Nr. 387
Pubblicato il 26/08/2025

Global Sumud Flotilla è uno strumento efficace per la causa palestinese

FAVOREVOLE O CONTRARIO?

La Global Sumud Flotilla è una coalizione internazionale di attivisti che nell’estate 2025 ha organizzato la più grande flottiglia civile mai tentata verso Gaza per sfidare il blocco navale israeliano. Decine di imbarcazioni provenienti da 44 Paesi, con a bordo operatori umanitari, medici, artisti e persino figure pubbliche di spicco come Greta Thunberg, si preparano a salpare il 31 agosto da Barcellona e il 4 settembre dalla Tunisia. L’obiettivo dichiarato è rompere l’assedio imposto alla Striscia di Gaza e aprire un corridoio umanitario via mare, portando aiuti essenziali a una popolazione stremata da guerra e fame. La parola sumud in arabo significa “resilienza” e incarna lo spirito di questa iniziativa: una forma di resistenza pacifica e non-violenta, che utilizza la disobbedienza civile per richiamare l’attenzione mondiale sul dramma di Gaza.


IL DIBATTITO IN 2 MINUTI:

01 - Accendere i riflettori su Gaza per rompere il silenzio internazionale

L’assedio a Gaza si sta “normalizzando” nell’indifferenza globale. Una flottiglia di decine di barche da ogni angolo del mondo rompe questa indifferenza.

02 - La Flotilla è una trovata simbolica, nessun aiuto reale per i palestinesi

I critici della Global Sumud Flotilla mettono in discussione l’efficacia dell'iniziativa. Si tratta di gesti simbolici, se non addirittura controproducenti.

03 - La Flotilla, dal 2010 a oggi, porta risultati concreti

L’efficacia della Global Sumud Flotilla non si misura solo nel raggiungere fisicamente Gaza, ma nel mettere in moto forze che prima non c’erano o erano disperse.

04 - Con l’azione della Flotilla c’è il rischio di escalation e danni collaterali

La Flotilla potrebbe innescare episodi di violenza e aggravare le tensioni, esattamente l’opposto di ciò che servirebbe per la causa palestinese.

05 - La Flotilla crea reti e empowerment dal basso che vanno oltre la missione

Il valore della Global Sumud Flotilla sta nella capacità di creare e rafforzare reti sociali e politiche transnazionali, che sopravvivranno alla missione stessa.

06 - La Flotilla è propaganda e violazione dei canali legittimi

La Global Sumud Flotilla è un’operazione di propaganda politica travestita da missione umanitaria.

07 - L’azione avrà un impatto legale e giuridico internazionale

Non è legale intercettare navi in acque internazionali se non sono dirette verso Israele ma verso acque palestinesi.

08 - Il blocco contro la Flotilla è legittimo e doveroso: la sicurezza prima di tutto

Il blocco navale di Gaza è uno strumento di autodifesa di Israele per prevenire l’ingresso di armi. Non può essere violato.

