resa possibile dal coordinamento fra Egitto, ONU e ONG, restituisce margini vitali alla popolazione civile e dimostra che la tregua può tradursi in un miglioramento immediato delle condizioni di vita. L’aumento degli accessi umanitari rappresenta la prima evidenza empirica di un “dividendo di pace” percepito, anche in assenza di un accordo politico definitivo.
Nina Celli, 12 ottobre 2025
Ambiguità operative: il rischio di uno stallo infinito
Nonostante i progressi, il piano conserva zone d’ombra decisive. Le formule di “smilitarizzazione completa” e “ritiro in fasi” mancano di indicatori verificabili e di un arbitro indipendente con poteri esecutivi. Hamas ha dichiarato pubblicamente di non accettare il disarmo come condizione preliminare, limitandosi a garantire la sospensione delle operazioni.
In assenza di meccanismi coercitivi, la tregua rischia di cristallizzare un equilibrio provvisorio. Il calendario di dismissione degli arsenali resta non specificato, e nessuna parte terza dispone ancora dell’autorità per certificare l’attuazione.
Il risultato potrebbe essere una “pace amministrata”, capace di ridurre le vittime ma non di impedire il riarmo progressivo.
Anche dentro Gaza la percezione è simile. Testimonianze raccolte dai media descrivono il piano come “una farsa” o “irrealistico”. Molti temono che Israele ottenga la liberazione degli ostaggi e poi riprenda le operazioni, senza concedere nulla ai palestinesi. È una sfiducia radicata, costruita su anni di cessate il fuoco mai rispettati.
Il limite più evidente è la mancanza di un sistema di enforcement multilaterale. Il summit di Sharm el-Sheikh è chiamato a definire il mandato della forza di stabilizzazione, ma alla vigilia non esiste ancora un testo vincolante.
Senza poteri coercitivi e sanzioni automatiche, il rispetto degli impegni resta affidato alla volontà politica delle parti. L’assenza di una missione internazionale “duro su duro” con capacità di monitoraggio effettivo lascia aperta la possibilità di violazioni locali e di una ripresa del conflitto non appena le pressioni internazionali diminuiranno.
La tregua, pur preziosa per l’impatto umanitario, rischia così di tradursi in una sospensione temporanea del conflitto più che in una soluzione strutturale.
Nina Celli, 12 ottobre 2025
Il caso raro del consenso arabo-occidentale come prova di legittimità
Il successo iniziale del piano si spiega anche con la sua crescente legittimazione diplomatica. Il summit di Sharm el-Sheikh del 13 ottobre 2025, co-presieduto da Donald Trump e dal presidente egiziano al-Sisi, riunisce oltre 30 leader mondiali, tra cui rappresentanti di UE, ONU, Arabia Saudita, Qatar e Turchia. L’ampiezza di questa partecipazione conferisce al processo una dimensione multilaterale che ne rafforza la tenuta.
Le dichiarazioni congiunte di UE e ONU, che definiscono la tregua “un passo necessario e verificabile verso la de-escalation”, consolidano la cornice di legittimità internazionale. In tal modo ogni eventuale violazione diventerebbe un costo reputazionale per le parti, mentre la pressione collettiva favorisce la continuità negoziale.
Il piano, concepito come iniziativa americana, si trasforma così in una piattaforma condivisa, sostenuta da attori regionali e globali con interessi convergenti nella stabilità. Per la prima volta dopo decenni, paesi arabi e islamici come Egitto, Qatar, Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Indonesia e Pakistan hanno firmato una dichiarazione congiunta di sostegno, definendo gli sforzi del presidente americano “sinceri” e impegnandosi a collaborare. Anche l’Unione Europea e diversi leader occidentali, tra cui Emmanuel Macron e Keir Starmer, hanno espresso apprezzamento e disponibilità a contribuire.
Questo sostegno non è solo simbolico: implica finanziamenti, logistica e disponibilità a partecipare a una forza internazionale di stabilizzazione. Significa che non si tratta di un accordo bilaterale fragile, ma di un’iniziativa multilaterale che coinvolge attori capaci di garantire risorse, monitoraggio e pressioni politiche.
La posizione di leader come Erdogan, che ha parlato di “pace giusta e duratura”, mostra come anche paesi che avevano rapporti conflittuali con Israele siano pronti a impegnarsi. In Europa, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha definito l’iniziativa “un’opportunità da cogliere”, segnalando che Bruxelles non intende restare spettatrice ma essere partner attivo nella ricostruzione.
Questo fronte così ampio crea un effetto di isolamento per chiunque voglia sabotare l’intesa. Per Hamas, rifiutare il piano avrebbe significato esporsi a critiche, non solo da parte dei tradizionali nemici, ma anche di paesi arabi amici e sostenitori storici. Per Israele, rompere gli impegni significherebbe incrinare rapporti diplomatici appena ricuciti. In entrambi i casi, il costo politico di un eventuale sabotaggio diventa più alto.