 
01

Accendere i riflettori su Gaza per rompere il silenzio internazionale

FAVOREVOLE

Per i sostenitori, la Global Sumud Flotilla è prima di tutto uno strumento mediatico-morale potente. Dopo mesi di guerra, Gaza rischia di scomparire dal discorso pubblico se non per tragiche statistiche. L’assedio si sta “normalizzando” nell’indifferenza globale. Una flottiglia di decine di barche da ogni angolo del mondo, con a bordo figure note come Greta Thunberg e Susan Sarandon, rompe questa indifferenza e riporta Gaza sulle prime pagine. Ogni veliero che salpa è un piccolo faro che illumina l’oscurità imposta dal blocco. Come scrive l’attivista palestinese Yara Hawari, “ogni nave intercettata, ogni volontario detenuto, riafferma che Gaza non sarà dimenticata”. La mera esistenza della Flotilla costringe governi e opinioni pubbliche a confrontarsi con la questione: l’assedio è compatibile con i valori umanitari occidentali? I leader globali, accusano i pro-Flotilla, hanno fallito nel fermare quella che ONG israeliane e internazionali definiscono senza mezzi termini una campagna di “genocidio” a Gaza. Dunque “tocca alla società civile” mobilitarsi, facendo leva sull’arma pacifica della testimonianza diretta.
La Flotilla porta nei porti del Mediterraneo (Barcellona, Tunisi, Genova e altri) eventi, conferenze stampa e manifestazioni che già nei giorni precedenti la partenza hanno mobilitato migliaia di persone. Il racconto mediatico si popola di volti e storie: medici, ex soldati, artisti che scelgono di rischiare pur di lanciare un appello umanitario. Ad esempio, dal Sud-Est asiatico è partita la campagna Sumud Nusantara: attivisti da Indonesia, Malesia, Filippine e altri Paesi, sostenuti simbolicamente persino dal premier malese Anwar Ibrahim, hanno raccolto fondi e partecipanti, sottolineando la dimensione globale Sud-Sud della solidarietà a Gaza. Queste iniziative creano un senso di unità transnazionale attorno alla causa palestinese: 44 bandiere diverse che sventolano insieme simboleggiano il mondo che dice “basta” all’assedio. Gli organizzatori parlano esplicitamente di “movimento di popoli” e non di governi, richiamando valori universali: “giustizia, libertà e sacralità della vita umana”.
Sul piano pratico, i favorevoli ammettono che la flotilla potrebbe non far arrivare tonnellate di cibo a Gaza, poiché non è un’operazione logistica, ma di coscienza. Il suo potere è nella narrazione pubblica che genera. Ricordano un precedente significativo: nel 2010, dopo il disastro del Mavi Marmara, Israele subì una pressione diplomatica tale da dover allentare il blocco terrestre e consentire l’ingresso di più beni essenziali a Gaza. Fu una vittoria indiretta dell’azione civile, sebbene pagata a caro prezzo. Oggi la Global Sumud Flotilla, molto più vasta, potrebbe replicare quell’impatto senza necessariamente arrivare in porto: “la Madleen è stata fermata in mare, ma il suo messaggio viaggia lontano”, chiosa Hawari. La presenza di personalità influenti amplifica la risonanza: la stessa Greta Thunberg è seguita da milioni di giovani e la sua partecipazione ha generato centinaia di articoli e discussioni sui social, portando nuovi segmenti di pubblico a informarsi sulla crisi di Gaza.
Inoltre, i pro-Flotilla sottolineano che l’azione è rigorosamente non-violenta e legale, mettendo Israele in una posizione scomoda: qualsiasi intervento armato contro pacifisti disarmati appare sproporzionato e difficilmente giustificabile agli occhi del Diritto internazionale e dell’opinione pubblica. Ciò fu evidente nel 2010, quando l’uccisione degli attivisti provocò condanne planetarie e isolò diplomaticamente Israele. Questa volta la flotilla ha preparato i partecipanti con addestramento alla nonviolenza e strategie di comunicazione in diretta (streaming, reporter a bordo) per mostrare in tempo reale cosa accade. Ad esempio, sulla Handala a luglio vi erano giornalisti di “Al Jazeera” che hanno trasmesso fino al momento dell’abbordaggio. Le immagini di soldati armati che si calano su piccole imbarcazioni cariche di cibo per bambini e volontari generano un inevitabile impatto morale. Organizzazioni per i diritti umani come Adalah e UN Special Rapporteurs hanno già dichiarato illegale l’intercettazione di navi civili in acque internazionali e hanno invocato safe passage per le flottiglie umanitarie. Ogni atto repressivo, dunque, rafforza la causa palestinese sul piano legale e reputazionale.
I favorevoli vedono nella Flotilla un atto di speranza attiva che coinvolge anche chi non sale fisicamente a bordo. L’organizzazione ha invitato il pubblico a partecipare a proteste e flash mob nei vari Paesi durante la navigazione. Questo produce un effetto domino: mentre le barche avanzano, si tengono veglie, cortei, sit-in nei porti e città del mondo, in sostegno e protezione morale dei convogli. Lo slogan è “When the world stays silent, we set sail” (quando il mondo resta in silenzio, noi salpiamo), a indicare che la mobilitazione navale serve anche a svegliare le coscienze assopite. Persone comuni, non schierate politicamente, possono empatizzare con l’idea di medici e pacifisti su piccole barche bloccate da navi militari, e magari cambiare opinione sulla narrazione dominante. In tal senso, la Global Sumud Flotilla è vista come efficace: non tanto nel forzare materialmente l’assedio (obiettivo quasi impossibile), ma nel “forzare il mondo a guardare” e a porsi domande scomode sulla situazione di Gaza e sulle proprie responsabilità.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
02

La Flotilla è una trovata simbolica, nessun aiuto reale per i palestinesi

CONTRARIO

I critici della Global Sumud Flotilla mettono in discussione l’efficacia concreta di iniziative di questo tipo, sostenendo che si tratta di gesti per lo più simbolici, se non addirittura controproducenti. Anzitutto, sottolineano il divario fra la retorica e la realtà fattuale: la Flotilla si presenta come “missione umanitaria” per portare aiuti, ma in pratica le quantità trasportate da barche di piccole dimensioni sono logisticamente insignificanti di fronte al fabbisogno di Gaza. Le Nazioni Unite stimano che per sfamare la popolazione servirebbero almeno 500 camion di aiuti al giorno, pari a migliaia di tonnellate. Una flottiglia di vele e yacht, per quanto numerosa, potrà al massimo recapitare poche decine di tonnellate di beni, e la storia recente mostra che nemmeno quelle arrivano: sia la Madleen sia la Handala trasportavano un carico esiguo (poche centinaia di kg di alimenti e medicine) e non hanno raggiunto Gaza. Alla fine, osservano i detrattori, quel poco di aiuto viene consegnato a Gaza attraverso i canali ufficiali israeliani, come avvenuto con la Madleen (dopo il sequestro, i viveri sono stati portati via terra a Kerem Shalom). Ciò significa che l’intera operazione si traduce in un nulla di fatto sul piano del sollievo immediato ai palestinesi: “non ha cambiato di una virgola le sofferenze sul terreno”, affermano.
Non solo: da una prospettiva critica, queste missioni possono addirittura aggravare la situazione materiale in Gaza in modo indiretto. Ogni tentativo di forzare il blocco spinge Israele a essere più rigido nel controllo degli aiuti e nei permessi, per timore di apparire debole o di aprire una breccia. Ad esempio, dopo la Freedom Flotilla del 2010, è vero che Israele allentò l’embargo sulle merci civili, ma mantenne (e anzi irrigidì) quello sui materiali dual-use e sulle uscite di persone: i gazawi non poterono comunque riprendere a viaggiare né ad esportare liberamente, e negli anni seguenti il regime delle chiusure divenne più sofisticato (liste di divieti più lunghe, requisiti di sicurezza più stringenti). In parte ciò avvenne anche per controbilanciare la “sconfitta mediatica” subita. I critici temono che ora, in piena guerra, un tentativo clamoroso come la Global Sumud Flotilla possa spingere il governo israeliano – già estremamente inflessibile – a reagire irrigidendo ancora di più le condizioni di accesso. Ad esempio: Israele potrebbe sospendere del tutto i corridoi umanitari aerei o via terra nei giorni della Flotilla, come misura preventiva, lasciando perciò passare meno aiuti del solito. Oppure, qualora la Flotilla fallisse, i falchi nel governo potrebbero usarla per giustificare la linea dura dicendo: “vedete, il mondo è contro di noi, non possiamo cedere di un millimetro”. In sintesi, secondo questa visione, i gesti simbolici fanno rumore ma non muovono camion di cibo né aprono valichi; anzi, rischiano di essere un fuoco d’artificio isolato che poi lascia tutto come prima, se non peggio.
Un aspetto su cui i contrari insistono è poi il costo-opportunità: quante risorse (denaro, tempo, energia) vengono spese per allestire queste flottiglie, e come potrebbero essere impiegate diversamente? La Global Sumud Flotilla ha dovuto raccogliere fondi per acquistare o noleggiare imbarcazioni, carburante, assicurazioni, oltre a coordinare la logistica di porti in diversi Paesi. Parliamo di centinaia di migliaia di euro, se non di più. Alcuni critici suggeriscono che con quei soldi si sarebbero potute finanziare ad esempio diverse spedizioni aeree di medicinali via ONU (da consegnare a Rafah) o programmi di sostegno per i profughi gazawi in Egitto. Ovviamente, i promotori ribattono che non è solo questione di aiuti materiali ma di sensibilizzazione. Ma per i detrattori questo suona come una giustificazione post-factum: non riuscendo nell’intento umanitario dichiarato, si sposta l’asticella sugli effetti propagandistici. In altre parole, vedono una sorta di ipocrisia di fondo: la Flotilla fa appello al dramma umanitario per ottenere supporto, salvo poi non incidere davvero su quel fronte e rifugiarsi nel valore simbolico. Ciò rischia di erodere la credibilità del movimento agli occhi di chi vorrebbe aiutare Gaza, ma resta deluso dai risultati nulli.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
03