La convergenza internazionale riduce anche il rischio di un collasso del processo nella fase di implementazione. Se in passato le tregue sono fallite per mancanza di sponsor esterni, qui la presenza di una coalizione trans-regionale rende più probabile che l’accordo possa essere monitorato, corretto e sostenuto nel tempo.
Nina Celli, 12 ottobre 2025
Una transizione istituzionale che combina stabilità e sviluppo
Il piano propone un’architettura di governance pensata per separare la gestione quotidiana dalle dispute politiche. Gaza sarebbe amministrata da un comitato tecnocratico palestinese, scelto per competenze e non per appartenenza a fazioni, sotto la supervisione di un Consiglio internazionale guidato da Trump. L’obiettivo è garantire continuità dei servizi essenziali—scuole, ospedali, acqua, elettricità—senza che la Striscia cada sotto il controllo di milizie. Parallelamente, una forza internazionale di stabilizzazione composta da paesi arabi e partner internazionali addestrerebbe e affiancherebbe le forze di polizia locali, colmando il vuoto di sicurezza che l’uscita di Hamas lascerebbe inevitabilmente.
Da un punto di vista economico, il piano punta a creare una zona economica speciale e a lanciare programmi di sviluppo con il contributo di esperti che in passato hanno partecipato a progetti di modernizzazione nel Medio Oriente. L’idea è di trasformare Gaza da area di crisi permanente a laboratorio di sviluppo, attirando investimenti regionali e creando posti di lavoro.
La struttura economica del piano, che prevede la creazione di una zona economica speciale nella Striscia di Gaza e nel Negev, resta uno degli elementi più innovativi e meno contestati. Gli incentivi alla ricostruzione e l’impegno di fondi multilaterali collegano la pace alla prospettiva di sviluppo.
Pur non essendovi ancora stati aggiornamenti sostanziali dopo il 1° ottobre 2025, i contatti preliminari fra UE e paesi arabi confermano la disponibilità a finanziare la seconda fase del piano. Se implementata, la road map economica potrebbe consolidare i risultati umanitari e tradurli in crescita sostenibile.
Il principio resta quello di una “pace con dividendi”: sicurezza in cambio di sviluppo, sviluppo in cambio di sicurezza.
Nina Celli, 12 ottobre 2025
Una pace senza giustizia né fine dell’assedio
La legittimità del processo rimane incerta. L’esclusione dell’Autorità Palestinese dai negoziati e la designazione di una governance tecnocratica alimentano la percezione di commissariamento esterno. La stessa AP ha criticato l’accordo definendolo “una sospensione della sovranità palestinese sotto tutela internazionale”.
Sul piano sociale, la distanza fra popolazione e nuove autorità provvisorie rischia di amplificare sfiducia e tensioni. Il bilancio aggiornato di oltre 67 000 vittime palestinesi accentua la domanda di giustizia e di riconoscimento politico. Senza un percorso di rappresentanza inclusivo, la tregua può apparire come un atto imposto più che condiviso, con il pericolo di nuove radicalizzazioni.
Il piano parla di cessate il fuoco e di ricostruzione, ma non affronta il tema della giustizia né quello dell’assedio. Non è previsto alcun meccanismo per indagare sui crimini di guerra o per garantire risarcimenti. Viene offerta un’amnistia ai membri di Hamas che depongono le armi, mentre nulla è detto sulle responsabilità israeliane per le migliaia di vittime civili.
Per la popolazione palestinese, questo rischia di tradursi in una pace senza diritti, percepita come imposta dall’esterno. Per quella israeliana, l’idea di perdonare i militanti di Hamas appare indigesta, soprattutto per le famiglie colpite dal 7 ottobre. Entrambi i lati possono sentirsi traditi.
Inoltre, l’assedio che da anni strangola Gaza non verrebbe smantellato, ma solo attenuato con la distribuzione di aiuti. Nulla è detto su porti, aeroporti o corridoi di collegamento con la Cisgiordania. Senza una prospettiva di libertà di movimento, la ricostruzione rischia di essere un’illusione.
Infine, la scelta di inserire Tony Blair come figura di supervisione accresce la percezione di un “protettorato” imposto, più che di un’autonomia restituita. Una pace senza giustizia e senza libertà difficilmente può essere duratura.
Nina Celli, 12 ottobre 2025
La variabile israeliana: una politica interna instabile
Il contesto israeliano rimane fortemente polarizzato. Dopo l’approvazione del 9 ottobre 2025, i ministri ultranazionalisti Ben-Gvir e Smotrich hanno minacciato di abbandonare la coalizione, giudicando l’intesa troppo concessiva verso Hamas. L’opposizione centrista di Gantz e Lapid ha invece espresso sostegno al piano, spostando l’equilibrio parlamentare ma non la fragilità complessiva del governo.
La possibilità di elezioni anticipate resta concreta, e con essa il rischio che gli impegni presi vengano sospesi o rinegoziati. In tale quadro, la stabilità della tregua dipende più dagli equilibri interni israeliani che dagli incentivi esterni, rendendo incerta la prosecuzione delle fasi successive.
Nina Celli, 12 ottobre 2025