La Flotilla, dal 2010 a oggi, porta risultati concreti

FAVOREVOLE

I fautori della Flotilla non si limitano agli aspetti simbolici: portano esempi di come queste iniziative abbiano influenzato politiche reali. Il caso cardine è quello post-Mavi Marmara 2010. Allora l’assalto israeliano alla flottiglia internazionale generò scandalo; il Consiglio di Sicurezza ONU si riunì d’urgenza e diversi governi (persino storici alleati di Israele) condannarono l’accaduto. Nel giro di poche settimane, sotto questa pressione coordinata, Israele annunciò un cambiamento nella gestione del blocco terrestre: da una lista ristretta di prodotti permessi si passò a una lista di proibiti, aprendo l’entrata a molti beni prima banditi (alimentari, materiali edili). Amnesty International notò come 4 gazawi su 5 dipendessero dagli aiuti e accolse con favore qualsiasi alleviamento, pur definendolo “non abbastanza” e chiedendo la rimozione totale dell’embargo. Ciò dimostra, secondo i pro-Flotilla, che Israele reagisce ai costi reputazionali: l’assedio è mantenuto finché il mondo lo tollera, ma se l’indignazione supera un certo livello, persino un governo intransigente è costretto a fare concessioni. La Global Sumud Flotilla mira proprio a far salire quei costi reputazionali ai massimi livelli, stavolta non con un singolo evento traumatico (come l’uccisione degli attivisti nel 2010), bensì con una campagna diffusa e partecipata.
I sostenitori sottolineano inoltre che la Flotilla unisce competenze e reti che possono produrre benefici tangibili: ad esempio, tra gli organizzatori vi sono medici, giuristi e logistici esperti (alcuni con esperienza di navigazione) che hanno preparato piani per un eventuale sbarco sicuro a Gaza, incluso un coordinamento con ospedali locali per consegnare medicine specifiche. Anche se la consegna diretta avesse bassa probabilità, la semplice presenza di scorte sanitarie a bordo pronte all’uso evidenzia l’assurdità del blocco. Ad esempio, la nave Madleen a giugno trasportava latte in polvere, farina, riso e pannolini, beni di prima necessità per bambini assediati. Bloccare questi articoli mette in chiaro il carattere punitivo dell’assedio e rafforza le posizioni di chi (ONU, Croce Rossa) ne chiede l’immediata sospensione per motivi umanitari. Nel frattempo, alcune di queste forniture finiscono comunque a destinazione via altri canali: quando Israele sequestrò la Madleen, assicurò di aver trasferito il piccolo carico a Gaza via terra. Ciò significa che indirettamente la Flotilla ha fatto entrare materiali in Gaza che forse non sarebbero entrati (o non così presto): un risultato minuscolo ma concreto.
Un altro elemento concreto è la leva legale: la perseveranza delle flottiglie ha portato organismi internazionali e tribunali a pronunciarsi. Nel giugno 2025, ad esempio, due Relatori Speciali ONU hanno pubblicamente chiesto a Israele di garantire il passaggio sicuro della barca Madleen e di tutte le future iniziative umanitarie via mare. Hanno ricordato che dal 2 marzo 2025 Israele impedisce qualsiasi accesso a Gaza, configurando un assedio totale. Queste prese di posizione ufficiali, sollecitate dall’azione diretta degli attivisti, creano un corpus di dichiarazioni e pareri giuridici che nel lungo periodo possono tradursi in risoluzioni, sanzioni o azioni legali. Un esempio: nel luglio 2023 la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Francia per aver multato attivisti BDS, riconoscendo la legittimità delle campagne di boicottaggio come libertà di espressione. Analogamente, la Flotilla spinge confini legali: se Israele reagirà in modo violento, potrebbero scattare nuove denunce all’ICC (dove già pende un mandato d’arresto per crimini di guerra su Gaza contro Netanyahu e altri). Insomma, l’azione civile prepara il terreno per sviluppi giudiziari e politici che vanno oltre la singola spedizione.
I favorevoli citano anche casi in cui la pressione dal basso ha avuto impatti diplomatici in corso di conflitto. Ad esempio, dopo gli incidenti di giugno-luglio 2025, alcuni Paesi europei hanno mostrato segnali d’impazienza verso Israele: il Belgio ha vissuto tensioni di governo sul possibile riconoscimento dello Stato di Palestina come gesto politico e il Parlamento Europeo il 21 agosto ha votato per sospendere parte dei fondi Horizon+ a Israele, misura definita “simbolica” ma significativa. Queste dinamiche, sebbene non attribuibili unicamente alle flottiglie, si inseriscono nel clima creato anche dalle mobilitazioni di solidarietà. La Flotilla, facendo rumore mediatico, agevola i settori politici e diplomatici che vogliono spingere per un cambio di approccio su Gaza, dando loro una finestra di opportunità per agire senza sembrare isolati. Per i pro, dunque, efficacia significa anche questo: fornire l’innesco e la copertura di opinione pubblica per passi che altrimenti non sarebbero nemmeno contemplati.
C’è, inoltre, un aspetto di empowerment locale: portare delegazioni internazionali così ampie coinvolge attivamente la diaspora palestinese e i comitati locali di solidarietà in decine di Paesi. In Italia, ad esempio, la Flotilla ha fatto nascere coordinamenti dal basso (come Global Movement to Gaza Italia) e coinvolto volti noti del cinema, della cultura popolare e accademica in appelli e raccolte fondi. Queste reti potranno continuare a lavorare anche oltre la missione navale, organizzando ad esempio convogli terrestri o campagne di informazione. In sostanza, la Flotilla costruisce un movimento sociale internazionale più coeso e consapevole, che nel tempo potrebbe fare la differenza con pressioni continuative (boicottaggi, lobby politiche pro-Palestina ecc.). L’efficacia, insomma, non si misura solo nel raggiungere fisicamente Gaza, ma nel mettere in moto forze che prima non c’erano o erano disperse. E sotto questo profilo, la Global Sumud Flotilla ha già avuto successo nel momento stesso in cui decine di migliaia di persone si sono registrate per partecipare o supportare (oltre 28.000 solo sul portale iniziale) e milioni ne hanno sentito parlare. Come conclude uno degli attivisti asiatici in partenza: “il mondo non deve tacere davanti a questa disumanità. Questo è ciò che cerchiamo di evidenziare con questo convoglio globale”.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
04

Con l’azione della Flotilla c’è il rischio di escalation e danni collaterali

CONTRARIO

Un motivo centrale di opposizione alla Flotilla è la preoccupazione che essa possa innescare episodi di violenza e aggravare le tensioni, esattamente l’opposto di ciò che servirebbe per la causa palestinese. Gli analisti critici ricordano come finì la flottiglia del 2010: nove attivisti uccisi, decine feriti, un commando israeliano ferito grave e una crisi internazionale. Oggi, con la guerra in corso, lo scenario potrebbe essere persino più pericoloso. L’esercito israeliano ha chiarito senza ambiguità che “impedirà con ogni mezzo necessario” l’accesso di navi non autorizzate a Gaza. Il ministro Barak nel 2010 avvertiva di “confronto violento e pericoloso” se le barche non avessero deviato; quella dottrina è ancora valida, se non più rigida dopo il trauma del 7 ottobre 2023. Pertanto, i detrattori temono che forzare la mano ora potrebbe portare a un “incidente in mare” con esiti fatali: e se una motovedetta israeliana urtasse (volontariamente o per errore) una delle barche causando un naufragio? Se partisse un colpo accidentale? Israele ha già dimostrato di essere disposto ad utilizzare anche droni armati contro le navi: a maggio, secondo la Freedom Flotilla Coalition, la barca Conscience fu colpita da due droni al largo di Malta e danneggiata tanto da dover rinunciare. Un attacco del genere, se ripetuto su scala più ampia, potrebbe fare vittime. “Otteniamo un martire, perdiamo la causa”: questo è il timore di alcuni osservatori: che un bagno di sangue in mare finirebbe per polarizzare ancora di più il conflitto, riducendo gli spazi per soluzioni negoziali. Da un lato si creerebbero nuovi eroi/martiri per la causa palestinese, dall’altro Israele si chiuderebbe a riccio invocando il diritto alla difesa da quelle che definirebbe “provocazioni orchestrate” dall’“internazionale pro-Hamas”. Non va dimenticato infatti – sottolineano i critici – che Israele non esiterebbe a delegittimare moralmente i partecipanti dipingendoli come estremisti in combutta con il “nemico”. Dopo il sequestro della Handala, i media israeliani hanno evidenziato che tra gli organizzatori storici delle flottiglie ci sono figure come Zaher Birawi, designato da Israele e Regno Unito come operatore di Hamas. Un think-tank di Gerusalemme (JCPA) definì la flottiglia 2010 “una provocazione ben congegnata, falsamente presentata come missione umanitaria”, accusando gli organizzatori di voler sostenere il regime di Hamas e notando che alcune “donazioni” a bordo (es. reti mimetiche) avevano potenziali usi militari. Insomma, per Israele queste non sono innocenti crociere pacifiste, ma operazioni ostili mascherate. In caso di scontro, è prevedibile che Israele enfatizzi qualsiasi minimo dettaglio (una reazione brusca di un attivista, oggetti contundenti a bordo usati per difesa) per giustificare l’uso della forza, come fece nel 2010 sostenendo che i soldati furono attaccati con spranghe e coltelli e reagirono per legittima difesa.
Inoltre, dal punto di vista dei contrari, la Flotilla rischia di distrarre e dividere gli sforzi internazionali. In un momento così delicato, l’ONU e vari mediatori stanno cercando di negoziare pause umanitarie, corridoi sicuri e scambi di ostaggi. L’iniziativa di una flottiglia parallela potrebbe complicare questo lavoro diplomatico, fornendo a Israele un argomento per dire: “vedete, c’è chi rema contro e fa propaganda invece di lavorare seriamente a soluzioni”. Già in passato, ricordano, l’ANP di Ramallah criticò alcune flottiglie perché temeva potessero dare ad Hamas un boost propagandistico e indebolire le posizioni più moderate. Oggi anche l’Egitto – attore chiave per Gaza – guarda con diffidenza a queste iniziative “non coordinate” che possono creare incidenti internazionali proprio sul suo confine marittimo. Se ad esempio la Flotilla fosse attaccata, l’Egitto subirebbe pressioni per aprire Rafah o reagire, ma potrebbe anche usarlo come pretesto per chiudere ancor più i confini appellandosi alla sicurezza.
Un ulteriore danno collaterale paventato è la strumentalizzazione interna palestinese. Hamas, isolata e sotto assedio, saluterebbe ogni flottiglia come una vittoria propagandistica: lo ha già fatto dopo la Handala, applaudendo “il coraggio dei volontari” e definendo il sequestro israeliano “pirateria terroristica”. Ma questo elogio reciproco tra attivisti internazionali e Hamas può alienare una parte dell’opinione pubblica mondiale. Molti sostenitori della causa palestinese sono critici verso Hamas; se la Flotilla venisse percepita come eccessivamente schierata o strumentalizzata dal movimento islamista, alcuni potrebbero prenderne le distanze. I critici dicono: “si rischia di fare il gioco di Hamas, che poi non porta alcun beneficio concreto alla popolazione”. In pratica, c’è chi teme che l’operazione Sumud Flotilla offra un palcoscenico a Hamas per posare da vittima agli occhi del mondo, senza migliorare davvero la vita dei gazawi, e anzi rafforzando la narrativa israeliana che vuole Hamas sempre al centro.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
05

La Flotilla crea reti e empowerment dal basso che vanno oltre la missione

FAVOREVOLE

La Global Sumud Flotilla non va interpretata solo come un evento episodico, limitato al tentativo di portare aiuti a Gaza via mare. Per molti sostenitori, il suo valore principale sta nella capacità di creare e rafforzare reti sociali e politiche transnazionali, che sopravvivranno alla missione stessa. Si tratta di un fenomeno che in sociologia dei movimenti viene definito “empowerment collettivo”: la costruzione di capitale sociale e la creazione di un senso di identità condivisa fra attori diversi, uniti da un obiettivo comune.
La preparazione della Flotilla ha già attivato comitati locali in decine di Paesi: in Italia il Global Movement to Gaza ha raccolto firme e organizzato conferenze con accademici e artisti; in Spagna e Catalogna la partenza dal porto di Barcellona è stata preceduta da assemblee cittadine e cortei; in Tunisia e nel Maghreb sono sorte reti che collegano attivisti nordafricani con quelli europei e medio-orientali. Nel Sud-Est asiatico la campagna Sumud Nusantara ha coinvolto attivisti di Indonesia, Malesia e Filippine, creando un ponte tra lotte locali e la causa palestinese. Questo tessuto organizzativo, sottolineano i pro-Flotilla, non scomparirà al termine della traversata, ma continuerà ad agire su altri fronti: boicottaggi, pressione politica sui governi, sostegno ai rifugiati palestinesi.
Gli stessi organizzatori hanno dichiarato che “la nostra forza non è solo nelle barche, ma nelle comunità che abbiamo messo in movimento”. La dimensione globale dell’iniziativa, con 44 Paesi rappresentati, rende visibile una solidarietà planetaria che travalica frontiere, religioni e culture. Per alcuni analisti, questo è già un risultato tangibile: la costruzione di una rete politica e sociale internazionale coesa, in grado di mantenere viva l’attenzione su Gaza nel tempo. Anche se le imbarcazioni venissero fermate, le reti resterebbero: i volontari tornerebbero nei loro Paesi con un bagaglio di esperienze, contatti e motivazioni che potrebbero tradursi in altre forme di attivismo.
L’empowerment riguarda anche la diaspora palestinese, che attraverso la Flotilla rafforza i propri legami con la società civile internazionale. Le comunità palestinesi in Europa e America Latina hanno partecipato attivamente all’organizzazione, trovando uno spazio per riaffermare identità e legittimità politica. Inoltre, la partecipazione di attori esterni – come gruppi ambientalisti guidati da Greta Thunberg – dimostra che la causa palestinese può intrecciarsi con altre lotte globali (cambiamento climatico, diritti umani universali). Questo incrocio produce un effetto moltiplicatore: persone che forse non si erano mai interessate di Gaza ora la percepiscono come parte di un più ampio discorso di giustizia globale.
Va inoltre considerato l’aspetto pedagogico e generazionale. Migliaia di giovani attivisti hanno seguito la formazione nonviolenta proposta dagli organizzatori, imparando tecniche di resistenza civile che potranno riutilizzare in altri contesti. Si crea così un patrimonio di competenze che non si disperderà, ma resterà come eredità a movimenti futuri. Per questo i favorevoli parlano di “investimento strategico”: la Flotilla come palestra di cittadinanza attiva, in cui si forgiano reti e competenze che avranno un impatto ben oltre il Mediterraneo.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
06

La Flotilla è propaganda e violazione dei canali legittimi

CONTRARIO

Molti oppositori affermano che la Global Sumud Flotilla sia un’operazione di propaganda politica travestita da missione umanitaria. Israele e i suoi alleati lo sostengono apertamente: la definiscono un “media stunt”, una trovata pubblicitaria orchestrata da attivisti filopalestinesi (spesso vicini a ambienti radicali di sinistra o islamisti) per delegittimare Israele. Gli elementi addotti a sostegno di questa accusa sono diversi. In primis, il rifiuto di qualsiasi compromesso: Israele ha offerto più volte (nel 2010 e ora) di far consegnare gli aiuti via terra previa ispezione ad Ashdod, con persino la proposta di coinvolgere un organismo neutrale come l’ONU nella verifica. Se davvero lo scopo fosse solo aiutare i civili, chiedono i critici, perché non accettare? La risposta dei pro-Flotilla è che il problema è il blocco in sé, ma agli occhi dei contrari ciò dimostra che il vero obiettivo è politico: creare un caso mediatico e mettere in difficoltà Israele, più che nutrire bambini a Gaza. Un diplomatico israeliano nel 2010 dichiarò al Segretario ONU: “Israele si riserva il diritto di usare ogni mezzo necessario per impedire a queste navi di violare il blocco”. Dunque, chi organizza la Flotilla sa benissimo che verranno fermati; se insistono, è perché puntano sulla foto dell’abbordaggio, sul frame di “Davide contro Golia” e sul conseguente guadagno di simpatia per la causa palestinese. Questo, sostengono i detrattori, non è aiuto umanitario ma teatro politico.
Un altro punto critico è la scelta deliberata di violare norme e procedure. Pur contestando la legalità del blocco, gli attivisti sanno che per l’ONU Gaza resta un territorio in conflitto soggetto a restrizioni: per inviare aiuti è necessaria una coordinazione quantomeno con l’UNRWA o con le autorità egiziane/israeliane. Ignorare queste procedure significa delegittimare il principio di sovranità e controllo alle frontiere. Se chiunque potesse inviare navi dove vuole in nome di cause umanitarie, argomentano i contrari, il diritto internazionale marittimo sarebbe caos. Ad esempio, perché allora non una flottiglia indiana verso lo Sri Lanka durante la guerra civile Tamil, o navi russe verso il Donbass aggirando i porti ucraini? Si aprirebbe un precedente pericoloso in cui attori non-statali decidono arbitrariamente di entrare in zone di conflitto con il pretesto degli aiuti, rischiando di aggravare le guerre. La neutralità umanitaria viene meno quando un’azione non è concordata con tutte le parti: in questo caso è evidente che Israele – parte in causa – non ha autorizzato la Flotilla. Anzi, un’agenzia umanitaria seria come il CICR (Comitato Internazionale Croce Rossa) non partecipa a queste iniziative proprio perché devono mantenere imparzialità e dialogare con tutti. I volontari della Flotilla invece si collocano apertamente dalla parte palestinese, adottando anche la terminologia di “genocidio” e “apartheid” riferita a Israele. Per i critici, ciò conferma il carattere politicizzato e di parte dell’operazione, incompatibile con un autentico sforzo umanitario (che dovrebbe essere volto ad alleviare le sofferenze, non a colpevolizzare uno dei belligeranti in particolare).
In aggiunta, viene spesso rilevato come le flottiglie tendano a presentarsi con molta enfasi morale, salvo poi semplificare la realtà del conflitto, offrendo una narrativa unilaterale. Ad esempio, denunciano giustamente la carestia a Gaza – su cui nessuno discute – ma sorvolano sul fatto che il blocco ha due responsabili: Israele a nord e Egitto a sud. Eppure, raramente si vedono attivisti protestare davanti all’ambasciata egiziana per l’apertura di Rafah, notano i detrattori. Ciò solleva il dubbio che l’indignazione umanitaria sia selettiva e strumentale: colpisce Israele (bersaglio politico) e non altri attori. Allo stesso modo, i contrari ricordano che nessuna flottiglia è mai stata organizzata per portare aiuti ai civili israeliani sotto i razzi di Hamas o per liberare gli ostaggi israeliani rapiti a Gaza. E infatti, per reazione, a metà 2025 alcuni familiari di ostaggi israeliani hanno lanciato l’idea provocatoria di una contro-flottiglia verso Gaza per chiedere notizie dei loro cari. Questo evidenzia come la Flotilla, lungi dall’unire, finisca per accentuare il clima da guerra d’informazione con iniziative contrapposte, distogliendo dall’obiettivo comune della protezione dei civili su entrambi i fronti.
I critici sostengono che la Global Sumud Flotilla rischia di minare i canali diplomatici seri per risolvere la crisi di Gaza. Ogni governo ha i suoi meccanismi per fare pressione su Israele – dal condizionare aiuti militari, al richiamo di ambasciatori, a mozioni parlamentari. Queste leve funzionano dietro le quinte e richiedono negoziati delicati. Se però l’attenzione pubblica viene catalizzata da azioni clamorose come la Flotilla, i politici potrebbero irrigidirsi: chi è amico di Israele per non darla vinta agli attivisti, chi è pro-Palestina per non sembrare tiepido rispetto alla “base” militante. Il risultato può essere una polarizzazione che blocca compromessi pragmatici. Ad esempio, l’Europa stava faticosamente cercando un accordo per una missione navale di sorveglianza nel Mediterraneo che garantisse aiuti a Gaza e sicurezza a Israele; ma se nel frattempo arriva una flotta “pirata” (così la definiscono i detrattori) ciò sabota il clima di fiducia necessario per iniziative concordate. In sintesi, dal punto di vista contrario, la Flotilla non solo non è efficace, ma è dannosa: non aiuta i palestinesi in modo tangibile, alimenta la propaganda di entrambe le parti estreme e complica gli sforzi seri di soluzione. La definiscono “gesto futile di radical chic internazionali”, destinato a creare rumore per pochi giorni e poi a cadere nell’oblio, mentre a Gaza tutto resta tragicamente uguale.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
07

L’azione avrà un impatto legale e giuridico internazionale

FAVOREVOLE

Un altro fronte su cui i sostenitori della Global Sumud Flotilla ne rivendicano l’efficacia riguarda il Diritto internazionale. Le missioni navali, anche quando bloccate, producono documentazione, testimonianze e prese di posizione che alimentano una crescente contestazione giuridica del blocco israeliano.
Dopo il fermo della nave Madleen a giugno 2025, due Relatori Speciali ONU hanno richiesto pubblicamente a Israele di garantire il “passaggio sicuro” alle navi umanitarie dirette a Gaza, sottolineando che l’assedio totale dal marzo 2025 viola apertamente il Diritto internazionale umanitario. ONG come Adalah hanno denunciato l’illegalità dell’intercettazione in acque internazionali, ricordando che quelle navi non erano dirette verso Israele ma verso acque palestinesi. Amnesty International e Human Rights Watch da anni definiscono il blocco una punizione collettiva, incompatibile con la IV Convenzione di Ginevra. Ogni flottiglia intercettata diventa quindi un caso di studio e un’opportunità per arricchire il dibattito giuridico globale.
Questo accumulo di materiale ha effetti concreti. In passato, il Palmer Report (ONU 2011) aveva giudicato legittimo il blocco in sé, ma criticato la gestione violenta del caso Mavi Marmara. Oggi, con la carestia riconosciuta dall’ONU e con i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale contro leader israeliani, il quadro è diverso. Le nuove flottiglie forniscono elementi per rimettere in discussione la validità stessa del blocco. Ad esempio, se gli attivisti dimostrano che Israele ostacola persino navi cariche solo di cibo e medicine, si rafforza la tesi che il blocco sia finalizzato non alla sicurezza ma a colpire i civili.
Le riprese video, i resoconti dei giornalisti imbarcati e le denunce legali presentate nei tribunali nazionali europei possono diventare prove in procedimenti futuri. Nel luglio 2025, alcuni avvocati hanno già avviato ricorsi presso corti francesi e spagnole contro il fermo arbitrario di cittadini loro connazionali a bordo della Handala. Simili azioni creano precedenti che possono obbligare i governi a pronunciarsi, alimentando un contenzioso multilivello. In prospettiva, queste pressioni giuridiche potrebbero contribuire a spingere Israele verso concessioni tattiche (come già avvenuto nel 2010 con l’alleggerimento dell’embargo).
La Flotilla agisce quindi come una sorta di “tribunale itinerante” che porta davanti agli occhi del mondo l’illegittimità di certe pratiche. Se Israele risponde con la forza, aumenta il rischio di nuove condanne internazionali e di sanzioni. Se invece tollera la navigazione, riconosce implicitamente il diritto alla libera circolazione verso Gaza. In entrambi i casi, osservano i sostenitori, la pressione legale cresce.
Il valore giuridico, dunque, si intreccia con quello normativo e reputazionale: nel Diritto internazionale, le consuetudini si formano anche attraverso atti di contestazione reiterati. Ogni flottiglia che si oppone pacificamente al blocco contribuisce a creare una prassi di dissenso che, nel tempo, può consolidarsi come norma: l’idea che assediare un’intera popolazione sia illegittimo. In questo senso, la Global Sumud Flotilla non è solo un’azione simbolica, ma un tassello di un più ampio processo di costruzione del diritto.

Nina Celli, 26 agosto 2025

 
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Il blocco contro la Flotilla è legittimo e doveroso: la sicurezza prima di tutto

CONTRARIO

Un ultimo filone di argomentazioni contrarie riguarda la legittimità giuridica e morale del blocco israeliano e la conseguente illegittimità delle flottiglie che lo violano. Secondo questa prospettiva, spesso sostenuta da esperti vicini ad ambienti militari o governativi israeliani, il blocco navale di Gaza è uno strumento di autodifesa essenziale in una situazione di conflitto armato. Citano a supporto il cosiddetto Palmer Report, l’indagine voluta dall’ONU nel 2011 sul caso Mavi Marmara: quel panel concluse che il blocco navale su Gaza “era imposto come misura di sicurezza legittima” per prevenire l’ingresso di armi, e dunque legale secondo il diritto internazionale. Non solo: il rapporto Palmer sottolineò che Israele aveva diritto di far rispettare il blocco anche in alto mare finché esso rispettava i criteri di proporzionalità. Gli israeliani ribattono alle accuse di “punizione collettiva” dicendo che il blocco navale è accompagnato dalla possibilità di far passare aiuti dopo ispezioni (come avviene ad Ashdod): la legge di guerra permette di bloccare navi neutrali se si sospetta trasportino rifornimenti al nemico, e finora – sostengono – nessuno a Gaza è morto di fame (tesi contestata dalle agenzie ONU, che però da anni parlano di crisi umanitaria grave e ora di vera carestia). In ogni caso, per gli oppositori più duri, mettere in discussione il blocco significa “minare il diritto di Israele a proteggersi dai terroristi”. Accettare che una flottiglia non autorizzata passi, aprirebbe la porta al rischio di contrabbandi su vasta scala: oggi c’è a bordo Greta con pacchi di pasta, domani potrebbe esserci qualcuno con casse di armi sotto falso nome. Il principio di precauzione militare impone quindi tolleranza zero: se si deve scegliere tra qualche condanna diplomatica per uno scontro con attivisti e l’esporre la propria popolazione al pericolo, Israele (o qualunque Stato) sceglierà la prima.
Chi sostiene la legalità del blocco spesso vede le flottiglie come una sorta di abuso del concetto umanitario per fini politici. Ad esempio, un’analisi del gruppo “Combat AntiSemitism” definisce la Sumud Flotilla “un grande stunt mediatico per delegittimare il diritto all’autodifesa di Israele”, con “quantità simboliche di aiuti” a bordo. Viene fatto notare che Gaza non è isolata perché Israele vuole “punire” la popolazione, ma perché dal 2007 è controllata da Hamas, che di fatto è in guerra con Israele. In una guerra – affermano – il blocco navale è un mezzo lecito e storicamente usato anche da democrazie occidentali (ad esempio il blocco alleato durante la Seconda Guerra Mondiale). Anzi, ricordano i critici, gli USA nell’ottobre 2023 avevano appoggiato inizialmente l’idea di un “blocco umanitario” di Gaza coinvolgendo navi occidentali, proprio per impedire il rifornimento di Hamas via mare. Dunque, la comunità internazionale comprende le ragioni di sicurezza dietro il blocco, anche se ne deplora le conseguenze civili. Delegittimare completamente il blocco come fanno gli attivisti (parlandone solo come genocidio) rischia di semplificare troppo: ignorare che Hamas resta armato, che continua a lanciare razzi (pur meno di prima), che se il mare fosse aperto arriverebbero probabilmente rifornimenti dall’Iran o altrove – come già successo in passato (ricordano la nave iraniana Karine A intercettata nel 2002 carica di missili). Da questo punto di vista, la Flotilla appare come un’ingenua o ipocrita iniziativa che pretende di agire come se Hamas non esistesse e Israele non avesse alcuna minaccia. Un editorialista del “Jerusalem Post” ha chiosato: “Se fosse davvero solo per aiuti, attraccherebbero ad Ashdod. Il fatto che rifiutino la nostra offerta mostra che dietro c’è altro”. In breve, la critica qui è che la Flotilla nega a Israele la simpatia e il beneficio del dubbio che invece meriterebbe come Stato sotto attacco terroristico da anni – ragion per cui molti nel mondo (anche governi arabi moderati) non supportano affatto queste missioni.
Il fronte contrario, dunque, ritiene che Global Sumud Flotilla non sia uno “strumento efficace” per la causa palestinese, ma un atto velleitario che produce più danni che vantaggi. Non porta sollievo tangibile, rischia vite umane, alimenta la propaganda estremista su entrambi i lati e mette in discussione un blocco che – per quanto duro – è parte di una realtà di guerra la cui soluzione deve essere cercata in sede diplomatica, non forzata da civili in barca. L’auspicio di chi è su questa linea è che prevalga la ragionevolezza: magari usando la spinta emotiva suscitata dalla Flotilla non per sfidare l’IDF in mare, ma per chiedere con forza vere tregue umanitarie e corridoi controllati via terra, evitando showdown pericolosi. In altri termini, aiutare i palestinesi sì, ma con i modi e i tempi giusti – e la Global Sumud Flotilla, secondo loro, non lo è.

Nina Celli, 26 agosto 2025

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